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Paolo Dolzan – Abituarsi all’idea
variazioni sul tema della Danza Macabra
Comunicato stampa
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Abituarsi all’idea
I
Abituarsi all’idea di scomparire è un continuo balzo nella volta stellata, un ricorrente discioglimento degli impulsi vitali, un consueto lottare con le ombre in agguato.
Scheletri che passano. Le loro fosse orbitarie non hanno più occhi per vedere l’esistenza. Imboccano percorsi e si allontanano dalla loro vita. Noi viventi guardiamo la loro processione macabra. Vediamo e stiamo al loro passo. Danziamo con loro, carne contro ossa. Procediamo nel flusso del tempo. Entriamo nel ballo macabro per un processo di proiezione nel futuro, di anticipazione visionaria di una morte immaginata. È solo una questione di tempo. Passato, presente e futuro camminano nella stessa danza. Tutto scorre nell’andare. I vivi verranno sempre presi a braccetto dagli scheletri della storia. Assieme procederanno sulla terra, tra memoria e attesa di futuri eventi. Tra storia universale e vita personale.
La danza macabra è una sorta di morte in differita, è un rapporto che trascina timori non risolti e rimanda continuamente il dialogo tra la paura e il dolore. Dentro la forza magnetica di questa processione dei giorni si spera che la felicità non muoia mai, ma che origini nuove e infinite albe della coscienza.
Abituarsi all’idea di entrare in una dimensione che annichila è un effetto fisico, come fosse luce che trapassa la trasparenza del vetro. In questa trascorrenza, la luce delle vite individuali forse lascia una traccia nella materia neutra del vetro, un segno della luce, un’incisione del silenzio e della memoria.
Quando arriva il momento, le dita non riescono più a stringere le falangi sulla mano dell’esistenza. Perduta la presa, il tempo sfila l’anello della mano sinistra e procede verso altre vite. Il vuoto che si viene a creare tra il vivente e lo spazio della morte è una fuga che ruba il respiro e il battito del cuore. Ci si chiede dove vada la vita perduta quando pugni di terra cadono sulla bara, come fossero lame di dolore e ombre di fiori recisi.
L’iconografia dei temi macabri espone il desiderio di lavorare, in maniera sotterranea, sul concetto della vita oltremondana. La scintilla è la paura della fine. In ogni affresco macabro della tradizione occidentale è presente l’intento religioso atto a evocare un senso dell’eterno, che risolva il grande problema della scomparsa e della separazione dell’anima dal corpo.
La danza macabra è intesa anche come una sorta di processione apotropaica. La direzione conduce verso la speranza che vi sia la vita eterna, un luogo dove l’identità personale ritorni a manifestare la sua pienezza distintiva.
Si cerca il luogo dove la morte verrà precipitata in “uno stagno di fuoco e zolfo”1, la vita delle vite in cui si realizzi, per necessità, la morte della morte. La processione dei non più vivi è segnata da una sequenza di passi che manifestano la nostalgia e il desiderio umano di volere vivere per sempre: “Non sono i morti che lodano il Signore / né quanti scendono nella tomba. / Ma noi, i viventi, benediciamo il Signore / ora e per sempre” (Salmo 113).
Per i viventi, teatralizzare la morte è una delle vie che innescano una proiezione del desiderio, un modo per abituarsi all’idea del dover morire, una maniera per affrontare il problema drammatico di ogni singolo individuo costretto dalla natura a fare i conti con la sparizione dal mondo.
Diavolo (nel senso di “diabolus”, ovvero il “separatore”) e morte cercano di scindere l’unità fisico-immateriale di ogni individuo. Le due forze che separano sono la fossa scavata nell’aria della vita, dentro tutto il nulla che tiene assieme i pensieri, in ogni luogo geografico, negli interni domestici, fino al nucleo più segreto, fino ai tuoni che esplodono in tutte le profondità della terra e del corpo.
Il corpo viene gettato come un seme nella parte oscura della terra. Diventa scheletro senza ricordi. Le ossa attendono di trasformarsi, divengono cenere, si calcinano nelle profondità del tempo. Il vento gelido entra nello spazio della cassa toracica, nei vuoti del cranio, nell’assenza della carne e dell’anima.
II
Paolo Dolzan ha una visione lucida e disincantata. La sua Danza macabra è un’esplosione – devastante e ironica al contempo - della tragedia umana. I suoi pensieri intorno alla morte sono come screpolature sul corpo dei giorni. Attendono che qualcuno ritorni a svelare qualcosa del trapasso, a lasciare una mappa obitoria strappata alle memorie conservate nel cranio e nelle ossa.
I pensieri neri aspettano, soppesano la crudeltà della vita terrena, attendono il luccichio della falce che rimane fissato negli occhi dell’ultima ora.
Abituarsi all’idea è una disciplina della coscienza, un’anestesia iniettata giorno dopo giorno, una prassi da memento mori, uno stillicidio della consapevolezza.
Si scava nell’ossessione della caduta. Si squarcia, con il bisturi della coscienza, la malattia della paura.
Dalla ferita giornaliera sbotta il ronzio fastidioso che rallenta il corso del sangue nel corpo.
Travalica la rappresentazione dell’ansia, oltre ogni sorta di orientamento spaziale, al di là delle ombre scheletriche proiettate sull’eterno immaginato.
La proiezione dell’angoscia e la nostalgia nello sfarsi del corpo sono, però, per principio di contraddizione, una sinfonia taciuta del memento vivere.
Abituarsi o no all’imminenza della morte individuale mette in scena l’abisso dello sconvolgimento, il tormento delle profondità torbide, e, allo stesso tempo, una catarsi e un orgoglio della debolezza o della forza umane.
L’illusione della salvezza poggia le sue fragili certezze sulla possibilità che possa vincere la memoria, oppone una serrata e patetica lotta all’oblio e alla perdita del ricordo.
Segni acuminati ed esplosioni violente manifestano lo sforzo di cercare quello che pulsa nella coscienza e che rifiuta l’idea della scomparsa. Le opere di Dolzan sono espressione della terribilità che grava in ogni momento, penetrano il silenzio della dipartita, lo spazio dell’inquietudine, la pena dell’angoscia. I volti tragici mettono in visione tutte le paure portate dal nichilismo del nostro tempo. Lo scheletro affiora dalla carne dei viventi, divora la coscienza.
La fuga allucinata - proiettata sugli spazi neutri delle tele - è come un’esplosione terragna di colori ammorbanti e forme drammatiche di memoria espressionista. Questa fuga grida il presagio della paura. Contemporaneamente, però, mette in moto anche un’implosione dell’unicità individuale, mette in scena la dignità e la forza di chi accetta di stare, con nobiltà d’animo, entro i parametri e i limiti imposti dalla nascita in un corpo mortale.
Il sorriso degli scheletri delle danze macabre manifestano lo spirito ironico che può salvare i destinati alla morte.
Le figure scarnificate trapassano nella processione, entrano o escono dalla storia terrena, tra il bagliore e le tenebre, camminano sulla lama dell’essere. La fisiognomica viene annichilita o deformata. Ogni individuo diventa immagine o archetipo dello scheletro, manifestando, però, ancora una misteriosa bellezza e un fascino sublime derivati dalla fragilità. I personaggi di Dolzan abitano l’attesa, stanno nella distanza che divide la vita individuale dalle promesse - forse non mantenibili - del cielo. L’eterno d’altronde non pare essere una questione degli individui. Nemmeno di tutte le altre specie animali. L’eterno semmai è una dimensione ad appannaggio degli archetipi o della memoria dell’umanità, nella sua riproducibilità nel corso degli anni, nella storia del tempo. Ma la trascendenza e la ricerca dell’infinito sono sempre a fianco della morte.
III
Nel Trionfo della morte di Clusone, la protagonista ossuta tiene, tra le dita, due cartigli che chiarificano l’intento ammonitorio degli affreschi, mettendo l’accento sul destino universale a cui tutti devono soggiacere: “E sonto per nome chiamata morte / ferisco a chi tocharà la sorte; / no è homo chosì forte / che da mi pò schapare” e “Gionto la morte piena de equaleza / sole voi ve volio e non vostra richeza / e digna sonto da portar corona / perché signorezi ognia persona”.
La Morte trionfa sulle vanità dei mortali, regna con il sorriso tagliente della sua incorruttibile ironia. Intanto altre due componenti della morte scagliano sagitte e proiettili in direzione dei vivi.
Essa è trinitaria, come un essere derivato dalla sostanza ternaria del mondo divino. I suoi tre dardi sono simboli del dominio assoluto nelle tre forme del tempo: fluisce instancabilmente nel passato, nel presente e nel futuro. La trimurti dell’obito poggia il suo dominio sui simulacri del potere temporale. Non si intenerisce davanti a qualsivoglia proposta di baratto o di corruzione. Manifesta il suo terribile potere, provando l’irrefrenabile piacere di manovrare le sottili trame del destino.
Più sotto, nella fascia della Danza macabra, scheletri prendono a braccetto o tengono per mano il corpo in cui vissero al tempo della loro esistenza in terra. Le varie categorie sociali procedono in una sfilata in direzione della fine di un ciclo. La funzione dell’affresco è didattica, sancendo l’uguaglianza dei ceti e l’annullamento di ogni gerarchia al cospetto della morte. Ogni individuo viene raggiunto dall’azione capillare della regina della fine. Gli scheletri danzanti e il Trionfo della Morte mettono in scena la terribile apparizione di loro stessi nell’aspetto di cadaveri spolpati dal tempo.
Molto probabilmente l’origine iconografica in Europa delle Danze macabre è dovuta ai francescani, che entrano in contatto con i riti del lamaismo in India. Nel Gandhara, a Tunhuang, sin dal secolo X, scheletri-demoni e uomini vengono rappresentati assieme, intenti in passi di danza, nei cicli pittorici o scultorei dei templi2. Una fonte più antica di matrice macabra è l’Adi, un poema arabo, scritto attorno al 580, dove è presente la frase che ha avuto molta fortuna anche in Occidente, un motto che i cadaveri o gli scheletri dicono ai vivi: “Noi fummo ciò che voi siete e voi sarete ciò che noi siamo”3.
Ma gli storici occidentali fanno risalire a opere poetiche in forma di poemetto - come, ad esempio, Les vers de la mort 4, composto dal monaco cistercense Hélinard de Froidmont tra il 1194 e il 1197, dove sono descritte coppie danzanti, formate da un morto e un vivente - la fonte che ha influenzato le danze macabre medievali. L’origine della danza rituale e sacra è presente anche nell’Antico testamento, nelle danze “liturgiche” del popolo ebraico.
Ma a Dolzan - per le atmosfere che aleggiano nelle sue opere molto terrene e carnali - piace riferirsi soprattutto alla scena del Trimalcione di Petronio, dove il protagonista mostra ai commensali uno scheletro d’argento e dalle giunture mobili, dicendo: “diventeremo anche noi così, quando l’Orco ci avrà strappato via dalla vita. Viviamo e godiamo dunque, finché è possibile”5.
Abituarsi all’idea, dunque, è da intendere anche come una pratica del disincanto atta a formare persone in grado di sopportare il peso della scomparsa personale, ma con la consapevolezza di vivere per il bene della comunità e con il rinnovato e cosciente desiderio continuo di godere la pienezza e il dono della vita “finché è possibile”. I personaggi hanno perso qualsiasi funzione consolatrice di stampo religioso. Sono discendenti degli scheletri presenti nelle danze macabre dei paesi nordici. Hanno l’accentuata espressione satirica e il piglio polemico da allegoria morale e profana.
Dolzan estrae, dal solco della tradizione iconografica macabra, nuove visioni, scheletri degli “impiagati”, mostra le piaghe degli impiegati del nostro tempo. Lavora sul concetto di fuga continua dall’idea della morte. Mette in visione i biotanati dell’epoca postmoderna, i morti viventi che biascicano l’assenza di pensieri forti. Fa affiorare i vermi del sarcasmo. Resuscita i volti urlanti di memoria baconiana, si sofferma nelle grida terribili di mummie inca o del protagonista de L’inquilino del terzo piano di Polanski. Le teste mortifere di Dolzan sono frame di una sofferta e partecipata analisi dal fondo di una profonda tenebra. Queste immagini neoespressioniste vogliono urtare lo sguardo degli spettatori del nostro tempo anestetizzato.
IV
Dolzan rievoca le immagini terrificanti dei cortei apocalittici che percorrono la cultura europea nel Medioevo, ovvero la “Famiglia di Arlecchino”, il prototipo di tutte le danze macabre: “Questa Famiglia di Arlecchino è una grande Danza Macabra, macabra e cruenta; il corteo è suddiviso in classi sociali; i trapassati sono biotanati, cioè morti viventi; poi i personaggi demoniaci, quali nani, Etiopi, il gigante arricchiscono questa irregolare carovana di zombi girovaghi per tutta Europa. Dentro questo teatro macabro agisce un significato didattico e religioso; agisce la memoria della vita malvissuta e della morte che continua le maledizioni dell’esistenza non risanate, bensì acuite dal furore dei tormenti, dei tormentati e dei tormentatori. L’elemento che connota la terribile scenografia dell’insieme è il grottesco, l’esigua soglia fra minaccia e gioco, fra memento mori e ludus apocalittico. E i penitenti, che pur scontano le colpe, sono maledetti senza domani, legati all’eterno gioco del vagare tipico delle anime in pena, senza speranza del futuro, senz’altro presente che l’eternità del loro supplizio”6.
I “treni apocalittici”7 sono immagini morali, hanno una funzione didattica e coinvolgono tutte le classi sociali.
Dolzan - come Arlecchino, il monstrum diabolico - vuole condurre la sua famiglia di diseredati, di “impiagati”, di nichilisti, in una danza arcaica, per far emergere in ogni persona l’ossessione del limite umano, ma soprattutto per innescare la vitalità dell’esistenza, attraverso la messa in scena di una celebrazione apotropaica, un ironico e pericoloso gioco della dicotomia vita/morte.
Il rito della movenza, lo svago inerente al ballo, la gestualità e il linguaggio del corpo, i passi che fluiscono nella vita esprimono i valori del movimento e del divenire.
La danza macabra contraddice i termini, poiché il movimento dell’assenza di vita o il moto della staticità esprimono il mistero di un ossimoro inquietante. Morti che ballano sovvertono le regole. Ma la danza degli zombi esprime l’ironia del movimento che può spingere al sorriso o a non pensare alla terribilità della morte.
La danza macabra è una proiezione del pensiero in un’altra dimensione, interiore, forse salvifica.
La rianimazione di una vita deceduta è una proiezione del desiderio, la voglia di entrare nella danza dell’eterno.
La morte e i suoi scheletri sono intesi da Dolzan come demoni che si aggirano negli spazi allucinati del quotidiano. Il suo corteo apocalittico è una teatralizzazione pubblica, entra nei pertugi della coscienza, desidera spingere la popolazione a esorcizzare la paura del domani. Come nel Medioevo, rinnova un coinvolgimento sociale, per portare alla luce quella paura alteratrice che rode all’interno di ogni individuo.
Spinge la gente a scendere nelle strade, a entrare nel corteo apocalittico della consapevolezza, ad andare oltre l’abitudine da salotto e oltre la presenza quotidiana della morte vista al di là di uno schermo televisivo, per inscenare una processione non dimentica delle proprie ossessioni provenienti dal teatro medievale. Apre all’altro da sé, per non restare invischiato in una dimensione troppo egoica. Per questo coinvolge anche altri artisti in grado di mettere in moto - attraverso più linguaggi ed espressioni visionarie - il treno apocalittico postmoderno.
Mauro Zanchi
I
Abituarsi all’idea di scomparire è un continuo balzo nella volta stellata, un ricorrente discioglimento degli impulsi vitali, un consueto lottare con le ombre in agguato.
Scheletri che passano. Le loro fosse orbitarie non hanno più occhi per vedere l’esistenza. Imboccano percorsi e si allontanano dalla loro vita. Noi viventi guardiamo la loro processione macabra. Vediamo e stiamo al loro passo. Danziamo con loro, carne contro ossa. Procediamo nel flusso del tempo. Entriamo nel ballo macabro per un processo di proiezione nel futuro, di anticipazione visionaria di una morte immaginata. È solo una questione di tempo. Passato, presente e futuro camminano nella stessa danza. Tutto scorre nell’andare. I vivi verranno sempre presi a braccetto dagli scheletri della storia. Assieme procederanno sulla terra, tra memoria e attesa di futuri eventi. Tra storia universale e vita personale.
La danza macabra è una sorta di morte in differita, è un rapporto che trascina timori non risolti e rimanda continuamente il dialogo tra la paura e il dolore. Dentro la forza magnetica di questa processione dei giorni si spera che la felicità non muoia mai, ma che origini nuove e infinite albe della coscienza.
Abituarsi all’idea di entrare in una dimensione che annichila è un effetto fisico, come fosse luce che trapassa la trasparenza del vetro. In questa trascorrenza, la luce delle vite individuali forse lascia una traccia nella materia neutra del vetro, un segno della luce, un’incisione del silenzio e della memoria.
Quando arriva il momento, le dita non riescono più a stringere le falangi sulla mano dell’esistenza. Perduta la presa, il tempo sfila l’anello della mano sinistra e procede verso altre vite. Il vuoto che si viene a creare tra il vivente e lo spazio della morte è una fuga che ruba il respiro e il battito del cuore. Ci si chiede dove vada la vita perduta quando pugni di terra cadono sulla bara, come fossero lame di dolore e ombre di fiori recisi.
L’iconografia dei temi macabri espone il desiderio di lavorare, in maniera sotterranea, sul concetto della vita oltremondana. La scintilla è la paura della fine. In ogni affresco macabro della tradizione occidentale è presente l’intento religioso atto a evocare un senso dell’eterno, che risolva il grande problema della scomparsa e della separazione dell’anima dal corpo.
La danza macabra è intesa anche come una sorta di processione apotropaica. La direzione conduce verso la speranza che vi sia la vita eterna, un luogo dove l’identità personale ritorni a manifestare la sua pienezza distintiva.
Si cerca il luogo dove la morte verrà precipitata in “uno stagno di fuoco e zolfo”1, la vita delle vite in cui si realizzi, per necessità, la morte della morte. La processione dei non più vivi è segnata da una sequenza di passi che manifestano la nostalgia e il desiderio umano di volere vivere per sempre: “Non sono i morti che lodano il Signore / né quanti scendono nella tomba. / Ma noi, i viventi, benediciamo il Signore / ora e per sempre” (Salmo 113).
Per i viventi, teatralizzare la morte è una delle vie che innescano una proiezione del desiderio, un modo per abituarsi all’idea del dover morire, una maniera per affrontare il problema drammatico di ogni singolo individuo costretto dalla natura a fare i conti con la sparizione dal mondo.
Diavolo (nel senso di “diabolus”, ovvero il “separatore”) e morte cercano di scindere l’unità fisico-immateriale di ogni individuo. Le due forze che separano sono la fossa scavata nell’aria della vita, dentro tutto il nulla che tiene assieme i pensieri, in ogni luogo geografico, negli interni domestici, fino al nucleo più segreto, fino ai tuoni che esplodono in tutte le profondità della terra e del corpo.
Il corpo viene gettato come un seme nella parte oscura della terra. Diventa scheletro senza ricordi. Le ossa attendono di trasformarsi, divengono cenere, si calcinano nelle profondità del tempo. Il vento gelido entra nello spazio della cassa toracica, nei vuoti del cranio, nell’assenza della carne e dell’anima.
II
Paolo Dolzan ha una visione lucida e disincantata. La sua Danza macabra è un’esplosione – devastante e ironica al contempo - della tragedia umana. I suoi pensieri intorno alla morte sono come screpolature sul corpo dei giorni. Attendono che qualcuno ritorni a svelare qualcosa del trapasso, a lasciare una mappa obitoria strappata alle memorie conservate nel cranio e nelle ossa.
I pensieri neri aspettano, soppesano la crudeltà della vita terrena, attendono il luccichio della falce che rimane fissato negli occhi dell’ultima ora.
Abituarsi all’idea è una disciplina della coscienza, un’anestesia iniettata giorno dopo giorno, una prassi da memento mori, uno stillicidio della consapevolezza.
Si scava nell’ossessione della caduta. Si squarcia, con il bisturi della coscienza, la malattia della paura.
Dalla ferita giornaliera sbotta il ronzio fastidioso che rallenta il corso del sangue nel corpo.
Travalica la rappresentazione dell’ansia, oltre ogni sorta di orientamento spaziale, al di là delle ombre scheletriche proiettate sull’eterno immaginato.
La proiezione dell’angoscia e la nostalgia nello sfarsi del corpo sono, però, per principio di contraddizione, una sinfonia taciuta del memento vivere.
Abituarsi o no all’imminenza della morte individuale mette in scena l’abisso dello sconvolgimento, il tormento delle profondità torbide, e, allo stesso tempo, una catarsi e un orgoglio della debolezza o della forza umane.
L’illusione della salvezza poggia le sue fragili certezze sulla possibilità che possa vincere la memoria, oppone una serrata e patetica lotta all’oblio e alla perdita del ricordo.
Segni acuminati ed esplosioni violente manifestano lo sforzo di cercare quello che pulsa nella coscienza e che rifiuta l’idea della scomparsa. Le opere di Dolzan sono espressione della terribilità che grava in ogni momento, penetrano il silenzio della dipartita, lo spazio dell’inquietudine, la pena dell’angoscia. I volti tragici mettono in visione tutte le paure portate dal nichilismo del nostro tempo. Lo scheletro affiora dalla carne dei viventi, divora la coscienza.
La fuga allucinata - proiettata sugli spazi neutri delle tele - è come un’esplosione terragna di colori ammorbanti e forme drammatiche di memoria espressionista. Questa fuga grida il presagio della paura. Contemporaneamente, però, mette in moto anche un’implosione dell’unicità individuale, mette in scena la dignità e la forza di chi accetta di stare, con nobiltà d’animo, entro i parametri e i limiti imposti dalla nascita in un corpo mortale.
Il sorriso degli scheletri delle danze macabre manifestano lo spirito ironico che può salvare i destinati alla morte.
Le figure scarnificate trapassano nella processione, entrano o escono dalla storia terrena, tra il bagliore e le tenebre, camminano sulla lama dell’essere. La fisiognomica viene annichilita o deformata. Ogni individuo diventa immagine o archetipo dello scheletro, manifestando, però, ancora una misteriosa bellezza e un fascino sublime derivati dalla fragilità. I personaggi di Dolzan abitano l’attesa, stanno nella distanza che divide la vita individuale dalle promesse - forse non mantenibili - del cielo. L’eterno d’altronde non pare essere una questione degli individui. Nemmeno di tutte le altre specie animali. L’eterno semmai è una dimensione ad appannaggio degli archetipi o della memoria dell’umanità, nella sua riproducibilità nel corso degli anni, nella storia del tempo. Ma la trascendenza e la ricerca dell’infinito sono sempre a fianco della morte.
III
Nel Trionfo della morte di Clusone, la protagonista ossuta tiene, tra le dita, due cartigli che chiarificano l’intento ammonitorio degli affreschi, mettendo l’accento sul destino universale a cui tutti devono soggiacere: “E sonto per nome chiamata morte / ferisco a chi tocharà la sorte; / no è homo chosì forte / che da mi pò schapare” e “Gionto la morte piena de equaleza / sole voi ve volio e non vostra richeza / e digna sonto da portar corona / perché signorezi ognia persona”.
La Morte trionfa sulle vanità dei mortali, regna con il sorriso tagliente della sua incorruttibile ironia. Intanto altre due componenti della morte scagliano sagitte e proiettili in direzione dei vivi.
Essa è trinitaria, come un essere derivato dalla sostanza ternaria del mondo divino. I suoi tre dardi sono simboli del dominio assoluto nelle tre forme del tempo: fluisce instancabilmente nel passato, nel presente e nel futuro. La trimurti dell’obito poggia il suo dominio sui simulacri del potere temporale. Non si intenerisce davanti a qualsivoglia proposta di baratto o di corruzione. Manifesta il suo terribile potere, provando l’irrefrenabile piacere di manovrare le sottili trame del destino.
Più sotto, nella fascia della Danza macabra, scheletri prendono a braccetto o tengono per mano il corpo in cui vissero al tempo della loro esistenza in terra. Le varie categorie sociali procedono in una sfilata in direzione della fine di un ciclo. La funzione dell’affresco è didattica, sancendo l’uguaglianza dei ceti e l’annullamento di ogni gerarchia al cospetto della morte. Ogni individuo viene raggiunto dall’azione capillare della regina della fine. Gli scheletri danzanti e il Trionfo della Morte mettono in scena la terribile apparizione di loro stessi nell’aspetto di cadaveri spolpati dal tempo.
Molto probabilmente l’origine iconografica in Europa delle Danze macabre è dovuta ai francescani, che entrano in contatto con i riti del lamaismo in India. Nel Gandhara, a Tunhuang, sin dal secolo X, scheletri-demoni e uomini vengono rappresentati assieme, intenti in passi di danza, nei cicli pittorici o scultorei dei templi2. Una fonte più antica di matrice macabra è l’Adi, un poema arabo, scritto attorno al 580, dove è presente la frase che ha avuto molta fortuna anche in Occidente, un motto che i cadaveri o gli scheletri dicono ai vivi: “Noi fummo ciò che voi siete e voi sarete ciò che noi siamo”3.
Ma gli storici occidentali fanno risalire a opere poetiche in forma di poemetto - come, ad esempio, Les vers de la mort 4, composto dal monaco cistercense Hélinard de Froidmont tra il 1194 e il 1197, dove sono descritte coppie danzanti, formate da un morto e un vivente - la fonte che ha influenzato le danze macabre medievali. L’origine della danza rituale e sacra è presente anche nell’Antico testamento, nelle danze “liturgiche” del popolo ebraico.
Ma a Dolzan - per le atmosfere che aleggiano nelle sue opere molto terrene e carnali - piace riferirsi soprattutto alla scena del Trimalcione di Petronio, dove il protagonista mostra ai commensali uno scheletro d’argento e dalle giunture mobili, dicendo: “diventeremo anche noi così, quando l’Orco ci avrà strappato via dalla vita. Viviamo e godiamo dunque, finché è possibile”5.
Abituarsi all’idea, dunque, è da intendere anche come una pratica del disincanto atta a formare persone in grado di sopportare il peso della scomparsa personale, ma con la consapevolezza di vivere per il bene della comunità e con il rinnovato e cosciente desiderio continuo di godere la pienezza e il dono della vita “finché è possibile”. I personaggi hanno perso qualsiasi funzione consolatrice di stampo religioso. Sono discendenti degli scheletri presenti nelle danze macabre dei paesi nordici. Hanno l’accentuata espressione satirica e il piglio polemico da allegoria morale e profana.
Dolzan estrae, dal solco della tradizione iconografica macabra, nuove visioni, scheletri degli “impiagati”, mostra le piaghe degli impiegati del nostro tempo. Lavora sul concetto di fuga continua dall’idea della morte. Mette in visione i biotanati dell’epoca postmoderna, i morti viventi che biascicano l’assenza di pensieri forti. Fa affiorare i vermi del sarcasmo. Resuscita i volti urlanti di memoria baconiana, si sofferma nelle grida terribili di mummie inca o del protagonista de L’inquilino del terzo piano di Polanski. Le teste mortifere di Dolzan sono frame di una sofferta e partecipata analisi dal fondo di una profonda tenebra. Queste immagini neoespressioniste vogliono urtare lo sguardo degli spettatori del nostro tempo anestetizzato.
IV
Dolzan rievoca le immagini terrificanti dei cortei apocalittici che percorrono la cultura europea nel Medioevo, ovvero la “Famiglia di Arlecchino”, il prototipo di tutte le danze macabre: “Questa Famiglia di Arlecchino è una grande Danza Macabra, macabra e cruenta; il corteo è suddiviso in classi sociali; i trapassati sono biotanati, cioè morti viventi; poi i personaggi demoniaci, quali nani, Etiopi, il gigante arricchiscono questa irregolare carovana di zombi girovaghi per tutta Europa. Dentro questo teatro macabro agisce un significato didattico e religioso; agisce la memoria della vita malvissuta e della morte che continua le maledizioni dell’esistenza non risanate, bensì acuite dal furore dei tormenti, dei tormentati e dei tormentatori. L’elemento che connota la terribile scenografia dell’insieme è il grottesco, l’esigua soglia fra minaccia e gioco, fra memento mori e ludus apocalittico. E i penitenti, che pur scontano le colpe, sono maledetti senza domani, legati all’eterno gioco del vagare tipico delle anime in pena, senza speranza del futuro, senz’altro presente che l’eternità del loro supplizio”6.
I “treni apocalittici”7 sono immagini morali, hanno una funzione didattica e coinvolgono tutte le classi sociali.
Dolzan - come Arlecchino, il monstrum diabolico - vuole condurre la sua famiglia di diseredati, di “impiagati”, di nichilisti, in una danza arcaica, per far emergere in ogni persona l’ossessione del limite umano, ma soprattutto per innescare la vitalità dell’esistenza, attraverso la messa in scena di una celebrazione apotropaica, un ironico e pericoloso gioco della dicotomia vita/morte.
Il rito della movenza, lo svago inerente al ballo, la gestualità e il linguaggio del corpo, i passi che fluiscono nella vita esprimono i valori del movimento e del divenire.
La danza macabra contraddice i termini, poiché il movimento dell’assenza di vita o il moto della staticità esprimono il mistero di un ossimoro inquietante. Morti che ballano sovvertono le regole. Ma la danza degli zombi esprime l’ironia del movimento che può spingere al sorriso o a non pensare alla terribilità della morte.
La danza macabra è una proiezione del pensiero in un’altra dimensione, interiore, forse salvifica.
La rianimazione di una vita deceduta è una proiezione del desiderio, la voglia di entrare nella danza dell’eterno.
La morte e i suoi scheletri sono intesi da Dolzan come demoni che si aggirano negli spazi allucinati del quotidiano. Il suo corteo apocalittico è una teatralizzazione pubblica, entra nei pertugi della coscienza, desidera spingere la popolazione a esorcizzare la paura del domani. Come nel Medioevo, rinnova un coinvolgimento sociale, per portare alla luce quella paura alteratrice che rode all’interno di ogni individuo.
Spinge la gente a scendere nelle strade, a entrare nel corteo apocalittico della consapevolezza, ad andare oltre l’abitudine da salotto e oltre la presenza quotidiana della morte vista al di là di uno schermo televisivo, per inscenare una processione non dimentica delle proprie ossessioni provenienti dal teatro medievale. Apre all’altro da sé, per non restare invischiato in una dimensione troppo egoica. Per questo coinvolge anche altri artisti in grado di mettere in moto - attraverso più linguaggi ed espressioni visionarie - il treno apocalittico postmoderno.
Mauro Zanchi
15
settembre 2007
Paolo Dolzan – Abituarsi all’idea
Dal 15 settembre al 07 ottobre 2007
arte contemporanea
Location
ORATORIO DEI DISCIPLINI
Clusone, Vicolo San Bernardino, (Bergamo)
Clusone, Vicolo San Bernardino, (Bergamo)
Orario di apertura
Tutti i giorni dalle 15.30 alle 19.00 – Mercoledì chiuso
Vernissage
15 Settembre 2007, ore 16.30
Autore
Curatore