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Olimpia Lalli – Giardini
16 fotografie a colori formato 50x50cm. di Olimpia Lalli che ci raccontano silenzi botanici circoscritti dal perimetro del giardino.
Comunicato stampa
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Lo sguardo di Olimpia nei giardini del tempo
di Marco Sangiorgi
L’uomo nasce in un giardino.
In verità, secondo il libro del Genesi, l’uomo fu creato nel deserto (“nessuna erba campestre era spuntata”) e solo in seguito posto nel giardino di Eden, che conteneva invece “ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare”; ma l’uomo nasce nel giardino, perché lì comincia a prendere coscienza di se stesso.
La sua prima prerogativa è un atto di forza e d’immaginazione: la possibilità di dare un nome ad ogni altra creatura vivente. Allo sguardo dell’uomo sul mondo segue la parola, la necessità di chiamare le cose col proprio nome; la costruzione del senso è conseguente.
Dunque, in origine l’uomo fu posto in un giardino.
Da quel momento e per sempre all’idea di giardino s’accompagnerà una sensazione dolce e malinconica, un’evocazione d’armonia e di serenità, troppo presto compromessa e perduta.
Il racconto mitico di ogni popolo colloca il momento natale dell’umanità in un luogo circoscritto e riparato, un recinto, un nido, un grembo vegetale umido e caldo. La vita ha bisogno, da subito, di protezione e custodia, ma anche di bellezza, meraviglia, contatto diretto con la natura e la terra. Quella terra, per Francesco sorella e madre, che in unione di utilità e grazia “produce diversi fructi con coloriti flori et herba”. Non si poteva dire meglio.
Immagine primigenia, il giardino è il luogo vitale per eccellenza.
L’albero della vita con il suo frutto prezioso; ma il giardino è anche, a chiusura del cerchio, il luogo del riposo, dell’oblio, della terra che accoglie il corpo e lo riassorbe, come le foglie che l’albero lascia cadere d’autunno, promessa di una rigenerazione futura.
Il giardino è un luogo chiuso.
Nella prima sezione della mostra, nelle fotografie di Olimpia Lalli s’intravede un muro, una porzione di prato, un frammento di cielo, il fogliame d’un albero, il contorno d’una cornice d’ombra. Il buio, l’oscurità ectoplasmatica di alcuni fotogrammi sono il respiro della visione, le pause dell’occhio che si apre e si chiude, la necessità di prendere fiato, esercitarsi alla temperanza, contenere l’emozione che l’immagine evoca di un ricordo d’infanzia, di un tempo lontano e perduto (mai veramente perduto), per ognuno depositato nel fondo della coscienza, all’occasione galleggiante nel limbo onirico notturno.
Lo sguardo che penetra nel giardino attraverso un pertugio misura una distanza, temporale e spaziale, definisce i contorni degli oggetti, la separazione tra l’esterno e l’interno, l’appartenenza e il distacco.
A un certo punto delle nostre vite, senza intenzione ma ineluttabilmente, abbiamo abbandonato il giardino, lo abbiamo lasciato lì, a custodire la luce dei nostri giorni d’infanzia, e forse il dolore di accadimenti luttuosi, di legami dissolti .
Lo suggerisce il cipresso che si scorge nel frantume di visione, sacro agli antichi, ornamentale nei cimiteri della romantica e decadente modernità, dalla corteccia trasudante resine profumate che anche noi adulti, mai veramente cresciuti, continuiamo a staccare e manipolare tra i polpastrelli, col gusto monello d’impiastricciarci un poco, impunemente.
La seconda sezione è una perlustrazione di luoghi visitati in un momento indefinito delle nostre esistenze, non importa se nel passato o nel recente presente, restituiti all’occhio come in uno stato di sospensione temporale, in una geografia degli spazi che pare limitata (cortili, sentieri presto interrotti a fianco degli edifici, una dimensione domestica solo apparente…) e insieme indefinita e insondabile. Si insinua un elemento straniante d’irrealtà, un disfacimento dei confini, delle forme, l’apertura a uno sguardo che lascia ampi margini all’immaginazione, che invita a pensarli fuori da ogni accertabile concretezza. Sono senz’altro composti della stessa materia dei miraggi, inavvicinabili. La posizione dell’osservatore è ancora una volta lontano, esterno, non può entrare a far parte del quadro, può solo sorvegliarlo, spiarlo a distanza, quei luoghi non accettano presenze, sono stati pensati per uomini e donne che ormai non li abitano più. Sembra che se ne siano andati da tempo, forse per non più ritornare.
(Ottobre 2009)
di Marco Sangiorgi
L’uomo nasce in un giardino.
In verità, secondo il libro del Genesi, l’uomo fu creato nel deserto (“nessuna erba campestre era spuntata”) e solo in seguito posto nel giardino di Eden, che conteneva invece “ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare”; ma l’uomo nasce nel giardino, perché lì comincia a prendere coscienza di se stesso.
La sua prima prerogativa è un atto di forza e d’immaginazione: la possibilità di dare un nome ad ogni altra creatura vivente. Allo sguardo dell’uomo sul mondo segue la parola, la necessità di chiamare le cose col proprio nome; la costruzione del senso è conseguente.
Dunque, in origine l’uomo fu posto in un giardino.
Da quel momento e per sempre all’idea di giardino s’accompagnerà una sensazione dolce e malinconica, un’evocazione d’armonia e di serenità, troppo presto compromessa e perduta.
Il racconto mitico di ogni popolo colloca il momento natale dell’umanità in un luogo circoscritto e riparato, un recinto, un nido, un grembo vegetale umido e caldo. La vita ha bisogno, da subito, di protezione e custodia, ma anche di bellezza, meraviglia, contatto diretto con la natura e la terra. Quella terra, per Francesco sorella e madre, che in unione di utilità e grazia “produce diversi fructi con coloriti flori et herba”. Non si poteva dire meglio.
Immagine primigenia, il giardino è il luogo vitale per eccellenza.
L’albero della vita con il suo frutto prezioso; ma il giardino è anche, a chiusura del cerchio, il luogo del riposo, dell’oblio, della terra che accoglie il corpo e lo riassorbe, come le foglie che l’albero lascia cadere d’autunno, promessa di una rigenerazione futura.
Il giardino è un luogo chiuso.
Nella prima sezione della mostra, nelle fotografie di Olimpia Lalli s’intravede un muro, una porzione di prato, un frammento di cielo, il fogliame d’un albero, il contorno d’una cornice d’ombra. Il buio, l’oscurità ectoplasmatica di alcuni fotogrammi sono il respiro della visione, le pause dell’occhio che si apre e si chiude, la necessità di prendere fiato, esercitarsi alla temperanza, contenere l’emozione che l’immagine evoca di un ricordo d’infanzia, di un tempo lontano e perduto (mai veramente perduto), per ognuno depositato nel fondo della coscienza, all’occasione galleggiante nel limbo onirico notturno.
Lo sguardo che penetra nel giardino attraverso un pertugio misura una distanza, temporale e spaziale, definisce i contorni degli oggetti, la separazione tra l’esterno e l’interno, l’appartenenza e il distacco.
A un certo punto delle nostre vite, senza intenzione ma ineluttabilmente, abbiamo abbandonato il giardino, lo abbiamo lasciato lì, a custodire la luce dei nostri giorni d’infanzia, e forse il dolore di accadimenti luttuosi, di legami dissolti .
Lo suggerisce il cipresso che si scorge nel frantume di visione, sacro agli antichi, ornamentale nei cimiteri della romantica e decadente modernità, dalla corteccia trasudante resine profumate che anche noi adulti, mai veramente cresciuti, continuiamo a staccare e manipolare tra i polpastrelli, col gusto monello d’impiastricciarci un poco, impunemente.
La seconda sezione è una perlustrazione di luoghi visitati in un momento indefinito delle nostre esistenze, non importa se nel passato o nel recente presente, restituiti all’occhio come in uno stato di sospensione temporale, in una geografia degli spazi che pare limitata (cortili, sentieri presto interrotti a fianco degli edifici, una dimensione domestica solo apparente…) e insieme indefinita e insondabile. Si insinua un elemento straniante d’irrealtà, un disfacimento dei confini, delle forme, l’apertura a uno sguardo che lascia ampi margini all’immaginazione, che invita a pensarli fuori da ogni accertabile concretezza. Sono senz’altro composti della stessa materia dei miraggi, inavvicinabili. La posizione dell’osservatore è ancora una volta lontano, esterno, non può entrare a far parte del quadro, può solo sorvegliarlo, spiarlo a distanza, quei luoghi non accettano presenze, sono stati pensati per uomini e donne che ormai non li abitano più. Sembra che se ne siano andati da tempo, forse per non più ritornare.
(Ottobre 2009)
13
dicembre 2009
Olimpia Lalli – Giardini
Dal 13 dicembre 2009 al 21 marzo 2010
fotografia
Location
GALLERIA OFFICINA FOTOGRAFICA
Lugo, Via T. Emaldi, 54/1, (Ravenna)
Lugo, Via T. Emaldi, 54/1, (Ravenna)
Orario di apertura
martedì e venerdì dalle ore 16 alle 19- mercoledì e sabato dalle ore 10 alle 13. dal 1 al 21 marzo 2010 visite solo su appuntamento
Vernissage
13 Dicembre 2009, ore 17
Autore
Curatore