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Nicola Toffolini – Centometriquadri di verde acido
I lavori di Nicola Toffolini, come una certa parte della produzione artistica di questi ultimi anni, impongono allo spettatore uno sguardo diverso da quello a cui siamo solitamente abituati, uno sguardo senza parole, squisitamente intenso.
Comunicato stampa
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Progetto espositivo sviluppato in collaborazione con Enrico Lain e Eva Geatti.
Una produzione LipanjePuntin artecontemporanea con il sostegno di: Armare, Cumini, Dlp, Ceramiche Girardi, Marchiol Illuminotecnica e Targetti Sankey.
100metriquadridiverdeacido – sul lavoro senza nome di Nicola Toffolini
I lavori di Nicola Toffolini, come una certa parte della produzione artistica di questi ultimi anni, impongono allo spettatore uno sguardo diverso da quello a cui siamo solitamente abituati, uno sguardo senza parole, squisitamente intenso.
Credo si possa delineare, in modo sintomatico, un orizzonte comune all’arte del nostro tempo, ovvero il suo progressivo distacco da ogni linguaggio argomentativo. Certo, dovremmo circoscrivere il periodo a cui ci riferiamo in questa nostra affermazione, tuttavia la critica e la filosofia dell’arte non sembrano in grado di farlo. Dobbiamo prenderne atto, chiarendo che l’arte ha compiuto la propria emancipazione dal linguaggio, togliendo le parole a chi di esse ha fatto il proprio strumento più potente. Si tratta, fortunatamente, della possibilità di fare pulizia dalle scorie della chiacchiera per delineare una condizione altra, ovvero quella della contemporaneità tra la produzione artistica e la sua critica nel fine comune di pensare il mondo. Si ritroveranno così opere che silenziosamente contengono mondi, corpi pensanti e nudi che non hanno la necessità degli abiti significanti che la filosofia dell’arte ha finora tentato di cucire attorno ad essi.
Ci siamo posti così in una condizione scomoda, ovvero quella di dover usare un linguaggio che aderisca il più possibile all’opera, riconoscendo la propria diversità e dipendenza da essa. L’autoreferenzialità dell’opera e del pensiero critico andrà dunque ricercata in modo dialogico: teoria e prassi fondano, insieme, il pensiero del possibile.
Il primo sintomo del fatto che i lavori di Toffolini rientrano in questa tensione che abbiamo cercato di delineare è il dato che essi sono senza nome proprio. Evitando di ricadere nell’avvilente titolatura del senza titolo, i lavori dell’artefice friulano si offrono allo spettatore con nomi articolati che non delimitano l’opera, ma al contrario tentano di dar conto del processo che in essi si articola: Venire alla luce e lasciarci le penne, Il silenzioso sbrecciare, Dove comincia il suono di un albero e finisce il rumore del vento, L’Aria si fa tesa, Naturalmente Ciclico l’ambiente polifonico per piante claustrofobiche, Giù la tesa vs Su la testa, Sezione verticale di una piccola zolla, Stadio di crescita sotto pressione. Il nome non riesce a delimitare il processo poiché esso non ha propriamente né inizio né fine: esso o è ciclico o è estremamente dilatato rispetto all’istantaneità dello sguardo dello spettatore. Questa una delle ragioni che sembrano aver condotto Toffolini, esclusione fatta per due lavori inediti che verranno esposti a Trieste a dicembre, a ribordare le proprie opere con cornici ipertrofiche, o a rinchiuderli in teche di plexiglass. Potremmo parlare, inoltre, di una densità necessaria a condurre lo sguardo distratto all’attenzione, all’intensità contro il mero consumo estetico. Anzi, i lavori di Toffolini impongono una ridefinizione dell’estetica in chiave percettivo-intuitiva: essi non hanno una forma bella, quanto una forma esatta.
L’opera dell’artefice friulano non è tuttavia esente da un paradosso interno: come è possibile infatti far cooperare la discontinuità della tecnologia (il suo essere particolare) con l’unità dell’opera? Aggiungiamo: se il linguaggio della tecnologia è squisitamente spaziale (essa, appunto, delimita, recide il mondo, riduce il tutto in parti) come è possibile parlare, per l’opera di Toffolini, di ciclicità temporale e di durata dilatata? Si è detto che restiamo sempre prigionieri della tecnica, poiché essa è, analogamente al linguaggio, uno strumento di dominio a cui non possiamo rinunciare. Usare la tecnica nell’arte inficia la sua kantiana inutilità, al punto che solamente attraverso logiche dada e decontestualizzanti era stato possibile, fino ad oggi, costruire macchine, eventualmente celibi, da annoverare tra le opere d’arte. Il lavorio di Toffolini mira a ricongiungere le dicotomie introdotte dal padre dell’ermeneutica (Kant, appunto) con un fine preciso: riportare l’arte ad essere pensiero (e dunque anche pensiero tecnico, esattezza) e non più solo espressione attraverso forme belle. Aggiungiamo: il pensiero è logos, fondamento di un ordine di lettura del mondo, ciò che lega le cause agli effetti, le premesse ai risultati, l’inizio alla fine, la composizione al progetto. Quel paradosso interno di cui parlavamo più sopra è dunque risolto se accettiamo il fatto che l’arte non è più isolata al di sopra del mondo degli uomini, ma è tra gli uomini, pensiero logo-tecnico, unità di teoria e prassi, unione possibile tra la discontinuità dello spazio del linguaggio e della tecnica e la durata temporale della percezione e del pensiero.
Nel medesimo senso, infine, vanno intesi i lavori cartacei di Nicola Toffolini: essi non sono rappresentazioni isolate, quanto progetti che evolvono con le opere a cui si riferiscono. Essi sono la prima concretizzazione di una prassi, rappresentazioni diagrammatiche che enucleano interamente l’opera prima del suo materializzarsi. Nei lavori ancora inediti di Toffolini tale pensiero progettante sembra essere finalmente giunto alle porte dell’essenzialità, riducendo al minimo il contributo dato dalla tecnologia. La riduzione è stata raggiunta all’artefice friulano dopo aver concluso la sperimentazione tecnologica con Giù la testa vs Su la testa, al punto che la tecnica è finalmente divenuta modalità dell’artificio senza più doversi tradurre in tecnologia. Se riportare l’arte nel mondo significa ricondurla (non vogliatecene per la bestemmia) all’artigianato pre-argomentativo, allora il taglio dell’acciaio, la messa in forma del calcestruzzo e la rottura definitiva della cornice assumono il massimo della significanza. E noi non possiamo fare altro che attendere il momento in cui potremmo finalmente vedere.
Enrico Lain
Una produzione LipanjePuntin artecontemporanea con il sostegno di: Armare, Cumini, Dlp, Ceramiche Girardi, Marchiol Illuminotecnica e Targetti Sankey.
100metriquadridiverdeacido – sul lavoro senza nome di Nicola Toffolini
I lavori di Nicola Toffolini, come una certa parte della produzione artistica di questi ultimi anni, impongono allo spettatore uno sguardo diverso da quello a cui siamo solitamente abituati, uno sguardo senza parole, squisitamente intenso.
Credo si possa delineare, in modo sintomatico, un orizzonte comune all’arte del nostro tempo, ovvero il suo progressivo distacco da ogni linguaggio argomentativo. Certo, dovremmo circoscrivere il periodo a cui ci riferiamo in questa nostra affermazione, tuttavia la critica e la filosofia dell’arte non sembrano in grado di farlo. Dobbiamo prenderne atto, chiarendo che l’arte ha compiuto la propria emancipazione dal linguaggio, togliendo le parole a chi di esse ha fatto il proprio strumento più potente. Si tratta, fortunatamente, della possibilità di fare pulizia dalle scorie della chiacchiera per delineare una condizione altra, ovvero quella della contemporaneità tra la produzione artistica e la sua critica nel fine comune di pensare il mondo. Si ritroveranno così opere che silenziosamente contengono mondi, corpi pensanti e nudi che non hanno la necessità degli abiti significanti che la filosofia dell’arte ha finora tentato di cucire attorno ad essi.
Ci siamo posti così in una condizione scomoda, ovvero quella di dover usare un linguaggio che aderisca il più possibile all’opera, riconoscendo la propria diversità e dipendenza da essa. L’autoreferenzialità dell’opera e del pensiero critico andrà dunque ricercata in modo dialogico: teoria e prassi fondano, insieme, il pensiero del possibile.
Il primo sintomo del fatto che i lavori di Toffolini rientrano in questa tensione che abbiamo cercato di delineare è il dato che essi sono senza nome proprio. Evitando di ricadere nell’avvilente titolatura del senza titolo, i lavori dell’artefice friulano si offrono allo spettatore con nomi articolati che non delimitano l’opera, ma al contrario tentano di dar conto del processo che in essi si articola: Venire alla luce e lasciarci le penne, Il silenzioso sbrecciare, Dove comincia il suono di un albero e finisce il rumore del vento, L’Aria si fa tesa, Naturalmente Ciclico l’ambiente polifonico per piante claustrofobiche, Giù la tesa vs Su la testa, Sezione verticale di una piccola zolla, Stadio di crescita sotto pressione. Il nome non riesce a delimitare il processo poiché esso non ha propriamente né inizio né fine: esso o è ciclico o è estremamente dilatato rispetto all’istantaneità dello sguardo dello spettatore. Questa una delle ragioni che sembrano aver condotto Toffolini, esclusione fatta per due lavori inediti che verranno esposti a Trieste a dicembre, a ribordare le proprie opere con cornici ipertrofiche, o a rinchiuderli in teche di plexiglass. Potremmo parlare, inoltre, di una densità necessaria a condurre lo sguardo distratto all’attenzione, all’intensità contro il mero consumo estetico. Anzi, i lavori di Toffolini impongono una ridefinizione dell’estetica in chiave percettivo-intuitiva: essi non hanno una forma bella, quanto una forma esatta.
L’opera dell’artefice friulano non è tuttavia esente da un paradosso interno: come è possibile infatti far cooperare la discontinuità della tecnologia (il suo essere particolare) con l’unità dell’opera? Aggiungiamo: se il linguaggio della tecnologia è squisitamente spaziale (essa, appunto, delimita, recide il mondo, riduce il tutto in parti) come è possibile parlare, per l’opera di Toffolini, di ciclicità temporale e di durata dilatata? Si è detto che restiamo sempre prigionieri della tecnica, poiché essa è, analogamente al linguaggio, uno strumento di dominio a cui non possiamo rinunciare. Usare la tecnica nell’arte inficia la sua kantiana inutilità, al punto che solamente attraverso logiche dada e decontestualizzanti era stato possibile, fino ad oggi, costruire macchine, eventualmente celibi, da annoverare tra le opere d’arte. Il lavorio di Toffolini mira a ricongiungere le dicotomie introdotte dal padre dell’ermeneutica (Kant, appunto) con un fine preciso: riportare l’arte ad essere pensiero (e dunque anche pensiero tecnico, esattezza) e non più solo espressione attraverso forme belle. Aggiungiamo: il pensiero è logos, fondamento di un ordine di lettura del mondo, ciò che lega le cause agli effetti, le premesse ai risultati, l’inizio alla fine, la composizione al progetto. Quel paradosso interno di cui parlavamo più sopra è dunque risolto se accettiamo il fatto che l’arte non è più isolata al di sopra del mondo degli uomini, ma è tra gli uomini, pensiero logo-tecnico, unità di teoria e prassi, unione possibile tra la discontinuità dello spazio del linguaggio e della tecnica e la durata temporale della percezione e del pensiero.
Nel medesimo senso, infine, vanno intesi i lavori cartacei di Nicola Toffolini: essi non sono rappresentazioni isolate, quanto progetti che evolvono con le opere a cui si riferiscono. Essi sono la prima concretizzazione di una prassi, rappresentazioni diagrammatiche che enucleano interamente l’opera prima del suo materializzarsi. Nei lavori ancora inediti di Toffolini tale pensiero progettante sembra essere finalmente giunto alle porte dell’essenzialità, riducendo al minimo il contributo dato dalla tecnologia. La riduzione è stata raggiunta all’artefice friulano dopo aver concluso la sperimentazione tecnologica con Giù la testa vs Su la testa, al punto che la tecnica è finalmente divenuta modalità dell’artificio senza più doversi tradurre in tecnologia. Se riportare l’arte nel mondo significa ricondurla (non vogliatecene per la bestemmia) all’artigianato pre-argomentativo, allora il taglio dell’acciaio, la messa in forma del calcestruzzo e la rottura definitiva della cornice assumono il massimo della significanza. E noi non possiamo fare altro che attendere il momento in cui potremmo finalmente vedere.
Enrico Lain
04
dicembre 2004
Nicola Toffolini – Centometriquadri di verde acido
Dal 04 dicembre 2004 al 04 febbraio 2005
arte contemporanea
Location
LIPANJEPUNTIN ARTE CONTEMPORANEA
Trieste, Via Armando Diaz, 4, (Trieste)
Trieste, Via Armando Diaz, 4, (Trieste)
Orario di apertura
11.00-19.30 o su appuntamento Lunedì e festivi chiuso
Vernissage
4 Dicembre 2004, ore 19
Autore