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Omar Ronda / Paolo Vegas – cosa nostra sacro santo nostra cosa
Omar Ronda e Paolo Vegas hanno immaginato una serie di tableau vivant
per mettere in scena la parodia di alcuni tra i più noti “padrini” di mafia.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Omar Ronda con il fotografo
Paolo Vegas ha realizzato la serie Cosa nostra – Sacro Santo - Nostra cosa e ha deciso di presentarla nell’ambito di una manifestazione di carattere
internazionale: la 54° Biennale di Venezia. Nell’edizione di quest’anno in cui
si celebra il centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale, nella
rassegna lagunare è previsto uno spazio espositivo destinato al Museo della
mafia di Salemi voluto da Vittori Sgarbi. È naturale che qualcuno si possa
domandare: perché in una manifestazione così importante che coinvolge
ottantotto paesi, che di certo presenteranno al pubblico mondiale il meglio
della loro cultura, noi italiani mettiamo in mostra il fenomeno della criminalità
organizzata? Ebbene, a mio avviso, simile operazione non intende sminuire
l’italica creatività o genialità, né tanto meno è un vilipendio alla patria cultura,
ma un pressante invito alla collettiva presa di coscienza e all’azione. Perché
nascondendoli i problemi non si risolvono. Volenti o nolenti la mafia fa parte
della nostra società globalizzata. Non è un problema circoscritto ad una
singola regione italiana. Nel mondo di mafie ce ne sono molte e spesso sono
colluse con i poteri istituzionali, con l’alta finanza, l’imprenditoria, ma vanno a
minare anche il corretto e civile modo di pensare della gente comune.
Ognuno di noi è chiamato a fare la sua parte per debellare questa piaga,
anche gli artisti con i mezzi e la sensibilità del loro lavoro.
Omar Ronda e Paolo Vegas hanno immaginato una serie di tableau vivant
per mettere in scena la parodia di alcuni tra i più noti “padrini” di mafia. Essi
sfruttano l’arma dell’ironia per mettere in ridicolo questi boss, affinché non
possano esercitare alcuna fascinazione su coloro che, paradossalmente,
potrebbero ammirarne la personalità e il “potere”. Concettualmente
l’operazione messa in atto è simile a quella che Charlie Chaplin ha proposto
con Il grande dittatore (The Great Dictator): un film del 1940, che, nel pieno
della seconda guerra mondiale, ha rappresentato una fortissima satira del
nazismo e ha preso di mira direttamente Adolf Hitler facendolo assomigliare al comico e patetico. In maniera analoga Omar Ronda e Paolo Vegas hanno
trasformato i gangster in ridicoli personaggi, imprigionati nei ruoli dell’assurda
tragi-commedia che loro stessi hanno scritto e, purtroppo, imposto al mondo
con nefaste conseguenze. L’opinione pubblica conosce questi malavitosi attraverso le foto segnaletiche
diffuse dai telegiornali, oppure mediante i soprannomi e le relative immagini
stereotipate che gli sono state affibbiate. Da quest’ultime si è sviluppato
l’intervento artistico di Omar Ronda e Paolo Vegas che, intriso di intenzioni
tragicomiche, è basato su sosia, composizione sceniche e opportune
ambientazioni. Ronda e Vegas sono ben consapevoli che la mafia è una
questione seria, ma hanno scelto l’ironia, sebbene a volte venata di amaro
sarcasmo poiché alcune immagini fanno riferimento a efferati delitti o ad
azioni abominevoli, per esorcizzare la paura che questi malavitosi vorrebbero
imporre agli altri. Ecco allora che il famigerato Al Capone, capo dei capi nell’America del proibizionismo, è visto come un ubriacone, mentre Joe
Bonanno, che dal dopoguerra è stato al vertice di una delle più potenti
famiglie della malavita newyorkese ed è stato soprannominato Joe Bananas
per un errore di stampa su un giornale, è immaginato come un goloso
mangiatore di banane. Boss elegante (the dapper don) era considerato John
Gotti, perciò lo si fa apparire in versione “Febbre del sabato sera” mentre
sfoggia un caleidoscopico completo floreale con tanto di pantalone a zampa
d’elefante. Così Tano Badalamenti, capo dei narcotrafficanti della Pizza
connection, con un'altra “polvere bianca”, la farina, si cimenta nella
preparazione di un’enorme margherita infornata paradossalmente in una
betoniera (allusione, forse, alla macabra pratica mafiosa di far sparire i corpi
degli assassinati nelle strutture cementizie di qualche cantiere edile).
Personaggi e particolari che Ronda e Vegas hanno inserito nelle loro
messinscena non sono casuali, ma sempre riferibili alla storia del soggetto
ritratto, come, ad esempio, il prelato che dando l’estrema unzione a Carlo
Gambino lo dichiarò “morto in stato di grazia”; oppure i biglietti appesi come
pro-memoria (ovvero i pizzini con i quali impartiva gli ordini durante i
quarantatré anni di latitanza) e le immagini sacre che testimonitestimoniano
l’organizzazione e la “religiosità” di Bernardo Provenzano; o ancora i maniacali giochi e sperimentazioni con sostanze esplosive o chimiche di
Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella.
Omar Ronda, partendo dalle fotografie elaborate insieme a Paolo Vegas, ha
raggelato questo tanto assurdo quanto purtroppo reale teatro di malvagità nei
ghiacci sintetici dei suo Frozen portrait. I Frozen sono una serie,
corrispondente a una peculiare tecnica perfezionata nel tempo da Ronda,
attraverso la quale l’artista preleva dal mondo contingente immagini e
simulacri della realtà fondendoli con gli strati multicolori e traslucidi della
plastica. Omar Ronda isola alcuni aspetti della nostra quotidianità, li pone
sotto la lente d’ingrandimento dei colori e delle forme che attraggono la
nostra attenzione e ci obbliga a riflettere su ciò che vediamo. Cromie e
particolari non obliterano, ma sottolineano le immagini significanti. Ronda ha
elaborato questo suo modus operandi patendo da alcune osservazioni che ha
fatto addirittura negli anni della fanciullezza. L’artista ritiene, infatti, che il
primo “museo” che abbia visitato sia stato quello offerto dalla natura, ossia
l’ambiente delle valli e delle montagne biellesi dov’è nato. Quando era
bambino, ricorda, che ad attrarre la sua attenzione erano alcuni aspetti
particolari, come, ad esempio, le pozzanghere ghiacciate durante i mesi
invernali. In esse, al disotto dello strato solidificato, Omar ammirava quella
infinitesima porzione di natura che vi rimaneva intrappolata: foglie, piccoli
ramoscelli, insetti, piume, impronte di animali; ma anche oggetti
distrattamente e incoscientemente abbandonati dagli uomini: fogli di giornali,
pezzi di stoffa, rottami vari della quotidianità. A primavera gli capitava, invece,
di osservare gli insetti invischiati nelle secrezioni resinose degli alberi, un
fenomeno che aveva visto ripetuto anche nelle ambre preistoriche. Ebbene,
Ronda rimaneva affascinato da simili situazioni perché osservava che,
mentre tutt’intorno la natura cambiava lentamente giorno dopo giorno, quella
piccola porzione sotto il ghiaccio (o la resina) rimaneva sempre uguale, per un po’ sottratta alle ineluttabili e perenni leggi dell’universo per cui nulla si
crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Di solito i soggetti prediletti dall’artista nei Frozen portrait sono i divi
hollywoodiani, in primis Marilyn Monroe, le cui immagini Omar sottrae al
logorante e banalizzante flusso mass mediatico per rivestirle di nuova aura
estetica e trasformarle in icone immutabili nel tempo. Nella serie Cosa Nostra
- Sacro Santo - Nostra cosa, come sottintende il titolo stesso, Ronda ricorda
che la piaga mafiosa è una questione che riguarda tutti noi. Come ogni
questione umana è destinata a finire, sosteneva il giudice Falcone, e pertanto
dobbiamo adoperarci affinché ciò avvenga il più presto possibile. Allora
potremmo visitare il Museo della mafia e guardare i lavori pensando che i
ritratti dei boss sotto le plastiche colorate sono come gli insetti nelle ambre
fossili, ovvero i reperti di un tempo remoto che nessuno rimpiange.
Francesco Santaniello
Paolo Vegas ha realizzato la serie Cosa nostra – Sacro Santo - Nostra cosa e ha deciso di presentarla nell’ambito di una manifestazione di carattere
internazionale: la 54° Biennale di Venezia. Nell’edizione di quest’anno in cui
si celebra il centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale, nella
rassegna lagunare è previsto uno spazio espositivo destinato al Museo della
mafia di Salemi voluto da Vittori Sgarbi. È naturale che qualcuno si possa
domandare: perché in una manifestazione così importante che coinvolge
ottantotto paesi, che di certo presenteranno al pubblico mondiale il meglio
della loro cultura, noi italiani mettiamo in mostra il fenomeno della criminalità
organizzata? Ebbene, a mio avviso, simile operazione non intende sminuire
l’italica creatività o genialità, né tanto meno è un vilipendio alla patria cultura,
ma un pressante invito alla collettiva presa di coscienza e all’azione. Perché
nascondendoli i problemi non si risolvono. Volenti o nolenti la mafia fa parte
della nostra società globalizzata. Non è un problema circoscritto ad una
singola regione italiana. Nel mondo di mafie ce ne sono molte e spesso sono
colluse con i poteri istituzionali, con l’alta finanza, l’imprenditoria, ma vanno a
minare anche il corretto e civile modo di pensare della gente comune.
Ognuno di noi è chiamato a fare la sua parte per debellare questa piaga,
anche gli artisti con i mezzi e la sensibilità del loro lavoro.
Omar Ronda e Paolo Vegas hanno immaginato una serie di tableau vivant
per mettere in scena la parodia di alcuni tra i più noti “padrini” di mafia. Essi
sfruttano l’arma dell’ironia per mettere in ridicolo questi boss, affinché non
possano esercitare alcuna fascinazione su coloro che, paradossalmente,
potrebbero ammirarne la personalità e il “potere”. Concettualmente
l’operazione messa in atto è simile a quella che Charlie Chaplin ha proposto
con Il grande dittatore (The Great Dictator): un film del 1940, che, nel pieno
della seconda guerra mondiale, ha rappresentato una fortissima satira del
nazismo e ha preso di mira direttamente Adolf Hitler facendolo assomigliare al comico e patetico. In maniera analoga Omar Ronda e Paolo Vegas hanno
trasformato i gangster in ridicoli personaggi, imprigionati nei ruoli dell’assurda
tragi-commedia che loro stessi hanno scritto e, purtroppo, imposto al mondo
con nefaste conseguenze. L’opinione pubblica conosce questi malavitosi attraverso le foto segnaletiche
diffuse dai telegiornali, oppure mediante i soprannomi e le relative immagini
stereotipate che gli sono state affibbiate. Da quest’ultime si è sviluppato
l’intervento artistico di Omar Ronda e Paolo Vegas che, intriso di intenzioni
tragicomiche, è basato su sosia, composizione sceniche e opportune
ambientazioni. Ronda e Vegas sono ben consapevoli che la mafia è una
questione seria, ma hanno scelto l’ironia, sebbene a volte venata di amaro
sarcasmo poiché alcune immagini fanno riferimento a efferati delitti o ad
azioni abominevoli, per esorcizzare la paura che questi malavitosi vorrebbero
imporre agli altri. Ecco allora che il famigerato Al Capone, capo dei capi nell’America del proibizionismo, è visto come un ubriacone, mentre Joe
Bonanno, che dal dopoguerra è stato al vertice di una delle più potenti
famiglie della malavita newyorkese ed è stato soprannominato Joe Bananas
per un errore di stampa su un giornale, è immaginato come un goloso
mangiatore di banane. Boss elegante (the dapper don) era considerato John
Gotti, perciò lo si fa apparire in versione “Febbre del sabato sera” mentre
sfoggia un caleidoscopico completo floreale con tanto di pantalone a zampa
d’elefante. Così Tano Badalamenti, capo dei narcotrafficanti della Pizza
connection, con un'altra “polvere bianca”, la farina, si cimenta nella
preparazione di un’enorme margherita infornata paradossalmente in una
betoniera (allusione, forse, alla macabra pratica mafiosa di far sparire i corpi
degli assassinati nelle strutture cementizie di qualche cantiere edile).
Personaggi e particolari che Ronda e Vegas hanno inserito nelle loro
messinscena non sono casuali, ma sempre riferibili alla storia del soggetto
ritratto, come, ad esempio, il prelato che dando l’estrema unzione a Carlo
Gambino lo dichiarò “morto in stato di grazia”; oppure i biglietti appesi come
pro-memoria (ovvero i pizzini con i quali impartiva gli ordini durante i
quarantatré anni di latitanza) e le immagini sacre che testimonitestimoniano
l’organizzazione e la “religiosità” di Bernardo Provenzano; o ancora i maniacali giochi e sperimentazioni con sostanze esplosive o chimiche di
Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella.
Omar Ronda, partendo dalle fotografie elaborate insieme a Paolo Vegas, ha
raggelato questo tanto assurdo quanto purtroppo reale teatro di malvagità nei
ghiacci sintetici dei suo Frozen portrait. I Frozen sono una serie,
corrispondente a una peculiare tecnica perfezionata nel tempo da Ronda,
attraverso la quale l’artista preleva dal mondo contingente immagini e
simulacri della realtà fondendoli con gli strati multicolori e traslucidi della
plastica. Omar Ronda isola alcuni aspetti della nostra quotidianità, li pone
sotto la lente d’ingrandimento dei colori e delle forme che attraggono la
nostra attenzione e ci obbliga a riflettere su ciò che vediamo. Cromie e
particolari non obliterano, ma sottolineano le immagini significanti. Ronda ha
elaborato questo suo modus operandi patendo da alcune osservazioni che ha
fatto addirittura negli anni della fanciullezza. L’artista ritiene, infatti, che il
primo “museo” che abbia visitato sia stato quello offerto dalla natura, ossia
l’ambiente delle valli e delle montagne biellesi dov’è nato. Quando era
bambino, ricorda, che ad attrarre la sua attenzione erano alcuni aspetti
particolari, come, ad esempio, le pozzanghere ghiacciate durante i mesi
invernali. In esse, al disotto dello strato solidificato, Omar ammirava quella
infinitesima porzione di natura che vi rimaneva intrappolata: foglie, piccoli
ramoscelli, insetti, piume, impronte di animali; ma anche oggetti
distrattamente e incoscientemente abbandonati dagli uomini: fogli di giornali,
pezzi di stoffa, rottami vari della quotidianità. A primavera gli capitava, invece,
di osservare gli insetti invischiati nelle secrezioni resinose degli alberi, un
fenomeno che aveva visto ripetuto anche nelle ambre preistoriche. Ebbene,
Ronda rimaneva affascinato da simili situazioni perché osservava che,
mentre tutt’intorno la natura cambiava lentamente giorno dopo giorno, quella
piccola porzione sotto il ghiaccio (o la resina) rimaneva sempre uguale, per un po’ sottratta alle ineluttabili e perenni leggi dell’universo per cui nulla si
crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Di solito i soggetti prediletti dall’artista nei Frozen portrait sono i divi
hollywoodiani, in primis Marilyn Monroe, le cui immagini Omar sottrae al
logorante e banalizzante flusso mass mediatico per rivestirle di nuova aura
estetica e trasformarle in icone immutabili nel tempo. Nella serie Cosa Nostra
- Sacro Santo - Nostra cosa, come sottintende il titolo stesso, Ronda ricorda
che la piaga mafiosa è una questione che riguarda tutti noi. Come ogni
questione umana è destinata a finire, sosteneva il giudice Falcone, e pertanto
dobbiamo adoperarci affinché ciò avvenga il più presto possibile. Allora
potremmo visitare il Museo della mafia e guardare i lavori pensando che i
ritratti dei boss sotto le plastiche colorate sono come gli insetti nelle ambre
fossili, ovvero i reperti di un tempo remoto che nessuno rimpiange.
Francesco Santaniello
07
agosto 2011
Omar Ronda / Paolo Vegas – cosa nostra sacro santo nostra cosa
Dal 07 agosto al 07 settembre 2011
arte contemporanea
Location
COLLEGIO DEI GESUITI – MUSEO DELLA MAFIA / MUSEO DEL PAESAGGIO
Salemi, Via Francesco D'aguirre, (Trapani)
Salemi, Via Francesco D'aguirre, (Trapani)
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