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Paolo Foletti – Fotogrammi
Monotipi in dimensione 1:1 creati con una particolare tecnica di esposizione della carta fotografica, 11 opere selezionate da più di 150 stampe elaborate negli ultimi anni
Comunicato stampa
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Senza luce nessuno spazio – così intitolava Andreas Pfäffli il primo film del 1987, sull’architetto Mario Botta, Parafrasando si potrebbe dire senza luce nessun’immagine, una banale, ovvia ma azzeccata definizione della fotografia.
Paolo Foletti non è fotografo, è pittore, scultore, grafico (nel senso del lasciare il segno) ma non certo fotografo. Ha studiato ad Urbino, sede di una delle più importanti scuole dell’arte della calcografia. E si vede, si denota dalla sua forza espressiva che accomuna tutto il suo lavoro di artista.
Le prime opere erano delle tavole di legno (qualsiasi parte di un armadio, di una vecchia cassettiera, materiale povero che recuperava qua e là) sulle quali dopo essere intervenuto con il colore, scriveva, o per meglio dire, incideva i suoi pensieri. Sul colore che aggiungeva e man mano cancellava, un andirivieni pittorico, fin che il risultato non lo convinceva, egli graffiava con la matita, con un chiodo lasciando segni indelebili che solo un occhio attento riusciva a vedere, come se volesse unire il segno alla pittura in un messaggio segreto.
Negli anni, quando le superfici si riempivano di un solo colore – nero intenso o rosso intenso – il segno sopravveniva a togliere all’opera qualsiasi tentazione di bellezza o di senso decorativo.
Per arrivare a questo suo ultimo lavoro, Paolo si è avventurato nella difficile arte della stampa fotografica. Come ha scritto Roland Barthes, “il principio di avventura mi permette di fare esistere la fotografia. Viceversa senza avventura, niente foto”.
Ma in questo caso sono solo la carta sensibile e la luce che permettono di avvicinare queste pomone* bidimensionali alla fotografia. Non c’è l’intermediazione del negativo. Il risultato definisce un rapporto diretto tra soggetto e immagine. La rappresentazione pura e semplice di quel che è: la traccia, l’impronta del corpo, la sua unicità, eliminando di colpo la prerogativa principale della fotografia: la riproducibilità.
A questo proposito mi piace ricordare un aneddoto. Nello studio di Savosa che Paolo aveva anni fa, scorsi un paio di disegni, un uccello e una lepre se non ricordo male, eseguiti a bistro** da suo padre, appassionato cacciatore. Paolo mi fece notare che erano stati disegnati da morti, come dire non è un animale finto vivo ma vero cadavere.
Diventa quindi evidente l’importanza della dimensione: 1:1. Grandeur nature indispensabile per distanziarsi dalla fotografia. Anche la posizione, statica, rigorosamente verticale, non sdraiata, l’assenza di orpelli e decorazioni, la modella nuda come una moderna Venere, permette di evitare ogni riconoscimento formale con questa o quell’altra arte. Come un novello scultore ellenico egli ruota attorno al corpo e disegna, fa risaltare la bellezza della plasticità fisica che, illuminata da una forte luce, lascia la sua impronta reale su materiale sensibile. Procede in seguito alla lavorazione della figura creando i volumi della forma rendendola viva, carica di energia sensuale. È questo il momento che corrisponde allo scatto dell’apparecchio fotografico. Il processo creativo permette quindi la realizzazione di monotipi, di fotogrammi come li ha già denominati Arturo Carlo Quintavalle.
Paolo conosce bene la sua modella, la ama e quindi la rende forte, decisa e inimitabile. Soprattutto la rispetta, evita di riprendere il viso e la testa (non la fa volgere altrove come spesso accade nelle fotografie di un certo pittorialismo voyeristico) La luce definisce il corpo, e l’artista la usa come un pezzo di grafite, di carboncino e anche di bulino che lo descrive, disegna, incide.
Dagli albori della fotografia gli artisti, pur non riconoscendola subito come arte, ne hanno sfruttato le potenzialità. Basti su tutti ricordare un nome: Edgar Degas. Ma Foletti fa altro: vuole dimostrare che il soggetto è anche la sua ombra, è anche oggetto. Con questo egli “uccide” la fotografia, riconoscendole però le sue particolarità tecniche nell’uso della luce, altra imprescindibile caratteristica propria della fotografia. Non è infatti un caso che anche nelle immagini nere, diabolicamente scure dei Magma di Antonio Biasiucci, o nelle impenetrabili foreste notturne dei Nocturnes di Gilbert Fastenaekens, la luce decida la profondità e, vorrei dire, la visibilità delle immagini.
È interessante, per concludere, che una galleria di fotografia come la ConsArc esponga l’opera di un non-fotografo. Ma Daniela e Guido Giudici non sono nuovi a queste interazioni tra arte figurativa e arte fotografica. Basti ricordare le opere esposte a suo tempo di Natale Zoppis, Tancredi Mangano, Guido Pertusi ed altri. Uno spazio aperto alla comunicazione visiva dove la parola, il segno e la sensibilità appassionata degli artisti trovano luogo ideale.
Luca Patocchi
Paolo Foletti non è fotografo, è pittore, scultore, grafico (nel senso del lasciare il segno) ma non certo fotografo. Ha studiato ad Urbino, sede di una delle più importanti scuole dell’arte della calcografia. E si vede, si denota dalla sua forza espressiva che accomuna tutto il suo lavoro di artista.
Le prime opere erano delle tavole di legno (qualsiasi parte di un armadio, di una vecchia cassettiera, materiale povero che recuperava qua e là) sulle quali dopo essere intervenuto con il colore, scriveva, o per meglio dire, incideva i suoi pensieri. Sul colore che aggiungeva e man mano cancellava, un andirivieni pittorico, fin che il risultato non lo convinceva, egli graffiava con la matita, con un chiodo lasciando segni indelebili che solo un occhio attento riusciva a vedere, come se volesse unire il segno alla pittura in un messaggio segreto.
Negli anni, quando le superfici si riempivano di un solo colore – nero intenso o rosso intenso – il segno sopravveniva a togliere all’opera qualsiasi tentazione di bellezza o di senso decorativo.
Per arrivare a questo suo ultimo lavoro, Paolo si è avventurato nella difficile arte della stampa fotografica. Come ha scritto Roland Barthes, “il principio di avventura mi permette di fare esistere la fotografia. Viceversa senza avventura, niente foto”.
Ma in questo caso sono solo la carta sensibile e la luce che permettono di avvicinare queste pomone* bidimensionali alla fotografia. Non c’è l’intermediazione del negativo. Il risultato definisce un rapporto diretto tra soggetto e immagine. La rappresentazione pura e semplice di quel che è: la traccia, l’impronta del corpo, la sua unicità, eliminando di colpo la prerogativa principale della fotografia: la riproducibilità.
A questo proposito mi piace ricordare un aneddoto. Nello studio di Savosa che Paolo aveva anni fa, scorsi un paio di disegni, un uccello e una lepre se non ricordo male, eseguiti a bistro** da suo padre, appassionato cacciatore. Paolo mi fece notare che erano stati disegnati da morti, come dire non è un animale finto vivo ma vero cadavere.
Diventa quindi evidente l’importanza della dimensione: 1:1. Grandeur nature indispensabile per distanziarsi dalla fotografia. Anche la posizione, statica, rigorosamente verticale, non sdraiata, l’assenza di orpelli e decorazioni, la modella nuda come una moderna Venere, permette di evitare ogni riconoscimento formale con questa o quell’altra arte. Come un novello scultore ellenico egli ruota attorno al corpo e disegna, fa risaltare la bellezza della plasticità fisica che, illuminata da una forte luce, lascia la sua impronta reale su materiale sensibile. Procede in seguito alla lavorazione della figura creando i volumi della forma rendendola viva, carica di energia sensuale. È questo il momento che corrisponde allo scatto dell’apparecchio fotografico. Il processo creativo permette quindi la realizzazione di monotipi, di fotogrammi come li ha già denominati Arturo Carlo Quintavalle.
Paolo conosce bene la sua modella, la ama e quindi la rende forte, decisa e inimitabile. Soprattutto la rispetta, evita di riprendere il viso e la testa (non la fa volgere altrove come spesso accade nelle fotografie di un certo pittorialismo voyeristico) La luce definisce il corpo, e l’artista la usa come un pezzo di grafite, di carboncino e anche di bulino che lo descrive, disegna, incide.
Dagli albori della fotografia gli artisti, pur non riconoscendola subito come arte, ne hanno sfruttato le potenzialità. Basti su tutti ricordare un nome: Edgar Degas. Ma Foletti fa altro: vuole dimostrare che il soggetto è anche la sua ombra, è anche oggetto. Con questo egli “uccide” la fotografia, riconoscendole però le sue particolarità tecniche nell’uso della luce, altra imprescindibile caratteristica propria della fotografia. Non è infatti un caso che anche nelle immagini nere, diabolicamente scure dei Magma di Antonio Biasiucci, o nelle impenetrabili foreste notturne dei Nocturnes di Gilbert Fastenaekens, la luce decida la profondità e, vorrei dire, la visibilità delle immagini.
È interessante, per concludere, che una galleria di fotografia come la ConsArc esponga l’opera di un non-fotografo. Ma Daniela e Guido Giudici non sono nuovi a queste interazioni tra arte figurativa e arte fotografica. Basti ricordare le opere esposte a suo tempo di Natale Zoppis, Tancredi Mangano, Guido Pertusi ed altri. Uno spazio aperto alla comunicazione visiva dove la parola, il segno e la sensibilità appassionata degli artisti trovano luogo ideale.
Luca Patocchi
16
febbraio 2008
Paolo Foletti – Fotogrammi
Dal 16 febbraio al 05 aprile 2008
fotografia
Location
GALLERIA CONS ARC
Chiasso, Via Francesco Borromini, 2, (Mendrisio)
Chiasso, Via Francesco Borromini, 2, (Mendrisio)
Orario di apertura
LU-VE 9-12/14-18.30 SA 9-12
Vernissage
16 Febbraio 2008, ore 17.00
Autore
Curatore