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Orangotangotango
sezione scultura della rassegna di campagna Selvatico
Comunicato stampa
Segnala l'evento
La seconda mostra della rassegna Selvatico si divide in due spazi,
entrambi a Cotignola, che si affacciano su Corso Sforza: oltre agli
ambienti di Palazzo Sforza, ad accogliere i lavori degli artisti sarà
un bel edificio da poco ristrutturato dal comune: la ex Casa Tarlazzi.
Tutti e sei gli artisti invitati sono scultori e all’interno del loro
percorso mantengono e preservano un forte legame con i materiali e con
una certa attitudine “artigianale” che si riflette in una serie di
linguaggi che potremmo definire “caldi”.
Una radice animista li attraversa e rappresenta uno dei fili rossi che
lega e tiene insieme le differente ricerche, oltre alla loro comune
provenienza geografica e generazionale: pur avendo percorsi artistici
differenti (e di rilevanza nazionale) vivono infatti tutti in Romagna e
sono nati tra gli anni 60 e 70.
La divisione operata da Selvatico sulle discipline e sui generi non
tragga però in inganno: il lavoro degli artisti invitati e il confronto
tra essi parte da queste categorie anche per operare un rovesciamento o
una loro messa in discussione; si tratta perciò di una divisione un
poco semplicistica ma necessaria perché ci permette di mirare al cuore
del problema e scendere in profondità.
Uno spaccato laterale, perfiferico, parziale e partigiano su quella che
è la scultura oggi e su come la utilizzino (e/o se ne liberino) alcuni
giovani autori.
A Palazzo Sforza, Francesco Bocchini (Gatteo) che con la lamiera, il
ferro e la pittura costruisce dei quasi giocattoli (da guerra), che
sono animati da rudimentali meccanismi e rumori grotteschi; le sue
sculture sono aspre e crude, colorate, e hanno a che fare con la
dimensione dello scheletro (uno scheletro imbellettato per la festa)
che si riflette in un gioco ironico, crudele e spiazzante perennemente
in equilibrio tra forte e lieve, poetico e sgraziato. Una scultura
apparentemente fragile e nuda, di anima, di architettura svuotata che
si ibrida e mescola con il quadro e l’installazione e che si muove sul
terreno della leggerezza e dell’ effimero...
Gli altri due artisti che espongono in questo spazio sono Andrea
Salvatori (Solarolo) e Raniero Bittante (Ravenna); Salvatori
riutilizza, trasforma e reinventa, con una incredibile capacità tecnica
e manuale, le ceramiche dozzinali della nonna e della zia (quelle che
avevamo nelle case sui comodini, a centro tavola, o sui mobili buoni e
intoccabili del salotto): il suo è un intervento stupido, dissacrante,
ironico e crudele, capace di ridare nuova vita, con piccole aggiunte e
modifiche, altamente mimetiche, a esistenze e pensieri un po’ scontati
e prevedibili. E così un pugnale, una goccia di sangue, la violenza
dove non te l’aspetteresti mai, destabilizzano, spostano e ribaltano il
senso di queste immagini rassicuranti, innocue e borghesi, infondendo
nuova linfa: ecco allora una damina settecentesca, timorosa, delicata
ed ingenua fare a pezzi, come se niente fosse, un terribile mostro
della palude senza esserne turbata o intaccata minimamente, e così via
in una serie di varianti e citazioni filmiche sorprendenti, spassose e
malvagie. Il gioco della ceramica come materiale prezioso si rovescia
poi in audaci cortocircuiti quando è un giocattolo ad essere
riabilitato artisticamente e “reso eterno”, e fragile allo stesso
tempo, da questo antichissimo materiale.
Bittante è accomunato in qualche modo a Andrea Salvatori da una certa
poetica del micro: il suo intervento scultoreo si riduce a piccole e
minuscole testine e omini di gesso inseriti in paesaggi bucolici o in
interni (letti e corridoi) più metafisico-esistenzial-misteriosi (quasi
horror) realizzati ad incisione (con una tecnica quasi fredda e
oggettiva, da banconota o illustrazione). L'effetto è magico,
catturante e claustrofobico, di azione o accadimento che tardano a
venire; questa frustrante sospensione che azzera la narrazione (cosa è
successo? cosa sta per succedere o succederà?) si risolve in una grande
potenza e forza evocativa, di contemplazione incantata e stupita, o di
sordità anestetica che finisce per tramutarsi in una lievità assurda,
di dolce e surreale straniamento, come avviene nei suoi video che sono
a metà strada tra il sogno e un carillon (ecco di nuovo il suono come
in Bocchini).
Presso la ex Casa Tarlazzi espongono Erich e Verter Turroni
(Gambettola) che, pur avendo lavori e sensibilità differenti, partono
da alcuni materiali industriali comuni a entrambi, quali la vetroresina
e altro (dalla gommapiuma alla plastica); l’alchimia nel e del loro
intervento riesce a rendere “naturali” queste cose e robe da cantiere,
creando e riportando alla luce una sorta di nuova e sconosciuta
archeologia dell'uomo o simili. Una poetica del reperto come se ciò che
è presente nella loro scultura (e immagini) fosse il frutto o il
risultato di perdita o catastrofe, di un incendio che ha bruciato,
corroso e brunito le cose; suppellettili, resti, presenze, fantasmi,
frammenti di storia e storie dissotterrate che i Turroni custodiscono,
salvano, trovano, scoprono e proteggono con un atteggiamento
perennemente stupito. Enigmi, tenebre e forse affetti da riportare
alla luce.
Infine Vernocchi (Gatteo) che utilizza la ceramica per creare texture
sorprendenti che ottiene pressando la terra e filtrandola attraverso le
maglie di reti di vecchi letti che cuoce poi alla fornace; la terra
come materiale magico, vivo e organico e che con un gesto quasi
meccanico (che assomiglia alla pressa per i passatelli) è capace di
liberare e creare paesaggi biologici, frementi e in fermento,
brulicanti e in trasformazione; pianeti lontani e sconosciuti, visioni
al microscopio, in un continuo rimando dal grande al piccolo, dalla
pelle smaltata e raffinata dello smalto alla ruvidità del telaio di
ferro (che è basamento e scultura allo stesso tempo), dalla pesantezza
della scultura al dettaglio raffinato e di grande eleganza.
entrambi a Cotignola, che si affacciano su Corso Sforza: oltre agli
ambienti di Palazzo Sforza, ad accogliere i lavori degli artisti sarà
un bel edificio da poco ristrutturato dal comune: la ex Casa Tarlazzi.
Tutti e sei gli artisti invitati sono scultori e all’interno del loro
percorso mantengono e preservano un forte legame con i materiali e con
una certa attitudine “artigianale” che si riflette in una serie di
linguaggi che potremmo definire “caldi”.
Una radice animista li attraversa e rappresenta uno dei fili rossi che
lega e tiene insieme le differente ricerche, oltre alla loro comune
provenienza geografica e generazionale: pur avendo percorsi artistici
differenti (e di rilevanza nazionale) vivono infatti tutti in Romagna e
sono nati tra gli anni 60 e 70.
La divisione operata da Selvatico sulle discipline e sui generi non
tragga però in inganno: il lavoro degli artisti invitati e il confronto
tra essi parte da queste categorie anche per operare un rovesciamento o
una loro messa in discussione; si tratta perciò di una divisione un
poco semplicistica ma necessaria perché ci permette di mirare al cuore
del problema e scendere in profondità.
Uno spaccato laterale, perfiferico, parziale e partigiano su quella che
è la scultura oggi e su come la utilizzino (e/o se ne liberino) alcuni
giovani autori.
A Palazzo Sforza, Francesco Bocchini (Gatteo) che con la lamiera, il
ferro e la pittura costruisce dei quasi giocattoli (da guerra), che
sono animati da rudimentali meccanismi e rumori grotteschi; le sue
sculture sono aspre e crude, colorate, e hanno a che fare con la
dimensione dello scheletro (uno scheletro imbellettato per la festa)
che si riflette in un gioco ironico, crudele e spiazzante perennemente
in equilibrio tra forte e lieve, poetico e sgraziato. Una scultura
apparentemente fragile e nuda, di anima, di architettura svuotata che
si ibrida e mescola con il quadro e l’installazione e che si muove sul
terreno della leggerezza e dell’ effimero...
Gli altri due artisti che espongono in questo spazio sono Andrea
Salvatori (Solarolo) e Raniero Bittante (Ravenna); Salvatori
riutilizza, trasforma e reinventa, con una incredibile capacità tecnica
e manuale, le ceramiche dozzinali della nonna e della zia (quelle che
avevamo nelle case sui comodini, a centro tavola, o sui mobili buoni e
intoccabili del salotto): il suo è un intervento stupido, dissacrante,
ironico e crudele, capace di ridare nuova vita, con piccole aggiunte e
modifiche, altamente mimetiche, a esistenze e pensieri un po’ scontati
e prevedibili. E così un pugnale, una goccia di sangue, la violenza
dove non te l’aspetteresti mai, destabilizzano, spostano e ribaltano il
senso di queste immagini rassicuranti, innocue e borghesi, infondendo
nuova linfa: ecco allora una damina settecentesca, timorosa, delicata
ed ingenua fare a pezzi, come se niente fosse, un terribile mostro
della palude senza esserne turbata o intaccata minimamente, e così via
in una serie di varianti e citazioni filmiche sorprendenti, spassose e
malvagie. Il gioco della ceramica come materiale prezioso si rovescia
poi in audaci cortocircuiti quando è un giocattolo ad essere
riabilitato artisticamente e “reso eterno”, e fragile allo stesso
tempo, da questo antichissimo materiale.
Bittante è accomunato in qualche modo a Andrea Salvatori da una certa
poetica del micro: il suo intervento scultoreo si riduce a piccole e
minuscole testine e omini di gesso inseriti in paesaggi bucolici o in
interni (letti e corridoi) più metafisico-esistenzial-misteriosi (quasi
horror) realizzati ad incisione (con una tecnica quasi fredda e
oggettiva, da banconota o illustrazione). L'effetto è magico,
catturante e claustrofobico, di azione o accadimento che tardano a
venire; questa frustrante sospensione che azzera la narrazione (cosa è
successo? cosa sta per succedere o succederà?) si risolve in una grande
potenza e forza evocativa, di contemplazione incantata e stupita, o di
sordità anestetica che finisce per tramutarsi in una lievità assurda,
di dolce e surreale straniamento, come avviene nei suoi video che sono
a metà strada tra il sogno e un carillon (ecco di nuovo il suono come
in Bocchini).
Presso la ex Casa Tarlazzi espongono Erich e Verter Turroni
(Gambettola) che, pur avendo lavori e sensibilità differenti, partono
da alcuni materiali industriali comuni a entrambi, quali la vetroresina
e altro (dalla gommapiuma alla plastica); l’alchimia nel e del loro
intervento riesce a rendere “naturali” queste cose e robe da cantiere,
creando e riportando alla luce una sorta di nuova e sconosciuta
archeologia dell'uomo o simili. Una poetica del reperto come se ciò che
è presente nella loro scultura (e immagini) fosse il frutto o il
risultato di perdita o catastrofe, di un incendio che ha bruciato,
corroso e brunito le cose; suppellettili, resti, presenze, fantasmi,
frammenti di storia e storie dissotterrate che i Turroni custodiscono,
salvano, trovano, scoprono e proteggono con un atteggiamento
perennemente stupito. Enigmi, tenebre e forse affetti da riportare
alla luce.
Infine Vernocchi (Gatteo) che utilizza la ceramica per creare texture
sorprendenti che ottiene pressando la terra e filtrandola attraverso le
maglie di reti di vecchi letti che cuoce poi alla fornace; la terra
come materiale magico, vivo e organico e che con un gesto quasi
meccanico (che assomiglia alla pressa per i passatelli) è capace di
liberare e creare paesaggi biologici, frementi e in fermento,
brulicanti e in trasformazione; pianeti lontani e sconosciuti, visioni
al microscopio, in un continuo rimando dal grande al piccolo, dalla
pelle smaltata e raffinata dello smalto alla ruvidità del telaio di
ferro (che è basamento e scultura allo stesso tempo), dalla pesantezza
della scultura al dettaglio raffinato e di grande eleganza.
08
aprile 2006
Orangotangotango
Dall'otto al 23 aprile 2006
arte contemporanea
Location
PALAZZO SFORZA
Cotignola, Corso Sforza, 21, (Ravenna)
Cotignola, Corso Sforza, 21, (Ravenna)
Orario di apertura
feriali dalle 16 alle 18.30
festivi dalle 10 alle 12 e dalle 15.30 alle 18.30
Chiuso il lunedì e giorno di Pasqua
Vernissage
8 Aprile 2006, ore 18
Autore
Curatore