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Orietta Masin – Le Nostre Case
PARVA, SED APTA MIHI? Come in un film di Bergman, come nella storia di tante vite comuni, tutto inizia da una foto dell’album di famiglia: una torta di compleanno, due braccia che la racchiudono, due sguardi che convergono su di essa, carezzevoli e un po’timidi nell’espressione del loro affetto.
Comunicato stampa
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Padre e figlia.È la prima ed ultima volta che li vediamo insieme. Poi si opera una cesura. Compare una porta, desolatamente distesa a terra, che pone in comunicazione (o forse sottolinea l’illusorietà di tale prospettiva) le due dimensioni d’ora in poi fondamentali: un sopra e un sotto, un muto dialogo fra luce ed ombra, che continua al riparo (o nella prigione?) dello spazio domestico.
La realtà del presente è sospesa in un silenzio che non pare quello dell’attesa, ma di un’assorta contemplazione del ricordo; il luogo degli affetti si richiude su se stesso, sintetizzandosi in una forma che troviamo specularmente riflessa in case radicate nella propria alterità sommersa, o moltiplicata nel galleggiare delle medesime case in un pulviscolo. Diacronicamente aggregato da una versione ancora una volta a forma di mura e spioventi del clinamen descritto da Lucrezio, l’oggetto simbolo della condizione emotiva si fa particella costitutiva del tutto, nell’impercettibile flusso della vita: “La materia non forma un blocco strettamente pressato e coerente; ogni corpo si logora – lo vediamo – e sembra come svanire nella lontananza del tempo sottraendo ai nostri occhi il suo invecchiamento. L’insieme resta intatto: gli elementi, distaccandosi da ogni corpo e diminuendo quello che abbandonano, accrescono quello cui s’uniscono: costringono quello a invecchiare, questo a sbocciare” . Sotto le case-atomo, fiorellini di pezza.
Ma sono abitate, queste case? Ospitano ancora dinamiche sentimentali, nuovi germogli, o sono divenute altro, nell’adesione metaforica a una delle più radicali fra le scelte d’esistenza possibili? Sono case che appaiono come entità insondabili, cieche componenti di un bicipite elemento seriale, o che al più distillano in un solo ambiente il proprio respiro. Un solo ambiente: la soglia su cui rimane appostato il gatto, che non fosse per la tenda scostata potremmo immaginarci fatto di basalto, come una scultura funeraria egizia; l’unico balconcino fiorito, che evoca l’idea di profumi e petali freschi, ma che testimonia più il senso d’una memoria affettiva che un’umana, concreta presenza, quasi fosse un larario della domus in cui si consuma il culto di chi è stato; la stanza illuminata da cui i pensieri, che gravano come una soffocante matassa sul resto della casa, vengono scacciati da un ironico soffio di vento che scuote il drappeggio alla finestra; la camera al primo piano nella quale cresce, improponibile, un praticello verde.
Assurdo e inquietante, pare la versione erbosa dei “pantani per ciechi” di un romanzo surrealista, allestiti ai piani alti d’una palazzina; in “una camera da letto che rappresenta il mondo” o sul pavimento/soffitto di una casa ribaltata, quel tappeto fiorito, dal cui fondo pulsa una luce, rimane drammaticamente legato all’idea di oltretomba. Il mondo delle ombre, nella sua facies più lieve, invade gli spazi di una quotidianità rimasta vacante della propria fisica interazione; non diversamente da come, in altre case, sugli intonaci si estende – nuova pelle – la trama di una tappezzeria da interni, nel rovesciamento all’infuori di un senso di intimità che ormai è divenuto ultima speranza strutturale di resistenza dell’edificio.
L’unica alternativa sarebbe voltare pagina. Ma nella saletta da pranzo, dove tutto pare ancora ruotare intorno al tavolo della scena iniziale, le sedie sono rimaste vuote e sopra a tutto si è depositata una polvere spessa, ovattata. Il tempo… Che sapore avrà?
La sacralità implicita di quel desco è ribadita dal suo proporsi in forma di elemento centrale di un trittico a sportelli aperti, che gli offre una superficie a specchio in luogo della foglia d’oro ed enfatizza così il circuito chiuso della ricorrente dimensione d’interno.
Qui si chiuderebbe con melanconica grazia il discorso, non fosse che, nell’assenza di figure percorsa dallo sguardo, si disegnano parole, come scritte sul vetro con un dito: poche sillabe di un verso, ma decisive… Perché sono parole di poesia, e chi le traccia ha finalmente capito; ora “sa che si può nascere da quelle parole” .
Fulvio Dell'Agnese
La realtà del presente è sospesa in un silenzio che non pare quello dell’attesa, ma di un’assorta contemplazione del ricordo; il luogo degli affetti si richiude su se stesso, sintetizzandosi in una forma che troviamo specularmente riflessa in case radicate nella propria alterità sommersa, o moltiplicata nel galleggiare delle medesime case in un pulviscolo. Diacronicamente aggregato da una versione ancora una volta a forma di mura e spioventi del clinamen descritto da Lucrezio, l’oggetto simbolo della condizione emotiva si fa particella costitutiva del tutto, nell’impercettibile flusso della vita: “La materia non forma un blocco strettamente pressato e coerente; ogni corpo si logora – lo vediamo – e sembra come svanire nella lontananza del tempo sottraendo ai nostri occhi il suo invecchiamento. L’insieme resta intatto: gli elementi, distaccandosi da ogni corpo e diminuendo quello che abbandonano, accrescono quello cui s’uniscono: costringono quello a invecchiare, questo a sbocciare” . Sotto le case-atomo, fiorellini di pezza.
Ma sono abitate, queste case? Ospitano ancora dinamiche sentimentali, nuovi germogli, o sono divenute altro, nell’adesione metaforica a una delle più radicali fra le scelte d’esistenza possibili? Sono case che appaiono come entità insondabili, cieche componenti di un bicipite elemento seriale, o che al più distillano in un solo ambiente il proprio respiro. Un solo ambiente: la soglia su cui rimane appostato il gatto, che non fosse per la tenda scostata potremmo immaginarci fatto di basalto, come una scultura funeraria egizia; l’unico balconcino fiorito, che evoca l’idea di profumi e petali freschi, ma che testimonia più il senso d’una memoria affettiva che un’umana, concreta presenza, quasi fosse un larario della domus in cui si consuma il culto di chi è stato; la stanza illuminata da cui i pensieri, che gravano come una soffocante matassa sul resto della casa, vengono scacciati da un ironico soffio di vento che scuote il drappeggio alla finestra; la camera al primo piano nella quale cresce, improponibile, un praticello verde.
Assurdo e inquietante, pare la versione erbosa dei “pantani per ciechi” di un romanzo surrealista, allestiti ai piani alti d’una palazzina; in “una camera da letto che rappresenta il mondo” o sul pavimento/soffitto di una casa ribaltata, quel tappeto fiorito, dal cui fondo pulsa una luce, rimane drammaticamente legato all’idea di oltretomba. Il mondo delle ombre, nella sua facies più lieve, invade gli spazi di una quotidianità rimasta vacante della propria fisica interazione; non diversamente da come, in altre case, sugli intonaci si estende – nuova pelle – la trama di una tappezzeria da interni, nel rovesciamento all’infuori di un senso di intimità che ormai è divenuto ultima speranza strutturale di resistenza dell’edificio.
L’unica alternativa sarebbe voltare pagina. Ma nella saletta da pranzo, dove tutto pare ancora ruotare intorno al tavolo della scena iniziale, le sedie sono rimaste vuote e sopra a tutto si è depositata una polvere spessa, ovattata. Il tempo… Che sapore avrà?
La sacralità implicita di quel desco è ribadita dal suo proporsi in forma di elemento centrale di un trittico a sportelli aperti, che gli offre una superficie a specchio in luogo della foglia d’oro ed enfatizza così il circuito chiuso della ricorrente dimensione d’interno.
Qui si chiuderebbe con melanconica grazia il discorso, non fosse che, nell’assenza di figure percorsa dallo sguardo, si disegnano parole, come scritte sul vetro con un dito: poche sillabe di un verso, ma decisive… Perché sono parole di poesia, e chi le traccia ha finalmente capito; ora “sa che si può nascere da quelle parole” .
Fulvio Dell'Agnese
14
maggio 2011
Orietta Masin – Le Nostre Case
Dal 14 al 28 maggio 2011
arte contemporanea
Location
CENTRO CULTURALE ALDO MORO
Cordenons, Via Traversagna, 4, (Pordenone)
Cordenons, Via Traversagna, 4, (Pordenone)
Orario di apertura
Dal lunedì al sabato ore 16-19 sclusi giorni festivi
Vernissage
14 Maggio 2011, ore 18,00
Autore
Curatore