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Paesaggio con rovine (il silenzio-un poco quasi molto)
collettiva
Comunicato stampa
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Dal 18 gennaio al 28 febbraio 2007, QUARTER RELOCATED presenterà Paesaggio con rovine (il silenzio-un poco quasi molto) una mostra con opere di Andrea Anastasio, Flavio Favelli e Ingar Krauss.
Le fotografie di Ingar Krauss documentano l’arretramento del tempo di posa fino a un punto molto distante da noi. Fotografa dei sopravvissuti. Alla fatica, disumana del lavoro, del progresso, dell’abbandono di un luogo o di una condizione di precedente innocenza e felicità. La fatica, il peso di vivere e il disincanto. Forze traumatiche che scolpiscono dal dentro e dal fuori il soggetto, disumanizzando i corpi e lo spirito. Sopravvivono i lavoratori ad un’epoca che sembra dimenticarsi ancora una volta di loro, così come si dimenticano i drammi dei figli minori, le ferite di una fanciullezza disarmata. Così una grande verità si nasconde dietro il silenzio, dietro l’afasia e la malinconia, la morte della voce e dell’anima. Sopravvivono però gli sguardi. Nei corpi, nei gesti, sotto i vestiti e le uniformi. Sguardi che trafiggono e percuotono pur utilizzando armi silenziose e non violente. Esistono le pose, che parlano sottovoce ma con grazia o con vigore. Poesie e sguardi spiazzanti e spaesanti. Inaspettatamente qualcosa che sembra appartenere al passato sopraggiunge colpendoci dritti al cuore e ci risveglia dal torpore pur mantenendosi ad una certa insopprimibile distanza. In corpi modellati dal lavoro la posa sopravvive come un frammento classico tra le rovine. Adolescenti. Lavoratori. Bambine spaurite o dolcemente pietrificate. Di un’epoca che pensavamo lontana. Lavoratori come quelli fotografati cento anni fa. Pensavamo che non esistesse più questo mondo. Come se l’aura non sopravvivesse al moderno. Nè l’innocenza pulcherrima dell’infante. Krauss impone il silenzio dell’aura e dell’innocenza. Egli fotografa sempre l’aurea bellezza dell’uomo, una superiore dignità degli ultimi sopravvissuti alla perdita violenta della sacralità.
E’ come se mi voltassi sempre indietro, ha scritto una volta Flavio Favelli. Racimolatore di cose passate, di resti, di scarti e frammenti, tanti pezzi di una memoria non solo personale. Ricostruisce non solo cose ma luoghi anacronistici, ancor più obsoleti di foto d’epoca perché hanno perduto la loro funzione oltre che la loro aura. E su questo doppio registro, funzione e aura, egli lavora, rimettendo a posto i pezzi e cercando di ricostruire una frase interrotta solo poco tempo fa. Quella frase che l’autore va cercando da sempre, non per far ripartire il flusso della coscienza e quello della scrittura (il corso del progresso, l’evoluzione dell’arte), quanto piuttosto per far spazio (raumen) alla sua fulminante capacità di ri-strutturare un pezzo di passato nel tempo perduto di oggi. E un tempo di ieri nello spazio di oggi (raumen). Tempo che si perde e si sottrae al soggetto post-moderno, in quanto questo soggetto vive come uno smemorato patendo gli effetti della globalizzazione. Il materialismo anacronistico di Favelli, efficiente nel restauro fino alla correttezza filologica, restituisce alle cose aura reinserendole non solo come immagini, mnemoniche, ma come strutture, funzionali, e anche viceversa. La funzione mnemonica e la memoria della funzione, ricomposte dagli scarti e dal pulsare dei flash-back, permettono all’opera (e al riguardante-fruitore) di riallestirsi nel mondo dell’arte e della vita come macchina del tempo. Tempo ritrovato, ma anche reinventato, che entra in gioco nel doppio universo della vita, (vita di relazione), e dell’arte, (environment di rammemorazione). Mantenendo una politica distanza dal feticismo e dal culto dell’archeologia. Mai Favelli pensa alla restituzione della memoria come riesumazione, quanto semmai come remi-niscenza dialettica. Proponendo al soggetto un luogo in cui ricostruire un suo rapporto con l’arte e la vita attraverso il gioco di relazioni e rammemorazioni.
Intreccio di memoria e di esperienza vissuta, di disciplina e di ascesi, di pratica filosofica e di artigianato sapienziale, le opere-oggetti di Andrea Anastasio vivono scopertamente al confine tra design e arte. Una serie di vetri, caraffe e calici di vetro, leggeri e diafani come bolle di sapone, replicano quasi esattamente vetri d’epoca ritratti dal vero da pittori olandesi del Seicento. La classica Vanitas, della natura morta, qui esibisce un supplemento iconografico inedito quanto inaspettato. Una sorpresa non eclatante, nè scioccante, nè spettacolare. Uno scarto dalla fonte prima e dalla realtà, che quasi passa inosservato. I calici e la caraffa sono sigillati da un tappo di vetro sottile come un’ala di farfalla. Qui lo scarto, dall’immagine dipinta, dall’icona, e dall’oggetto funzionale, sottende la sua distanza critica dalla post-moderna citazione, iconografica o concettuale, restituendo al ready-made iconografico una valenza intellettuale e performativa originaria. Di mossa metafisica e fisica ad un tempo, di gesto politico e alchemico. Declamazione e prova oggettivata dell’arte come di un processo di incubazione e trasformazione della materia e dell’immateriale, di una pratica che spostando e spostandosi su universi e dimensioni anche opposte e incommensurabili può con quasi niente inclinare il corso degli eventi prestabiliti. Declinando anche al futuro la comprensione delle cause originali. La strategia conscia o inconscia, l’ispirazione carismatica. L’ artificio è gesto della mente e del corpo, ma di una mente e di un corpo che in certi casi partecipano di altre e alte sfere, come menti platoniche o corpi celesti. L’opera di Anastasio (piccoli bastoncini d’incenso incapsulati in una teca di vetro) infatti ci ricorda che siamo non polvere ma soffio e luce, fiamma e alito, che bruciamo e viviamo nel tempo infinito e ininterrotto della natura universale: nel cui ordine visibile e invisibile materia e spirito sono realtà omogenee e comunque parziali. Dato che qualcosa di indicibile, poi resta.
Certe opere appaiono come sopravvissute. Dietro di loro sorgono ancora le rovine del moderno. Esse stesse accusano fragilmente questa condizione malinconica. Grava su di esse, quasi una condanna epocale, il silenzio. Altre ci guidano alla ricostruzione dei nostri pensieri moderni attraverso uno spaesamento mnemonico e funzionale. Ci sono poi opere che poeticamente si attrezzano in modo che la poesia appaia scomparendo la forma e che questa si manifesti scomparendo la funzione prestabilita dal contesto. Queste opere silenziosamente si rivolgono altrove, dovunque ancora sia possibile un dialogo tra l’uomo e la natura, tra noi e il divino.
Sopravvivendo, clandestinamente a bordo della civiltà globale, certi artisti celebrano piuttosto il poetico silenzio del linguaggio moderno (Wittgenstein) che una riconquistata performatività sociale ed economica delle forme. Sono ancora sensibili all’ aura del sentimentale, alla potenza di un modo di sentire e dire che oggi appare anacronistico. Fatto più di poesia che di certezza. Come espressione recondita di una sensazione o di un pensiero nella cui aura le opere appaiono immergersi. Come le case o le persone che a sera si riproducono nello specchio di una pozza incontrata per strada esse vivono di un’altra vita. Di un tempo perduto .
Silenzio e malinconia sono molto più anacronistici del medium reinventato. Anzi, sono il medium anacronistico per eccellenza da utilizzare e forzare pur di intrattenere e trattenere ancora un discorso e una relazione con l’aura. Reinventandola e ritrovandola, come si fa con certi luoghi e volti (il volto dell’altro, del divino, della natura, il volto delle città e dei luoghi familiari etc.). Il silenzio d’altronde è anche una forma dello spazio e del tempo che solo il vaso dell’opera, il medium dell’arte, può raccogliere e contenere. Per intero, in parte, ricostruendone la forma rovinata e fatta a pezzi, frammento con frammento, raccogliendone i resti e gli scarti, i pezzi e le ceneri. Il silenzio, un poco quasi molto, di un paesaggio con rovine. Proiezione post-moderna di quell’insopprimibile distanza che per Benjamin è l’aura, un modo di essere a cui è stato condannato il medium poetico dell’artista da quando la civiltà della riproducibilità tecnica è totalmente impegnata a ricostruire città e villaggi globali, affidandosi totalitaristicamente al mezzo di comunicazione di massa. Opponendo alla silenziosa potenza dell’arte poetica, la necessità pragmatica, tecnicistica, finanziaria, di forme sempre più comunicative, sempre più veloci e commisurabili, scambiabili, reinvestibili.
Spinte dal progresso in direzione opposta a questo paesaggio con rovine, queste opere sono come l’angelo di Klee. Si voltano, come volessero fermarsi per ricomporre in un’ immagine quello che indietro appare essere solo rovina e frammento, ombra e simulacro . Trovandosi però in un mondo presente che è già un mondo perduto e da ricercare. Un paesaggio che già da adesso è paesaggio con rovine. Perchè questa è la condizione di emergenza e di disastro in cui comunque viviamo. Paesaggio con rovine è questo luogo della memoria e del presente, del rimosso e del perturbante, del mito e della realtà quotidiana. Luogo del lavoro e del puer, luogo recondito e criptico, luogo del reale e dell’invisibile. Qui, adesso, ieri, molto tempo fa. E forse proprio questa doppia realtà estraniante, ieri e oggi, è ciò che ci sorprende e ci scuote dal torpore percettivo e dall’oblio.
Le fotografie di Ingar Krauss documentano l’arretramento del tempo di posa fino a un punto molto distante da noi. Fotografa dei sopravvissuti. Alla fatica, disumana del lavoro, del progresso, dell’abbandono di un luogo o di una condizione di precedente innocenza e felicità. La fatica, il peso di vivere e il disincanto. Forze traumatiche che scolpiscono dal dentro e dal fuori il soggetto, disumanizzando i corpi e lo spirito. Sopravvivono i lavoratori ad un’epoca che sembra dimenticarsi ancora una volta di loro, così come si dimenticano i drammi dei figli minori, le ferite di una fanciullezza disarmata. Così una grande verità si nasconde dietro il silenzio, dietro l’afasia e la malinconia, la morte della voce e dell’anima. Sopravvivono però gli sguardi. Nei corpi, nei gesti, sotto i vestiti e le uniformi. Sguardi che trafiggono e percuotono pur utilizzando armi silenziose e non violente. Esistono le pose, che parlano sottovoce ma con grazia o con vigore. Poesie e sguardi spiazzanti e spaesanti. Inaspettatamente qualcosa che sembra appartenere al passato sopraggiunge colpendoci dritti al cuore e ci risveglia dal torpore pur mantenendosi ad una certa insopprimibile distanza. In corpi modellati dal lavoro la posa sopravvive come un frammento classico tra le rovine. Adolescenti. Lavoratori. Bambine spaurite o dolcemente pietrificate. Di un’epoca che pensavamo lontana. Lavoratori come quelli fotografati cento anni fa. Pensavamo che non esistesse più questo mondo. Come se l’aura non sopravvivesse al moderno. Nè l’innocenza pulcherrima dell’infante. Krauss impone il silenzio dell’aura e dell’innocenza. Egli fotografa sempre l’aurea bellezza dell’uomo, una superiore dignità degli ultimi sopravvissuti alla perdita violenta della sacralità.
E’ come se mi voltassi sempre indietro, ha scritto una volta Flavio Favelli. Racimolatore di cose passate, di resti, di scarti e frammenti, tanti pezzi di una memoria non solo personale. Ricostruisce non solo cose ma luoghi anacronistici, ancor più obsoleti di foto d’epoca perché hanno perduto la loro funzione oltre che la loro aura. E su questo doppio registro, funzione e aura, egli lavora, rimettendo a posto i pezzi e cercando di ricostruire una frase interrotta solo poco tempo fa. Quella frase che l’autore va cercando da sempre, non per far ripartire il flusso della coscienza e quello della scrittura (il corso del progresso, l’evoluzione dell’arte), quanto piuttosto per far spazio (raumen) alla sua fulminante capacità di ri-strutturare un pezzo di passato nel tempo perduto di oggi. E un tempo di ieri nello spazio di oggi (raumen). Tempo che si perde e si sottrae al soggetto post-moderno, in quanto questo soggetto vive come uno smemorato patendo gli effetti della globalizzazione. Il materialismo anacronistico di Favelli, efficiente nel restauro fino alla correttezza filologica, restituisce alle cose aura reinserendole non solo come immagini, mnemoniche, ma come strutture, funzionali, e anche viceversa. La funzione mnemonica e la memoria della funzione, ricomposte dagli scarti e dal pulsare dei flash-back, permettono all’opera (e al riguardante-fruitore) di riallestirsi nel mondo dell’arte e della vita come macchina del tempo. Tempo ritrovato, ma anche reinventato, che entra in gioco nel doppio universo della vita, (vita di relazione), e dell’arte, (environment di rammemorazione). Mantenendo una politica distanza dal feticismo e dal culto dell’archeologia. Mai Favelli pensa alla restituzione della memoria come riesumazione, quanto semmai come remi-niscenza dialettica. Proponendo al soggetto un luogo in cui ricostruire un suo rapporto con l’arte e la vita attraverso il gioco di relazioni e rammemorazioni.
Intreccio di memoria e di esperienza vissuta, di disciplina e di ascesi, di pratica filosofica e di artigianato sapienziale, le opere-oggetti di Andrea Anastasio vivono scopertamente al confine tra design e arte. Una serie di vetri, caraffe e calici di vetro, leggeri e diafani come bolle di sapone, replicano quasi esattamente vetri d’epoca ritratti dal vero da pittori olandesi del Seicento. La classica Vanitas, della natura morta, qui esibisce un supplemento iconografico inedito quanto inaspettato. Una sorpresa non eclatante, nè scioccante, nè spettacolare. Uno scarto dalla fonte prima e dalla realtà, che quasi passa inosservato. I calici e la caraffa sono sigillati da un tappo di vetro sottile come un’ala di farfalla. Qui lo scarto, dall’immagine dipinta, dall’icona, e dall’oggetto funzionale, sottende la sua distanza critica dalla post-moderna citazione, iconografica o concettuale, restituendo al ready-made iconografico una valenza intellettuale e performativa originaria. Di mossa metafisica e fisica ad un tempo, di gesto politico e alchemico. Declamazione e prova oggettivata dell’arte come di un processo di incubazione e trasformazione della materia e dell’immateriale, di una pratica che spostando e spostandosi su universi e dimensioni anche opposte e incommensurabili può con quasi niente inclinare il corso degli eventi prestabiliti. Declinando anche al futuro la comprensione delle cause originali. La strategia conscia o inconscia, l’ispirazione carismatica. L’ artificio è gesto della mente e del corpo, ma di una mente e di un corpo che in certi casi partecipano di altre e alte sfere, come menti platoniche o corpi celesti. L’opera di Anastasio (piccoli bastoncini d’incenso incapsulati in una teca di vetro) infatti ci ricorda che siamo non polvere ma soffio e luce, fiamma e alito, che bruciamo e viviamo nel tempo infinito e ininterrotto della natura universale: nel cui ordine visibile e invisibile materia e spirito sono realtà omogenee e comunque parziali. Dato che qualcosa di indicibile, poi resta.
Certe opere appaiono come sopravvissute. Dietro di loro sorgono ancora le rovine del moderno. Esse stesse accusano fragilmente questa condizione malinconica. Grava su di esse, quasi una condanna epocale, il silenzio. Altre ci guidano alla ricostruzione dei nostri pensieri moderni attraverso uno spaesamento mnemonico e funzionale. Ci sono poi opere che poeticamente si attrezzano in modo che la poesia appaia scomparendo la forma e che questa si manifesti scomparendo la funzione prestabilita dal contesto. Queste opere silenziosamente si rivolgono altrove, dovunque ancora sia possibile un dialogo tra l’uomo e la natura, tra noi e il divino.
Sopravvivendo, clandestinamente a bordo della civiltà globale, certi artisti celebrano piuttosto il poetico silenzio del linguaggio moderno (Wittgenstein) che una riconquistata performatività sociale ed economica delle forme. Sono ancora sensibili all’ aura del sentimentale, alla potenza di un modo di sentire e dire che oggi appare anacronistico. Fatto più di poesia che di certezza. Come espressione recondita di una sensazione o di un pensiero nella cui aura le opere appaiono immergersi. Come le case o le persone che a sera si riproducono nello specchio di una pozza incontrata per strada esse vivono di un’altra vita. Di un tempo perduto .
Silenzio e malinconia sono molto più anacronistici del medium reinventato. Anzi, sono il medium anacronistico per eccellenza da utilizzare e forzare pur di intrattenere e trattenere ancora un discorso e una relazione con l’aura. Reinventandola e ritrovandola, come si fa con certi luoghi e volti (il volto dell’altro, del divino, della natura, il volto delle città e dei luoghi familiari etc.). Il silenzio d’altronde è anche una forma dello spazio e del tempo che solo il vaso dell’opera, il medium dell’arte, può raccogliere e contenere. Per intero, in parte, ricostruendone la forma rovinata e fatta a pezzi, frammento con frammento, raccogliendone i resti e gli scarti, i pezzi e le ceneri. Il silenzio, un poco quasi molto, di un paesaggio con rovine. Proiezione post-moderna di quell’insopprimibile distanza che per Benjamin è l’aura, un modo di essere a cui è stato condannato il medium poetico dell’artista da quando la civiltà della riproducibilità tecnica è totalmente impegnata a ricostruire città e villaggi globali, affidandosi totalitaristicamente al mezzo di comunicazione di massa. Opponendo alla silenziosa potenza dell’arte poetica, la necessità pragmatica, tecnicistica, finanziaria, di forme sempre più comunicative, sempre più veloci e commisurabili, scambiabili, reinvestibili.
Spinte dal progresso in direzione opposta a questo paesaggio con rovine, queste opere sono come l’angelo di Klee. Si voltano, come volessero fermarsi per ricomporre in un’ immagine quello che indietro appare essere solo rovina e frammento, ombra e simulacro . Trovandosi però in un mondo presente che è già un mondo perduto e da ricercare. Un paesaggio che già da adesso è paesaggio con rovine. Perchè questa è la condizione di emergenza e di disastro in cui comunque viviamo. Paesaggio con rovine è questo luogo della memoria e del presente, del rimosso e del perturbante, del mito e della realtà quotidiana. Luogo del lavoro e del puer, luogo recondito e criptico, luogo del reale e dell’invisibile. Qui, adesso, ieri, molto tempo fa. E forse proprio questa doppia realtà estraniante, ieri e oggi, è ciò che ci sorprende e ci scuote dal torpore percettivo e dall’oblio.
18
gennaio 2007
Paesaggio con rovine (il silenzio-un poco quasi molto)
Dal 18 gennaio al 24 marzo 2007
arte contemporanea
Location
QUARTER RELOCATED
Torino, Largo Saluzzo, 35, (Torino)
Torino, Largo Saluzzo, 35, (Torino)
Orario di apertura
su appuntamento
Vernissage
18 Gennaio 2007, ore 18.30
Ufficio stampa
MONICA ZANFINI
Autore
Curatore