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Paolo Galetto – Walking in my shoes
Studio 12 diventa anche galleria d’arte e vi invita a un appuntamento al buio. Con la mostra di Paolo Galetto, artista torinese, i cui lavori sono visibili per la prima volta a Milano, nasce una nuova realtà espositiva, all’interno degli spazi di lavoro dello studio di architettura di Francesca Cutini e Pierangela Costi.
Comunicato stampa
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Paolo Galetto - “Walking in my shoes”
Studio 12 diventa anche galleria d’arte e vi invita a un appuntamento al buio.
Con la mostra di Paolo Galetto, artista torinese, i cui lavori sono visibili per la prima volta a Milano, nasce una nuova realtà espositiva, all’interno degli spazi di lavoro dello studio di architettura di Francesca Cutini e Pierangela Costi.
Dove sono i quadri? Che cosa resta della pittura? Solo uno scherzo?
La vernice di “Walking in my shoes” si svolgerà mercoledì 9 febbraio, dalle 19.00 alle 22.30, a Milano in via Borsieri 30 (http://www.studiododici.com/location.htm), con la performance “Do you have a lighter?”. La mostra sarà poi visitabile a partire dal 10 febbraio, dal lunedì al venerdì, dalle 15.00 alle 18.00.
Dal 10 al 25 febbraio saranno visibili 28 dipinti, legati al tema del ritratto, su cui Galetto da molti anni ha incentrato la propria ricerca artistica e su una serie di raffigurazioni di scarpe da donna, con cui il pittore piemontese vuole rendere omaggio all’architettura della bellezza femminile.
La personale di Paolo Galetto è un’iniziativa di Francesca Cutini, Maria Camilla Bove, ed è curata da Andrea Dusio.
Paolo Galetto e il ritratto
La prima volta che ho visto i lavori di Paolo Galetto ho pensato ai “quadri non dipinti” di Emil Nolde, quegli acquarelli realizzati in maniera clandestina dopo che gli era stato impedito di lavorare, in quanto “artista degenerato”. Anche oggi, in questa ostinazione a voler fare il pittore, c’è qualcosa che rimanda all’idea di carboneria, a una pratica estromessa dal sistema dell’arte, ridicolizzata perché legata ancora a un “mestiere” e a un’abilità, non sufficientemente liquida e dunque riluttante a rimodellarsi sulla mobilità dei linguaggi e dei racconti, su quel grande gioco di relazioni e autoreferenze che è il mercato.
Tutte cose che a molti interessano e a Paolo Galetto evidentemente no. Oggi noi viviamo un colossale paradosso. Il linguaggio dell’accademia è quello concettuale, che instancabilmente lavora con una sola tensione: costruire i presupposti perché il sistema sopravviva a sé stesso, e la grande fumisteria possa proseguire. Antiaccademico, anarcoide e destabilizzante è invece chi ha lavorato solo su di sé, mettendo continuamente in crisi le proprie acquisizioni, cercando di rovesciare gli automatismi della propria tecnica ineffabile, e di mettersi di nuovo in comunicazione con un mistero, e dunque una ricerca.
(dal testo critico di Andrea Dusio)
Per informazioni:
Phone: +39 02 4693869
info@studiododici.com
Biografia
Paolo Galetto nasce a Torino in Aprile,nel 1962. Vive e lavora tra Torino e Parigi. Ha lavorato a lungo come visualizer, realizzando centinaia di storyboard per alcuni dei più importanti brand del mondo. Parallelamente ha sempre dipinto, focalizzandosi sull’utilizzo dei colori ad acqua e utilizzando come supporto la carta. Estremamente riservato, ha atteso più di quindici anni per mostrare i propri lavori. La sua ricerca si è concentrata prima sul paesaggio, poi sulla figura umana e su una serie di raffigurazioni di scarpe femminili. Tra i suoi lavori seriali su commissione, in cui ha messo a punto una tecnica che si pone in un punto intermedio tra la sua ricerca e un più marcato intento comunicativo, si pongono le “Voguette”, ritratti femminili realizzati per Vogue Italia. La gallery, intitolata “Voguette by Paolo Galetto” è visibile sul sito del magazine. Da marzo 2010 la pagina della cultura del La Stampa ospita inoltre suoi i ritratti dei più importanti pensatori, romanzieri , intellettuali. Per Bolaffi ha curato recentemente una serie di ritratti “anticonvenzionali” dei grandi protagonisti del Risorgimento.
Paolo Galetto e il ritratto
testo di Andrea Dusio
La prima volta che ho visto i lavori di Paolo Galetto ho pensato ai “quadri non dipinti” di Emil Nolde, quegli acquarelli realizzati in maniera clandestina dopo che gli era stato impedito di lavorare, in quanto “artista degenerato”. Anche oggi, in questa ostinazione a voler fare il pittore, c’è qualcosa che rimanda all’idea di carboneria, a una pratica estromessa dal sistema dell’arte, ridicolizzata perché legata ancora a un “mestiere” e a un’abilità, non sufficientemente liquida e dunque riluttante a rimodellarsi sulla mobilità dei linguaggi e dei racconti, su quel grande gioco di relazioni e autoreferenze che è il mercato.
Tutte cose che a molti interessano e a Paolo Galetto evidentemente no. Oggi noi viviamo un colossale paradosso. Il linguaggio dell’accademia è quello concettuale, che instancabilmente lavora con una sola tensione: costruire i presupposti perché il sistema sopravviva a sé stesso, e la grande fumisteria possa proseguire. Antiaccademico, anarcoide e destabilizzante è invece chi ha lavorato solo su di sé, mettendo continuamente in crisi le proprie acquisizioni, cercando di rovesciare gli automatismi della propria tecnica ineffabile, e di mettersi di nuovo in comunicazione con un mistero, e dunque una ricerca.
Chi scrive di un artista dovrebbe spesso limitarsi a un epigramma. È come arrivare al cinema quando il film è iniziato da parecchio. Se ricordate, molti anni fa, si entrava lo stesso, anche a fine del primo tempo. Poi si rimaneva allo spettacolo seguente, per vedere lo spezzone mancante. Allo stesso modo, si va a casa di un artista, nelle poche ore a disposizione si vede una parte dei suoi lavori, spesso quelli più recenti, e si prova a parlare un po’ con lui, per sapere quanto basta per comprendere come è arrivato sin lì. Per raccontare la trama, caso mai qualcuno ce la chiedesse. È bene non bleffare. Non provare a spiegare quel che non si è capito.
Neppure la pittura è verità. Forse ha più forza lirica della parola, ma proprio per questo chiede grande moralità, comprensione del limite. Un limite particolarmente evidente nel genere del ritratto, che resta il sesto grado delle arti figurative, e domanda lo stesso rispetto di una grande parete alpina. Non è una palestra d’ardimento, non siamo sul terreno della mimesis. Il primo passo di un buon ritrattista è un passo indietro, la capacità di dirsi “più in là non mi sento di andare”. Credo che la grande stagione della cultura europea, quella della modernità, coincida proprio con la capacità progressiva, nel romanzo, nel teatro e appunto nel ritratto, di mettere al centro non già la rappresentazione della realtà-problema etico per certi versi preliminare-quanto la consapevolezza della propria posizione nel mondo da parte del personaggio rappresentato, attraverso una fusione dei punti di vista, un atto di “presunzione” straordinario.
Allo stesso modo in cui non sentiremmo mai un romanziere di oggi dire “madame Bovary c’est moi”, anche il ritrattista è chiamato a chiedersi fino a dove può parlare di chi ha davanti. Paolo Galetto però ha spostato intelligentemente la questione. Non “parlare di”, ma “parlare con”. I suoi ritratti dicono prima di tutto di chi li ha fatti, sono come l’inizio di una conversazione, un atto di avvicinamento e non di invasione, il tentativo di dire “forse sei così, ma magari no, questo è quel che ci vedo io, non chiedermi una parola di più”. E con questo non voglio chiamare in causa un atteggiamento “reticente”. Non siamo in un mondo di pensiero debole, ma di possibilità.
Proviamo per un attimo a seguire la teoria dei sei gradi di separazione, quella secondo cui qualsiasi persona può essere collegata a un’altra, tramite una catena di intermediari che non prevede mai più di cinque anelli di congiunzione. Saremmo tentati di dire che la misura etica di Galetto sta nel restare, al punto di partenza della relazione che si esplica con un ritratto, sempre a un punto indefinito della catena. Sarà in grado di rintracciare qual è il suo legame con quella determinata persona? Lo sapremo solo a lavoro finito, perché la tensione è proprio a cercare nel ritratto quel link, quel punto di contatto. Non valgono le scorciatoie amicali, del gruppo, della tribù, della family. C’è, molto più semplicemente, un dono di sé, che si sostanzia nella disponibilità a guardare chi è l’altro, allontanando da sé il fascio di proiezioni di cui è costituita appunto la nostra posizione nel mondo. Ecco perché credo a Paolo quando mi dice che vorrebbe dipingere solo nudi, o addirittura sessi. Non perché vi sia qualcosa di viscerale, e ancor meno di morboso, quell’ossessione per la carne di cui molta critica ha voluto fare l’unica cifra di senso possibile per la persistenza della pittura. Galetto non è un pittore testoriano. Non ama la materia per la materia.
Se leggete una storia qualsiasi della pittura per acquarello, vedrete che sino a un certo punto la tecnica del water color è assimilata al disegno, e viene utilizzata esclusivamente per opere di piccola dimensione. Poi, nel vertiginoso processo di destrutturazione dell’unità di senso della rappresentazione pittorica che coincide con la nascita dei generi, e dunque con il Seicento, si è cominciato ad adoperare l’acquerello anche per dipinti più ambiziosi. Personalmente sono convinto che ogni pittore che pensa da pittore riassuma dentro la propria ricerca il percorso di emancipazione dalle sicurezze della tecnica che si compie nel corso della storia dell’arte.
La forza di Galetto è aver fatto questo percorso dentro a un genere che è continuamente alla ricerca di appigli e, dall’altra parte, di accomodamenti, qual è il ritratto. Un genere che, nelle sue forme deteriori, oscilla tra la verisimiglianza e il cinismo. E che invece con lui approda a un tipo di performance capace di bruciare appunto anche il problema dell’alterità verso chi ci è davanti, della distanza. Rimozione (delle proprie certezze, della destrezza), fiducia e affidamento totale nel gesto e nel colore, più forti di qualsiasi tentazione di far prevalere la razionalità apollinea del segno. E dunque capacità di essere informale nel ritratto, pur senza allontanarsi da un millimetro dalla forma primaria per eccellenza, la figura umana. Come fa Galetto ad abbandonare il segno per il gesto e però poi a far sì che lo sguardo si ritrovi, che il ritratto pur contravvenendo all’immagine dello specchio che ne contenga una porzione di verità equipollente?
In realtà un segreto c’è. Ma non ve lo dico.
Le scarpe, architettura del desiderio
Girando per il Maxxi di Roma, mi è capitato di osservare i disegni per il progetto dell’Ambasciata a Brasilia di Pierluigi Nervi. Appartengono a un epoca in cui i rendering venivano ancora realizzati a mano, con grande perizia tecnica. Nella celebre realizzazione dell’architetto di Sondrio, la forza estetica è affidata alla straordinaria leggerezza strutturale conferita dalle forme delle strutture portanti. In quel sito circondato da una natura prorompente, il segno dell’italianità coincide con un’allusione all’irrinunciabilità della bellezza, anche all’interno di un linguaggio formalmente razionalista.
Allo stesso modo, le scarpe di donna realizzate da Paolo Galetto cercano di mettere in comunicazione due mondi e due realtà fondate su modalità percettive e su espressioni estetiche non comunicanti. Da una parte ci sono gli uomini, il loro senso d’inferiorità rispetto a un contenuto intrinseco di bellezza che possono provare solo a possedere, ma in cui non riusciranno mai sino in fondo a incarnarsi. Dall’altro le donne, ineffabili architette di sé stesse, capaci di trasferire il desiderio da sé ai vestiti e agli accessori, per poi però riappropriarsene. Una donna sceglie l’architettura della propria bellezza, e un negozio di scarpe è il suo guardaroba borrominiano, dove mette in atto l’artificio barocco dello scambio tra struttura e impalcatura, tra decorazione e forma interna.
Paolo Galetto non dipinge scarpe, ma donne in forma di scarpe. E così ci racconta della tensione maschile a essere quel che non potremo mai essere. Alcuni uomini si abbandonano alla dimensione consolatoria del feticismo, il possesso di qualcosa che per definizione non possiamo avere, e che infatti è tangente alla modalità della sottrazione e del furto. I suoi acquarelli si pongono esattamente all’altra estremità: sono un’evocazione che ci invita a guardare la forma interna della bellezza femminile con gli occhi e la testa delle donne, un po’ come quel film in cui qualcuno, infilandosi nel condotto d’areazione di un palazzo fatiscente, finisce misteriosamente dentro la testa di John Malkovich.
Così, a seconda del vostro sesso e della vostra sensibilità, in queste forme imprevedibili e però sempre in qualche misura archetipiche, perché il desiderio precede la sua intelligenza, ciascuno vedrà alternativamente una donna, una scarpa o lo sguardo di un uomo su una forma di bellezza da cui sarebbe escluso a priori, ma a cui si può avvicinare attraverso questa forma di sottile empatia. Attenzione però a non scambiarle per un ammiccamento, per la ricerca di una complicità. C’è invece il senso prosaico della contemplazione di un mistero. Così, se vogliamo cercare un titolo plausibile per questa serie di acquerelli, potrebbe essere davvero “Io sono una scarpa”, ma solo per dire della nostra natura maschile diminuita, della nostra goffaggine cromosomica, e dell’aspirazione ad annullarla attraverso l’intuizione di un architettura che somiglia così da vicino alla matematica interna di un mondo che ci è stato negato.
Paolo Galetto nasce a Torino in Aprile,nel 1962.Vive e lavora tra Torino e Parigi. Ha lavorato a lungo come visualizer, realizzando centinaia di storyboard per alcuni dei più importanti brand del mondo. Parallelamente ha sempre dipinto, focalizzandosi sull’utilizzo dei colori ad acqua e utilizzando come supporto la carta. Estremamente riservato, ha atteso più di quindici anni per mostrare i propri lavori. La sua ricerca si è concentrata prima sul paesaggio, poi sulla figura umana e su una serie di raffigurazioni di scarpe femminili.
Tra i suoi lavori seriali su commissione, in cui ha messo a punto una tecnica che si pone in un punto intermedio tra la sua ricerca e un più marcato intento comunicativo, si pongono le “Voguette”, ritratti femminili realizzati per Vogue Italia. La gallery, intitolata “Voguette by Paolo Galetto” è visibile sul sito del magazine. Da marzo 2010 la pagina della cultura del La Stampa ospita inoltre suoi i ritratti dei più importanti pensatori, romanzieri , intellettuali. Ed è grazie a queste illustrazioni che è stato selezionato per l’Annual 2011. Per Bolaffi ha curato recentemente una serie di ritratti “anticonvenzionali” dei grandi protagonisti del Risorgimento.
Studio 12 diventa anche galleria d’arte e vi invita a un appuntamento al buio.
Con la mostra di Paolo Galetto, artista torinese, i cui lavori sono visibili per la prima volta a Milano, nasce una nuova realtà espositiva, all’interno degli spazi di lavoro dello studio di architettura di Francesca Cutini e Pierangela Costi.
Dove sono i quadri? Che cosa resta della pittura? Solo uno scherzo?
La vernice di “Walking in my shoes” si svolgerà mercoledì 9 febbraio, dalle 19.00 alle 22.30, a Milano in via Borsieri 30 (http://www.studiododici.com/location.htm), con la performance “Do you have a lighter?”. La mostra sarà poi visitabile a partire dal 10 febbraio, dal lunedì al venerdì, dalle 15.00 alle 18.00.
Dal 10 al 25 febbraio saranno visibili 28 dipinti, legati al tema del ritratto, su cui Galetto da molti anni ha incentrato la propria ricerca artistica e su una serie di raffigurazioni di scarpe da donna, con cui il pittore piemontese vuole rendere omaggio all’architettura della bellezza femminile.
La personale di Paolo Galetto è un’iniziativa di Francesca Cutini, Maria Camilla Bove, ed è curata da Andrea Dusio.
Paolo Galetto e il ritratto
La prima volta che ho visto i lavori di Paolo Galetto ho pensato ai “quadri non dipinti” di Emil Nolde, quegli acquarelli realizzati in maniera clandestina dopo che gli era stato impedito di lavorare, in quanto “artista degenerato”. Anche oggi, in questa ostinazione a voler fare il pittore, c’è qualcosa che rimanda all’idea di carboneria, a una pratica estromessa dal sistema dell’arte, ridicolizzata perché legata ancora a un “mestiere” e a un’abilità, non sufficientemente liquida e dunque riluttante a rimodellarsi sulla mobilità dei linguaggi e dei racconti, su quel grande gioco di relazioni e autoreferenze che è il mercato.
Tutte cose che a molti interessano e a Paolo Galetto evidentemente no. Oggi noi viviamo un colossale paradosso. Il linguaggio dell’accademia è quello concettuale, che instancabilmente lavora con una sola tensione: costruire i presupposti perché il sistema sopravviva a sé stesso, e la grande fumisteria possa proseguire. Antiaccademico, anarcoide e destabilizzante è invece chi ha lavorato solo su di sé, mettendo continuamente in crisi le proprie acquisizioni, cercando di rovesciare gli automatismi della propria tecnica ineffabile, e di mettersi di nuovo in comunicazione con un mistero, e dunque una ricerca.
(dal testo critico di Andrea Dusio)
Per informazioni:
Phone: +39 02 4693869
info@studiododici.com
Biografia
Paolo Galetto nasce a Torino in Aprile,nel 1962. Vive e lavora tra Torino e Parigi. Ha lavorato a lungo come visualizer, realizzando centinaia di storyboard per alcuni dei più importanti brand del mondo. Parallelamente ha sempre dipinto, focalizzandosi sull’utilizzo dei colori ad acqua e utilizzando come supporto la carta. Estremamente riservato, ha atteso più di quindici anni per mostrare i propri lavori. La sua ricerca si è concentrata prima sul paesaggio, poi sulla figura umana e su una serie di raffigurazioni di scarpe femminili. Tra i suoi lavori seriali su commissione, in cui ha messo a punto una tecnica che si pone in un punto intermedio tra la sua ricerca e un più marcato intento comunicativo, si pongono le “Voguette”, ritratti femminili realizzati per Vogue Italia. La gallery, intitolata “Voguette by Paolo Galetto” è visibile sul sito del magazine. Da marzo 2010 la pagina della cultura del La Stampa ospita inoltre suoi i ritratti dei più importanti pensatori, romanzieri , intellettuali. Per Bolaffi ha curato recentemente una serie di ritratti “anticonvenzionali” dei grandi protagonisti del Risorgimento.
Paolo Galetto e il ritratto
testo di Andrea Dusio
La prima volta che ho visto i lavori di Paolo Galetto ho pensato ai “quadri non dipinti” di Emil Nolde, quegli acquarelli realizzati in maniera clandestina dopo che gli era stato impedito di lavorare, in quanto “artista degenerato”. Anche oggi, in questa ostinazione a voler fare il pittore, c’è qualcosa che rimanda all’idea di carboneria, a una pratica estromessa dal sistema dell’arte, ridicolizzata perché legata ancora a un “mestiere” e a un’abilità, non sufficientemente liquida e dunque riluttante a rimodellarsi sulla mobilità dei linguaggi e dei racconti, su quel grande gioco di relazioni e autoreferenze che è il mercato.
Tutte cose che a molti interessano e a Paolo Galetto evidentemente no. Oggi noi viviamo un colossale paradosso. Il linguaggio dell’accademia è quello concettuale, che instancabilmente lavora con una sola tensione: costruire i presupposti perché il sistema sopravviva a sé stesso, e la grande fumisteria possa proseguire. Antiaccademico, anarcoide e destabilizzante è invece chi ha lavorato solo su di sé, mettendo continuamente in crisi le proprie acquisizioni, cercando di rovesciare gli automatismi della propria tecnica ineffabile, e di mettersi di nuovo in comunicazione con un mistero, e dunque una ricerca.
Chi scrive di un artista dovrebbe spesso limitarsi a un epigramma. È come arrivare al cinema quando il film è iniziato da parecchio. Se ricordate, molti anni fa, si entrava lo stesso, anche a fine del primo tempo. Poi si rimaneva allo spettacolo seguente, per vedere lo spezzone mancante. Allo stesso modo, si va a casa di un artista, nelle poche ore a disposizione si vede una parte dei suoi lavori, spesso quelli più recenti, e si prova a parlare un po’ con lui, per sapere quanto basta per comprendere come è arrivato sin lì. Per raccontare la trama, caso mai qualcuno ce la chiedesse. È bene non bleffare. Non provare a spiegare quel che non si è capito.
Neppure la pittura è verità. Forse ha più forza lirica della parola, ma proprio per questo chiede grande moralità, comprensione del limite. Un limite particolarmente evidente nel genere del ritratto, che resta il sesto grado delle arti figurative, e domanda lo stesso rispetto di una grande parete alpina. Non è una palestra d’ardimento, non siamo sul terreno della mimesis. Il primo passo di un buon ritrattista è un passo indietro, la capacità di dirsi “più in là non mi sento di andare”. Credo che la grande stagione della cultura europea, quella della modernità, coincida proprio con la capacità progressiva, nel romanzo, nel teatro e appunto nel ritratto, di mettere al centro non già la rappresentazione della realtà-problema etico per certi versi preliminare-quanto la consapevolezza della propria posizione nel mondo da parte del personaggio rappresentato, attraverso una fusione dei punti di vista, un atto di “presunzione” straordinario.
Allo stesso modo in cui non sentiremmo mai un romanziere di oggi dire “madame Bovary c’est moi”, anche il ritrattista è chiamato a chiedersi fino a dove può parlare di chi ha davanti. Paolo Galetto però ha spostato intelligentemente la questione. Non “parlare di”, ma “parlare con”. I suoi ritratti dicono prima di tutto di chi li ha fatti, sono come l’inizio di una conversazione, un atto di avvicinamento e non di invasione, il tentativo di dire “forse sei così, ma magari no, questo è quel che ci vedo io, non chiedermi una parola di più”. E con questo non voglio chiamare in causa un atteggiamento “reticente”. Non siamo in un mondo di pensiero debole, ma di possibilità.
Proviamo per un attimo a seguire la teoria dei sei gradi di separazione, quella secondo cui qualsiasi persona può essere collegata a un’altra, tramite una catena di intermediari che non prevede mai più di cinque anelli di congiunzione. Saremmo tentati di dire che la misura etica di Galetto sta nel restare, al punto di partenza della relazione che si esplica con un ritratto, sempre a un punto indefinito della catena. Sarà in grado di rintracciare qual è il suo legame con quella determinata persona? Lo sapremo solo a lavoro finito, perché la tensione è proprio a cercare nel ritratto quel link, quel punto di contatto. Non valgono le scorciatoie amicali, del gruppo, della tribù, della family. C’è, molto più semplicemente, un dono di sé, che si sostanzia nella disponibilità a guardare chi è l’altro, allontanando da sé il fascio di proiezioni di cui è costituita appunto la nostra posizione nel mondo. Ecco perché credo a Paolo quando mi dice che vorrebbe dipingere solo nudi, o addirittura sessi. Non perché vi sia qualcosa di viscerale, e ancor meno di morboso, quell’ossessione per la carne di cui molta critica ha voluto fare l’unica cifra di senso possibile per la persistenza della pittura. Galetto non è un pittore testoriano. Non ama la materia per la materia.
Se leggete una storia qualsiasi della pittura per acquarello, vedrete che sino a un certo punto la tecnica del water color è assimilata al disegno, e viene utilizzata esclusivamente per opere di piccola dimensione. Poi, nel vertiginoso processo di destrutturazione dell’unità di senso della rappresentazione pittorica che coincide con la nascita dei generi, e dunque con il Seicento, si è cominciato ad adoperare l’acquerello anche per dipinti più ambiziosi. Personalmente sono convinto che ogni pittore che pensa da pittore riassuma dentro la propria ricerca il percorso di emancipazione dalle sicurezze della tecnica che si compie nel corso della storia dell’arte.
La forza di Galetto è aver fatto questo percorso dentro a un genere che è continuamente alla ricerca di appigli e, dall’altra parte, di accomodamenti, qual è il ritratto. Un genere che, nelle sue forme deteriori, oscilla tra la verisimiglianza e il cinismo. E che invece con lui approda a un tipo di performance capace di bruciare appunto anche il problema dell’alterità verso chi ci è davanti, della distanza. Rimozione (delle proprie certezze, della destrezza), fiducia e affidamento totale nel gesto e nel colore, più forti di qualsiasi tentazione di far prevalere la razionalità apollinea del segno. E dunque capacità di essere informale nel ritratto, pur senza allontanarsi da un millimetro dalla forma primaria per eccellenza, la figura umana. Come fa Galetto ad abbandonare il segno per il gesto e però poi a far sì che lo sguardo si ritrovi, che il ritratto pur contravvenendo all’immagine dello specchio che ne contenga una porzione di verità equipollente?
In realtà un segreto c’è. Ma non ve lo dico.
Le scarpe, architettura del desiderio
Girando per il Maxxi di Roma, mi è capitato di osservare i disegni per il progetto dell’Ambasciata a Brasilia di Pierluigi Nervi. Appartengono a un epoca in cui i rendering venivano ancora realizzati a mano, con grande perizia tecnica. Nella celebre realizzazione dell’architetto di Sondrio, la forza estetica è affidata alla straordinaria leggerezza strutturale conferita dalle forme delle strutture portanti. In quel sito circondato da una natura prorompente, il segno dell’italianità coincide con un’allusione all’irrinunciabilità della bellezza, anche all’interno di un linguaggio formalmente razionalista.
Allo stesso modo, le scarpe di donna realizzate da Paolo Galetto cercano di mettere in comunicazione due mondi e due realtà fondate su modalità percettive e su espressioni estetiche non comunicanti. Da una parte ci sono gli uomini, il loro senso d’inferiorità rispetto a un contenuto intrinseco di bellezza che possono provare solo a possedere, ma in cui non riusciranno mai sino in fondo a incarnarsi. Dall’altro le donne, ineffabili architette di sé stesse, capaci di trasferire il desiderio da sé ai vestiti e agli accessori, per poi però riappropriarsene. Una donna sceglie l’architettura della propria bellezza, e un negozio di scarpe è il suo guardaroba borrominiano, dove mette in atto l’artificio barocco dello scambio tra struttura e impalcatura, tra decorazione e forma interna.
Paolo Galetto non dipinge scarpe, ma donne in forma di scarpe. E così ci racconta della tensione maschile a essere quel che non potremo mai essere. Alcuni uomini si abbandonano alla dimensione consolatoria del feticismo, il possesso di qualcosa che per definizione non possiamo avere, e che infatti è tangente alla modalità della sottrazione e del furto. I suoi acquarelli si pongono esattamente all’altra estremità: sono un’evocazione che ci invita a guardare la forma interna della bellezza femminile con gli occhi e la testa delle donne, un po’ come quel film in cui qualcuno, infilandosi nel condotto d’areazione di un palazzo fatiscente, finisce misteriosamente dentro la testa di John Malkovich.
Così, a seconda del vostro sesso e della vostra sensibilità, in queste forme imprevedibili e però sempre in qualche misura archetipiche, perché il desiderio precede la sua intelligenza, ciascuno vedrà alternativamente una donna, una scarpa o lo sguardo di un uomo su una forma di bellezza da cui sarebbe escluso a priori, ma a cui si può avvicinare attraverso questa forma di sottile empatia. Attenzione però a non scambiarle per un ammiccamento, per la ricerca di una complicità. C’è invece il senso prosaico della contemplazione di un mistero. Così, se vogliamo cercare un titolo plausibile per questa serie di acquerelli, potrebbe essere davvero “Io sono una scarpa”, ma solo per dire della nostra natura maschile diminuita, della nostra goffaggine cromosomica, e dell’aspirazione ad annullarla attraverso l’intuizione di un architettura che somiglia così da vicino alla matematica interna di un mondo che ci è stato negato.
Paolo Galetto nasce a Torino in Aprile,nel 1962.Vive e lavora tra Torino e Parigi. Ha lavorato a lungo come visualizer, realizzando centinaia di storyboard per alcuni dei più importanti brand del mondo. Parallelamente ha sempre dipinto, focalizzandosi sull’utilizzo dei colori ad acqua e utilizzando come supporto la carta. Estremamente riservato, ha atteso più di quindici anni per mostrare i propri lavori. La sua ricerca si è concentrata prima sul paesaggio, poi sulla figura umana e su una serie di raffigurazioni di scarpe femminili.
Tra i suoi lavori seriali su commissione, in cui ha messo a punto una tecnica che si pone in un punto intermedio tra la sua ricerca e un più marcato intento comunicativo, si pongono le “Voguette”, ritratti femminili realizzati per Vogue Italia. La gallery, intitolata “Voguette by Paolo Galetto” è visibile sul sito del magazine. Da marzo 2010 la pagina della cultura del La Stampa ospita inoltre suoi i ritratti dei più importanti pensatori, romanzieri , intellettuali. Ed è grazie a queste illustrazioni che è stato selezionato per l’Annual 2011. Per Bolaffi ha curato recentemente una serie di ritratti “anticonvenzionali” dei grandi protagonisti del Risorgimento.
09
febbraio 2011
Paolo Galetto – Walking in my shoes
Dal 09 al 25 febbraio 2011
arte contemporanea
performance - happening
performance - happening
Location
STUDIO 12
Milano, Via Pietro Borsieri, 30, (Milano)
Milano, Via Pietro Borsieri, 30, (Milano)
Orario di apertura
dal lunedì al venerdì, dalle 15.00 alle 18.00.
Vernissage
9 Febbraio 2011, dalle 19.00 alle 22.30 con la performance “Do you have a lighter?”.
Autore
Curatore