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Padraig Timoney / 1:1.000.000.000
personale e collettiva nelle due gallerie napoletane
Comunicato stampa
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La visualizzazione di un’immagine e le caratteristiche tecniche atte alla sua riproduzione sono senz’altro aspetti fondamentali della ricerca artistica. Storicamente questo aspetto è stato più volte tenuto in considerazione dagli artisti nelle diverse epoche storiche e a alle possibilità espressive che le tecnologie potevano offrirgli. Nel contempo la diffusa capacità e perizia tecnica della riproduzione dell’immagine ha imposto ai creatori nuovi risvolti sia interpretativi che situazioni di crisi a seconda della loro sensibilità in rapporto alla necessità della produzione dell’immagine.
Questo desiderio di tecniche che ci riconducano ad un processo di riappropriazione della manualità della riproduzione artistica ed anche il rapporto del processo che ha prodotto l’opera e l’immagine e la storia che la costituisce non nega la tecnologia ma anzi la ricontestualizza nella incessante richiesta di umanizzazione del prodotto senza che essa debba necessariamente mostrare la modernità tecnica da cui può derivare. Padraig Timoney trova la sua connotazione proprio nella capacità di produrre immagini che tecnicamente e concettualmente contengano i principi con cui si dipana l’incessante necessità di chiarire gli aspetti del mondo attraverso l’opera artistica. Questa nella visione dell’artista irlandese non si affranca dalla storicità né tantomeno rifugge al confronto della contemporaneità in una nostalgica visione dei materiali o soddisfacimento edonistico della perizia artistica. La diversità delle tecniche o dei linguaggi utilizzati non vogliono dimostrare una presunta ecletticità visuale ma anzi affermare come le parti di questo macro e microcosmo siano parti integranti della visione della contemporaneità dell’opera nell’attuale contesto in cui viviamo. Esemplificando potremmo definire il tutto come un ipertesto visuale in cui gli elementi si combinano fra loro senza mai tradire la pecularietà del contenuto della singola opera a favore o sfavore di un’altra, senza mai banalmente svelare quale sia il centro o parte di essa perché tutto esiste e trova nella sua stessa esistenza la ragione di essere presente e partecipe al processo creativo che sottende la realizzazione dell’immagine. In ciò vi è anche l’affermazione dell’importanza dell’opera quale unicum creativo dell’artista e la capacità di tradurre in immagine il contenuto attraverso la tecnica della realizzazione e del suo processo. In questa mostra l’artista espone un grande dipinto “Museum Metropolitan” la cui immagine è stata sottratta dalla metropolitana di Napoli; essa è l’immagine di una grande lastra di metallo posizionata nella metro per essere spazio veicolatore di pubblicità e quindi di altre immagini. L’artista ricontestualizza l’immagine, attraverso la pittura, e riproduce ciò che è contenuto da questa superficie semispecchiante e ciò che ci appare è la visione del suo riflesso che contemporaneamente sembra fornirci elementi per la visione distorta di un paesaggio metropolitano. Ad accompagnare il grande dipinto Timoney pone alcune immagini fotografiche: in una ritrae un grande camion nero, quasi una veicolazione cosmica di un elemento che assorbe ogni fonte di luce e a maggior ragione se si pensa alle sue proporzione e a quello che misteriosamente potrebbe contenere; l’altra foto è doppia e mostra due identici paesaggi e quella di un personaggio di un film in bianco e nero e a colori. Questa ultima immagine ci conduce ancora una volta ad uno dei temi cari all’artista che ci dice che l’assimilazione di un’immagine ha tre gradi di registrazione : l’attimo in cui percepiamo, quello in cui si fissa nella nostra mente ed infine quando questa diviene memoria interiorizzata. Nulla di ciò che percepiamo è perduto nella nostra mente , le immagini ci soccorrono o emergono dal nostro profondo subconscio e l’artista ripone su stesso la possiblità e la necessità di poterle tradurre, attraverso diverse tecniche, alla nostra visione.
____________________________________________
La rappresentazione dello spazio è sempre stata una prerogativa dell’opera; sia che questo sia solo descritto dalle immagini o che nascondi, attraverso il processo di realizzazione o da impliciti o espliciti riferimenti, una dimensione diversa da quella che ci appare. Le possibilità di rappresentazione o di collocazione del soggetto o dello spazio meramente inteso sono infinite cosi che il titolo della mostra 1:1000.000.000 evidenzia il rapporto dilatato dell’applicazione della creatività in relazione alla rappresentazione tridimensionale contenuta nell’opera. Gli artisti che si confrontano con questo tipo di rapporto hanno esperienze e attitudini diverse ed amano relazionarsi con l’immagine attraverso espressioni formali che meglio possano appagare il binomio creatività e rappresentazione dello spazio :
MAT COLLISHAW ha sempre cercato attraverso l’immagine un rapporto di intermediazione tra ciò che ci appare e il contenuto che suggerisce l’analisi degli elementi che formano la rappresentazione anche in relazione ad espliciti riferimenti iconografici. Nel caso delle foto esposte i soggetti ritratti, giovani madri con i loro bambini, guardano una candela così come il famoso dipinto di Georges de La Tour. La loro posizione è circondata dallo spazio oscuro, le forme delineate dalla flebile luce della candela ed infine la loro immobilità costretta all’interno dell’ immagine dove l’ implicito desiderio è quello di immaginarsi in un'altra posizione più confortevole ed appagante. Lo spazio in questo caso è descritto da chi produce l’ immagine e da chi, interpretandola, pone se stessa nel desiderio di un’altra dimensione.
WILLIAM CURWEN espone delle immagini fotografiche stampate con inchiostro a pigmenti su carta di cotone che possono ricondurci ad un’ immaginario romantico e surreale come i dipinti di Turner. I luoghi descritti sono paesaggi o interni dove il mezzo tecnico fotografico ha una primaria importanza nella rappresentazione dello spazio. Il procedimento usato è quello di 3 scatti fotografici nel classico bianco e nero combinato da tre filtri fotografici in rosso, blù e verde che vengono riassemblati con l’utilizzo del computer sovrapponendo le 3 immagini colorate e restituendoci così l’immagine nella sua cromia naturale. Lo spazio esterno è codificato nei dettagli attraverso lo schermo del computer per riportarci le dimensioni presenti nel reale che nell’immagine percepita si riconfigura irreale e quasi atemporale.
HERVE INGRAND nell’ ossessiva ricerca della dimensione della memoria dello spazio dell’atelier, che attraversa tutto il suo percorso artistico fino ad essere esso stesso l’oggetto del dipingere, riproduce nelle sue tele il documento del fare arte e l’esperienza legata a quel tempo e a quello spazio. Il soggetto rappresentato, in questo caso è l’isola dell’atelier dipinto nel deserto del Sahara. Questo spazio, della regione in Francia in cui è presente il suo atelier, oggi è rappresentato in forma di dipinto bidimensionale e documenta ciò che in realtà avveniva, a guisa di tela dipinta e posta sulle dune, nella vastità immobile di uno dei più grandi deserti al mondo.
Questo desiderio di tecniche che ci riconducano ad un processo di riappropriazione della manualità della riproduzione artistica ed anche il rapporto del processo che ha prodotto l’opera e l’immagine e la storia che la costituisce non nega la tecnologia ma anzi la ricontestualizza nella incessante richiesta di umanizzazione del prodotto senza che essa debba necessariamente mostrare la modernità tecnica da cui può derivare. Padraig Timoney trova la sua connotazione proprio nella capacità di produrre immagini che tecnicamente e concettualmente contengano i principi con cui si dipana l’incessante necessità di chiarire gli aspetti del mondo attraverso l’opera artistica. Questa nella visione dell’artista irlandese non si affranca dalla storicità né tantomeno rifugge al confronto della contemporaneità in una nostalgica visione dei materiali o soddisfacimento edonistico della perizia artistica. La diversità delle tecniche o dei linguaggi utilizzati non vogliono dimostrare una presunta ecletticità visuale ma anzi affermare come le parti di questo macro e microcosmo siano parti integranti della visione della contemporaneità dell’opera nell’attuale contesto in cui viviamo. Esemplificando potremmo definire il tutto come un ipertesto visuale in cui gli elementi si combinano fra loro senza mai tradire la pecularietà del contenuto della singola opera a favore o sfavore di un’altra, senza mai banalmente svelare quale sia il centro o parte di essa perché tutto esiste e trova nella sua stessa esistenza la ragione di essere presente e partecipe al processo creativo che sottende la realizzazione dell’immagine. In ciò vi è anche l’affermazione dell’importanza dell’opera quale unicum creativo dell’artista e la capacità di tradurre in immagine il contenuto attraverso la tecnica della realizzazione e del suo processo. In questa mostra l’artista espone un grande dipinto “Museum Metropolitan” la cui immagine è stata sottratta dalla metropolitana di Napoli; essa è l’immagine di una grande lastra di metallo posizionata nella metro per essere spazio veicolatore di pubblicità e quindi di altre immagini. L’artista ricontestualizza l’immagine, attraverso la pittura, e riproduce ciò che è contenuto da questa superficie semispecchiante e ciò che ci appare è la visione del suo riflesso che contemporaneamente sembra fornirci elementi per la visione distorta di un paesaggio metropolitano. Ad accompagnare il grande dipinto Timoney pone alcune immagini fotografiche: in una ritrae un grande camion nero, quasi una veicolazione cosmica di un elemento che assorbe ogni fonte di luce e a maggior ragione se si pensa alle sue proporzione e a quello che misteriosamente potrebbe contenere; l’altra foto è doppia e mostra due identici paesaggi e quella di un personaggio di un film in bianco e nero e a colori. Questa ultima immagine ci conduce ancora una volta ad uno dei temi cari all’artista che ci dice che l’assimilazione di un’immagine ha tre gradi di registrazione : l’attimo in cui percepiamo, quello in cui si fissa nella nostra mente ed infine quando questa diviene memoria interiorizzata. Nulla di ciò che percepiamo è perduto nella nostra mente , le immagini ci soccorrono o emergono dal nostro profondo subconscio e l’artista ripone su stesso la possiblità e la necessità di poterle tradurre, attraverso diverse tecniche, alla nostra visione.
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La rappresentazione dello spazio è sempre stata una prerogativa dell’opera; sia che questo sia solo descritto dalle immagini o che nascondi, attraverso il processo di realizzazione o da impliciti o espliciti riferimenti, una dimensione diversa da quella che ci appare. Le possibilità di rappresentazione o di collocazione del soggetto o dello spazio meramente inteso sono infinite cosi che il titolo della mostra 1:1000.000.000 evidenzia il rapporto dilatato dell’applicazione della creatività in relazione alla rappresentazione tridimensionale contenuta nell’opera. Gli artisti che si confrontano con questo tipo di rapporto hanno esperienze e attitudini diverse ed amano relazionarsi con l’immagine attraverso espressioni formali che meglio possano appagare il binomio creatività e rappresentazione dello spazio :
MAT COLLISHAW ha sempre cercato attraverso l’immagine un rapporto di intermediazione tra ciò che ci appare e il contenuto che suggerisce l’analisi degli elementi che formano la rappresentazione anche in relazione ad espliciti riferimenti iconografici. Nel caso delle foto esposte i soggetti ritratti, giovani madri con i loro bambini, guardano una candela così come il famoso dipinto di Georges de La Tour. La loro posizione è circondata dallo spazio oscuro, le forme delineate dalla flebile luce della candela ed infine la loro immobilità costretta all’interno dell’ immagine dove l’ implicito desiderio è quello di immaginarsi in un'altra posizione più confortevole ed appagante. Lo spazio in questo caso è descritto da chi produce l’ immagine e da chi, interpretandola, pone se stessa nel desiderio di un’altra dimensione.
WILLIAM CURWEN espone delle immagini fotografiche stampate con inchiostro a pigmenti su carta di cotone che possono ricondurci ad un’ immaginario romantico e surreale come i dipinti di Turner. I luoghi descritti sono paesaggi o interni dove il mezzo tecnico fotografico ha una primaria importanza nella rappresentazione dello spazio. Il procedimento usato è quello di 3 scatti fotografici nel classico bianco e nero combinato da tre filtri fotografici in rosso, blù e verde che vengono riassemblati con l’utilizzo del computer sovrapponendo le 3 immagini colorate e restituendoci così l’immagine nella sua cromia naturale. Lo spazio esterno è codificato nei dettagli attraverso lo schermo del computer per riportarci le dimensioni presenti nel reale che nell’immagine percepita si riconfigura irreale e quasi atemporale.
HERVE INGRAND nell’ ossessiva ricerca della dimensione della memoria dello spazio dell’atelier, che attraversa tutto il suo percorso artistico fino ad essere esso stesso l’oggetto del dipingere, riproduce nelle sue tele il documento del fare arte e l’esperienza legata a quel tempo e a quello spazio. Il soggetto rappresentato, in questo caso è l’isola dell’atelier dipinto nel deserto del Sahara. Questo spazio, della regione in Francia in cui è presente il suo atelier, oggi è rappresentato in forma di dipinto bidimensionale e documenta ciò che in realtà avveniva, a guisa di tela dipinta e posta sulle dune, nella vastità immobile di uno dei più grandi deserti al mondo.
30
marzo 2007
Padraig Timoney / 1:1.000.000.000
Dal 30 marzo al 03 maggio 2007
arte contemporanea
Location
GALLERIA RAUCCI/SANTAMARIA
Napoli, Corso Amedeo Di Savoia Duca D'aosta, 190, (Napoli)
Napoli, Corso Amedeo Di Savoia Duca D'aosta, 190, (Napoli)
Orario di apertura
dal martedì al venerdì dalle 11,00 alle 13,30 e dalle 15,00 alle 18,30
Vernissage
30 Marzo 2007, ore 19,30-21,30
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