Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Paolo Meluzzi e il dibattito Low-Rise High-Density (1990-2000).
Difficilmente il progettista che vive del suo lavoro è in grado di selezionare i propri clienti. Al massimo può investire in ricerca, ed è quanto Paolo Meluzzi ha fatto nel caso di edilizia low-rise high-density.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Il disegno della città nuova, della possibile nuova città reale, costituisce la dimensione operativa del progettista integrato. Questo si dà per frammenti o, quando possibile, apre a un disegno complessivo. Un progetto nel quale tutti i temi della città moderna, posti già da Leonardo da Vinci nel suo disegno di organizzazione funzionale a più livelli, trovano possibile soluzione e forma proposte alla società civile.
Succede raramente che questo tipo di progetto venga accolto. Come è avvenuto nei due concorsi per nuove tipologie residenziali e per una nuova espansione della Città di Sabaudia: occasioni che hanno chiamato a raccolta nei loro anni una significativa quantità di progettisti, raccolti in gruppi, come nel caso di Meluzzi, composti da architetti di più generazioni. Il primo caso, che conduce a un risultato plastico di grande efficacia - una residenza città - vede la partecipazione dell'Ingegnere Mario Bedoni. Nel secondo, la presenza di Carlo Melograni nel gruppo di progettazione assume un rilievo storico: rimanda a una posizione teorica, condivisa dai più giovani, che, a partire dal progetto per la Fiera di Bologna, redatto con Giura Longo e Benevolo, condanna sostanzialmente il neorealismo architettonico degli anni Cinquanta: stracittà meglio di strapaese (c'erano anche altre opzioni: Torino Falchera, di Giovanni Astengo e Genova Forte Quezzi, di Luigi Carlo Daneri).
Tuttavia nel lavoro di Paolo Meluzzzi non si tratta, come si può vedere nei progetti per Bracciano, per Torrita Tiberina e per l’annex di Casteltodino, di un eccesso di ideologismo: l’architettura può declinare tecniche e linguaggi consolidati dalla autorità della architettura senza architetti, che il progettista responsabile guarda senza alterigia, sempre disposto a imparare.
Difficilmente il progettista che vive del suo lavoro è in grado di selezionare i propri clienti: anche negli anni Settanta nei quali sembrava che il suo ruolo fosse più di oggi riconosciuto dal contesto sociale. Ciò che al massimo può fare è investire in ricerca, ed è quanto Meluzzi e i suoi amici e compagni di lavoro hanno fatto, affiancando i migliori risultati internazionali di quegli anni, nel caso di edilizia low-rise high-density.
Tutta la vicenda italiana del secondo dopoguerra è influenzata dalla lunga e affettuosa frequentazione e amicizia di Walter Gropius e Bruno Zevi. A questo scambio, per come si configurava negli anni Sessanta, si può riferire il lavoro di Paolo Meluzzi e dei suoi colleghi. Solo nel seguito la scatola edilizia diventa per Zevi il nemico da battere, le colonne d’Ercole da attraversare. Ma anche Walter Gropius, nel memorabile progetto per l’Università di Bagdad, discusso all’Inarch, sembra smarrire la strada. In realtà la crisi è mondiale: Stone e Yamasaki negli Usa, Muratori e lo stesso De Renzi a Roma denunciano la crisi del linguaggio dell’architettura moderna. A questo, come via d’uscita teorica, nel 1977 Zevi oppone il linguaggio moderno dell’architettura. Di fatto, una impossibile codificazione della deroga e della dissonanza, qualificate come il DNA del linguaggio moderno. Non dimentichiamo che in quegli anni si avvia un clima di marcato, per quanto effimero, successo del postmodernismo. “Abbiamo vinto!”, proclamerà Zevi, commentando i risultati del concorso Paesaggistica e linguaggio grado zero dell’Architettura nel 1997. Ma nelle mani del mercato la sua dichiarata vittoria sul postmodernismo e sulla scatola edilizia diventa una licenza di uccidere. Uccidere l’Architettura stessa, contrabbandando per questa esercitazioni formali più proprie di interventi effimeri che di stabili monumenti (architetture torta – cake architcture – o architetture zucchero filato – cotton candy architecture) distribuiti nelle città del mondo e omologati come architettura dalla maggior parte dei media. Peraltro l’Architettura della quale stiamo qui parlando non si sottrae alle sue responsabilità stilistiche: una assenza di stile, si potrebbe dire salutare secondo alcuni, colpevole, secondo altri.
In realtà esiste una “mano” del nostro Architetto, che si rileva a una analisi più strutturale in senso formale: si tratta di un carattere di concitazione, di concentrazione degli elementi del progetto edilizio che procede per esclusione. Assai evidente nella maggior parte dei progetti, ma in particolare in quelli per il Nuovo Municipio (un progetto – sembra- incredibilmente costruito, demolito e ricostruito in altre forme e diverse destinazioni funzionali ), per nuove tipologie residenziali, per Tolfa, per Sabaudia.
Un processo progettuale per esclusione che partiva - secondo la testimonianza del collaboratori- da una visione di insieme, integrale, aerea del progetto e arrivava fino ad escludere con acribia ogni centimetro di spazio e ogni grammo di materiale inutile nella cellula abitativa.
Forse una sorta di frugalità, che Soleri sosteneva all'inizio di questo millennio, che faceva da contrappunto a un privato liberamente vissuto.
Carlo Severa
Succede raramente che questo tipo di progetto venga accolto. Come è avvenuto nei due concorsi per nuove tipologie residenziali e per una nuova espansione della Città di Sabaudia: occasioni che hanno chiamato a raccolta nei loro anni una significativa quantità di progettisti, raccolti in gruppi, come nel caso di Meluzzi, composti da architetti di più generazioni. Il primo caso, che conduce a un risultato plastico di grande efficacia - una residenza città - vede la partecipazione dell'Ingegnere Mario Bedoni. Nel secondo, la presenza di Carlo Melograni nel gruppo di progettazione assume un rilievo storico: rimanda a una posizione teorica, condivisa dai più giovani, che, a partire dal progetto per la Fiera di Bologna, redatto con Giura Longo e Benevolo, condanna sostanzialmente il neorealismo architettonico degli anni Cinquanta: stracittà meglio di strapaese (c'erano anche altre opzioni: Torino Falchera, di Giovanni Astengo e Genova Forte Quezzi, di Luigi Carlo Daneri).
Tuttavia nel lavoro di Paolo Meluzzzi non si tratta, come si può vedere nei progetti per Bracciano, per Torrita Tiberina e per l’annex di Casteltodino, di un eccesso di ideologismo: l’architettura può declinare tecniche e linguaggi consolidati dalla autorità della architettura senza architetti, che il progettista responsabile guarda senza alterigia, sempre disposto a imparare.
Difficilmente il progettista che vive del suo lavoro è in grado di selezionare i propri clienti: anche negli anni Settanta nei quali sembrava che il suo ruolo fosse più di oggi riconosciuto dal contesto sociale. Ciò che al massimo può fare è investire in ricerca, ed è quanto Meluzzi e i suoi amici e compagni di lavoro hanno fatto, affiancando i migliori risultati internazionali di quegli anni, nel caso di edilizia low-rise high-density.
Tutta la vicenda italiana del secondo dopoguerra è influenzata dalla lunga e affettuosa frequentazione e amicizia di Walter Gropius e Bruno Zevi. A questo scambio, per come si configurava negli anni Sessanta, si può riferire il lavoro di Paolo Meluzzi e dei suoi colleghi. Solo nel seguito la scatola edilizia diventa per Zevi il nemico da battere, le colonne d’Ercole da attraversare. Ma anche Walter Gropius, nel memorabile progetto per l’Università di Bagdad, discusso all’Inarch, sembra smarrire la strada. In realtà la crisi è mondiale: Stone e Yamasaki negli Usa, Muratori e lo stesso De Renzi a Roma denunciano la crisi del linguaggio dell’architettura moderna. A questo, come via d’uscita teorica, nel 1977 Zevi oppone il linguaggio moderno dell’architettura. Di fatto, una impossibile codificazione della deroga e della dissonanza, qualificate come il DNA del linguaggio moderno. Non dimentichiamo che in quegli anni si avvia un clima di marcato, per quanto effimero, successo del postmodernismo. “Abbiamo vinto!”, proclamerà Zevi, commentando i risultati del concorso Paesaggistica e linguaggio grado zero dell’Architettura nel 1997. Ma nelle mani del mercato la sua dichiarata vittoria sul postmodernismo e sulla scatola edilizia diventa una licenza di uccidere. Uccidere l’Architettura stessa, contrabbandando per questa esercitazioni formali più proprie di interventi effimeri che di stabili monumenti (architetture torta – cake architcture – o architetture zucchero filato – cotton candy architecture) distribuiti nelle città del mondo e omologati come architettura dalla maggior parte dei media. Peraltro l’Architettura della quale stiamo qui parlando non si sottrae alle sue responsabilità stilistiche: una assenza di stile, si potrebbe dire salutare secondo alcuni, colpevole, secondo altri.
In realtà esiste una “mano” del nostro Architetto, che si rileva a una analisi più strutturale in senso formale: si tratta di un carattere di concitazione, di concentrazione degli elementi del progetto edilizio che procede per esclusione. Assai evidente nella maggior parte dei progetti, ma in particolare in quelli per il Nuovo Municipio (un progetto – sembra- incredibilmente costruito, demolito e ricostruito in altre forme e diverse destinazioni funzionali ), per nuove tipologie residenziali, per Tolfa, per Sabaudia.
Un processo progettuale per esclusione che partiva - secondo la testimonianza del collaboratori- da una visione di insieme, integrale, aerea del progetto e arrivava fino ad escludere con acribia ogni centimetro di spazio e ogni grammo di materiale inutile nella cellula abitativa.
Forse una sorta di frugalità, che Soleri sosteneva all'inizio di questo millennio, che faceva da contrappunto a un privato liberamente vissuto.
Carlo Severa
22
settembre 2017
Paolo Meluzzi e il dibattito Low-Rise High-Density (1990-2000).
Dal 22 al 30 settembre 2017
architettura
Location
GALLERIA EMBRICE
Roma, Via Delle Sette Chiese, 78, (Roma)
Roma, Via Delle Sette Chiese, 78, (Roma)
Orario di apertura
dal lunedì al sabato, 18.30-20.30.
Vernissage
22 Settembre 2017, h 18.30
Autore
Curatore