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Paride Bianco – I muri di Livorno
Serie di installazioni recentissime del Maestro veneziano; un’attenzione alla realtà livornese di cui è entrato a far parte da una decina di anni, mutuata dal ricordo sempre vivo e presente dei muri della sua Venezia, imbevuti di umidità, che fioriscono sulle pareti dei palazzi come fiori di sale.
Comunicato stampa
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Negli spazi dello Studio Arte Mes3 di Livorno, Giuliana Donzello, direttrice artistica, accoglie "I muri di Livorno", le più recenti installazioni di Paride Bianco, curate da Giulia Santacroce.
Quando Kounellis nel 2001 ai Bottini dell’Olio con “Dalla Potemkin ai Kurs” preparò un avvenimento allora d’avanguardia, con la stessa emozione, per trovare “… i segni della sua storia”, Paride recupera con l’ostatismo i muri della città labronica.
Come le nuvole gli sbreghi parlano di loro: veri segni del tempo buono o cattivo, di pace o di guerra, di lavoro o d’incidente e l’unica testimonianza è farli propri, incasellarli su carta o tela e dialogare con il colore, ricordando di non uscire mai di tema; il riconoscimento deve essere immediato e non mediato: l’opera sussiste a emblema di una vicenda linguistica continua, perché la langue prepara al senso, che deve rimanere incorrotto, se lo sbrego è l’accidente e non lo sfregio di qualcuno.
L‘allestimento suggerisce che i muri diventano “muri di casa”, e in questa accezione i luoghi del riparo, della sicurezza, del conforto; si fanno così obbligate opere che diffondono quel senso di legame e di appartenenza di una città.
L’autore veneziano ha sempre davanti a sé i muri bagnati dalla laguna, i mattoni rossi delle case popolari, i marmi delle dimore aristocratiche, i bei fregi liberty tuttora esistenti, le composizioni in mosaico le cui regole di un tempo ne consigliavano la produzione. Oggi egli recupera quello che è più evidente, quella parte del tutto che ne svela il dentro.
Già nel 2010, da poco arrivato, partecipa alla 58^ edizione del Premio “Città di Livorno” con tre installazioni (Croce astratta, Il numero Uno, Orologio per momenti indimenticabili da 1 a 9) che non ottengono alcun rilievo critico e passano sotto silenzio, mostrando da allora un ritardo endemico, frutto di un pervicace rimaneggiamento di un post-macchiaiolismo (neologismo di chi scrive) deteriore e inutile.
Nel libro “Fiori di sale” di Giuliana Donzello , che riproduce nel frontespizio il quadro "Trasferimento di senso", dipinto dall’artista nel 1989, i muri sono impregnati di salnitro, muffa bianca che non corrode, ma mantiene l’umidità. Tuttavia sono anche l’effetto di una città che galleggia, che richiede equilibrio e dove l’espressione di emozioni, di simboli e di archetipi originano nuovi ripensamenti e nuove valutazioni, per raggiungere zone vergini dell’immaginario.
Questo il linguaggio artistico della materia e di materiali anche molto distanti tra loro: senso distintivo di un “sentire” sensibile ed emozionale, che fanno dell’artista un teorico dell’espressione plastica o pittorica.
Il “mondo” dei muri non è un “mondo metafisico”; è fisico, presenza che si presta totalmente se pietra a vista, se piastrellato o a spacco di cava o altro, per rendere giusto valore al mondo, questo sì metafisico della casa. Acquisire la forma dello sbrego con l’ostatismo è un prestito vantaggioso, resta solo completare l’opera con il colore, non copiato, ma intriso di sentimento. Come la pietra filosofale quegli ammassi calcolati di calce, cemento e pietre sapientemente disposti rendono giusto giudizio e nel sentimento, crogiolo di esperienze, pensieri riflessi e giudizi, permettono la soluzione estetica. Quante informazioni la materia può dare a chi percorre il sentiero della poesia?
La critica di sistema in casi come questi ama parlare di astrazione (più giusto “ab-trarre”), riconoscendo le regole che classificano i linguaggi. E se invece fosse realtà ciò che è stato tratto con il modo individuato come l’unico possibile?
Prendere un foglio di carta o una tela, e una volta posizionati sopra il muro o sullo sfregio con una matita o con un raschietto as-trarre l’essere che sta lì, in attesa di essere rivelato, significa il processo dell’ostatismo. Occorre a questo punto riprendere la citazione di Benveniste, secondo il quale “la realtà di un oggetto non è separabile dal metodo impiegato per definirlo”: l’esito fa comparire un rilievo perfettamente conforme per ottemperare la necessità di stendere il colore o lasciare la grafite; in ogni caso che così non sia la realtà, probabilità di controprove non esistono.
Questo tipo di calco ha avuto un precedente storico nella maschera di Agamennone, pratica che ancora oggi è usata sia nell’arte funeraria, che in quella più appariscente di pseudo scultori contemporanei. La ripresa dello sfregio ha esportato la ricerca verso più semplici pratiche.
Ne “I muri di Livorno” l’artista si esprime più propriamente con un bassorilievo creato ex-novo che gli permette di semplificare l’operazione di assorbimento, per giungere alla costruzione dell’opera con lo svelamento della massa di informazioni che la sottende: un bisogno che, benché possente, deve attestarsi al ritmo della prassi compositiva, sia essa affidata a colori a olio, o tempera, o grafite, e da ultima alla paraffina. La verosimiglianza diventa un fattore secondario, o per lo meno non necessario. Ma quale enunciato analitico si riconduce al vero?
Lo sfregio è il fuori, è l’esterno, ma fa l’abito: è un accidente? configura potenza?
L’abito si appende per essere alla moda, l’influeche per eccellenza: assicura un posto ed uno spazio certo, da imitare o peggio da copiare. Quanti per ignavia e non per vocazione hanno optato per la pop-art? l’immagine digitale? il concettuale che distrugge gli specchi?
Opere in tela o in carta e paraffina, foto di fregi compongono il tema dell’allestimento, oltre uno strappo su cartone per un’umile testimonianza: comunicare senza banalizzare, rendere l’aria respirabile, fresca come quella di una montagna innevata.
Fare attenzione alle cose che ci stanno davanti agli occhi, che combinano con la vita normale un’infinità di amori, basta saper scegliere, oppure abituarsi a riflettere e scegliere il buono, il giusto, perché è giusto attingere a piene mani dal reale. È nelle cose che il reale si relaziona, fuori assolutamente dal fenomenologico per non cadere nella metafisica, e naviga nella conoscenza. Dagli effetti l’ostatismo ricava opere irripetibili per la sua stessa struttura.
Per questi “muri” che ci parlano di adesione e di appartenenza occorre ancor più eliminare ogni fraintendimento sociologico per il quale l’allestimento è il “solito” spazio del tutto privo di effetti speciali, per scoprire invece quelle piccole cose reali che sono costantemente dimenticate, che stanno sempre lì davanti a noi: un “sempre” certo invadente, forse anche volutamente noioso.
Giulia Santacroce
Quando Kounellis nel 2001 ai Bottini dell’Olio con “Dalla Potemkin ai Kurs” preparò un avvenimento allora d’avanguardia, con la stessa emozione, per trovare “… i segni della sua storia”, Paride recupera con l’ostatismo i muri della città labronica.
Come le nuvole gli sbreghi parlano di loro: veri segni del tempo buono o cattivo, di pace o di guerra, di lavoro o d’incidente e l’unica testimonianza è farli propri, incasellarli su carta o tela e dialogare con il colore, ricordando di non uscire mai di tema; il riconoscimento deve essere immediato e non mediato: l’opera sussiste a emblema di una vicenda linguistica continua, perché la langue prepara al senso, che deve rimanere incorrotto, se lo sbrego è l’accidente e non lo sfregio di qualcuno.
L‘allestimento suggerisce che i muri diventano “muri di casa”, e in questa accezione i luoghi del riparo, della sicurezza, del conforto; si fanno così obbligate opere che diffondono quel senso di legame e di appartenenza di una città.
L’autore veneziano ha sempre davanti a sé i muri bagnati dalla laguna, i mattoni rossi delle case popolari, i marmi delle dimore aristocratiche, i bei fregi liberty tuttora esistenti, le composizioni in mosaico le cui regole di un tempo ne consigliavano la produzione. Oggi egli recupera quello che è più evidente, quella parte del tutto che ne svela il dentro.
Già nel 2010, da poco arrivato, partecipa alla 58^ edizione del Premio “Città di Livorno” con tre installazioni (Croce astratta, Il numero Uno, Orologio per momenti indimenticabili da 1 a 9) che non ottengono alcun rilievo critico e passano sotto silenzio, mostrando da allora un ritardo endemico, frutto di un pervicace rimaneggiamento di un post-macchiaiolismo (neologismo di chi scrive) deteriore e inutile.
Nel libro “Fiori di sale” di Giuliana Donzello , che riproduce nel frontespizio il quadro "Trasferimento di senso", dipinto dall’artista nel 1989, i muri sono impregnati di salnitro, muffa bianca che non corrode, ma mantiene l’umidità. Tuttavia sono anche l’effetto di una città che galleggia, che richiede equilibrio e dove l’espressione di emozioni, di simboli e di archetipi originano nuovi ripensamenti e nuove valutazioni, per raggiungere zone vergini dell’immaginario.
Questo il linguaggio artistico della materia e di materiali anche molto distanti tra loro: senso distintivo di un “sentire” sensibile ed emozionale, che fanno dell’artista un teorico dell’espressione plastica o pittorica.
Il “mondo” dei muri non è un “mondo metafisico”; è fisico, presenza che si presta totalmente se pietra a vista, se piastrellato o a spacco di cava o altro, per rendere giusto valore al mondo, questo sì metafisico della casa. Acquisire la forma dello sbrego con l’ostatismo è un prestito vantaggioso, resta solo completare l’opera con il colore, non copiato, ma intriso di sentimento. Come la pietra filosofale quegli ammassi calcolati di calce, cemento e pietre sapientemente disposti rendono giusto giudizio e nel sentimento, crogiolo di esperienze, pensieri riflessi e giudizi, permettono la soluzione estetica. Quante informazioni la materia può dare a chi percorre il sentiero della poesia?
La critica di sistema in casi come questi ama parlare di astrazione (più giusto “ab-trarre”), riconoscendo le regole che classificano i linguaggi. E se invece fosse realtà ciò che è stato tratto con il modo individuato come l’unico possibile?
Prendere un foglio di carta o una tela, e una volta posizionati sopra il muro o sullo sfregio con una matita o con un raschietto as-trarre l’essere che sta lì, in attesa di essere rivelato, significa il processo dell’ostatismo. Occorre a questo punto riprendere la citazione di Benveniste, secondo il quale “la realtà di un oggetto non è separabile dal metodo impiegato per definirlo”: l’esito fa comparire un rilievo perfettamente conforme per ottemperare la necessità di stendere il colore o lasciare la grafite; in ogni caso che così non sia la realtà, probabilità di controprove non esistono.
Questo tipo di calco ha avuto un precedente storico nella maschera di Agamennone, pratica che ancora oggi è usata sia nell’arte funeraria, che in quella più appariscente di pseudo scultori contemporanei. La ripresa dello sfregio ha esportato la ricerca verso più semplici pratiche.
Ne “I muri di Livorno” l’artista si esprime più propriamente con un bassorilievo creato ex-novo che gli permette di semplificare l’operazione di assorbimento, per giungere alla costruzione dell’opera con lo svelamento della massa di informazioni che la sottende: un bisogno che, benché possente, deve attestarsi al ritmo della prassi compositiva, sia essa affidata a colori a olio, o tempera, o grafite, e da ultima alla paraffina. La verosimiglianza diventa un fattore secondario, o per lo meno non necessario. Ma quale enunciato analitico si riconduce al vero?
Lo sfregio è il fuori, è l’esterno, ma fa l’abito: è un accidente? configura potenza?
L’abito si appende per essere alla moda, l’influeche per eccellenza: assicura un posto ed uno spazio certo, da imitare o peggio da copiare. Quanti per ignavia e non per vocazione hanno optato per la pop-art? l’immagine digitale? il concettuale che distrugge gli specchi?
Opere in tela o in carta e paraffina, foto di fregi compongono il tema dell’allestimento, oltre uno strappo su cartone per un’umile testimonianza: comunicare senza banalizzare, rendere l’aria respirabile, fresca come quella di una montagna innevata.
Fare attenzione alle cose che ci stanno davanti agli occhi, che combinano con la vita normale un’infinità di amori, basta saper scegliere, oppure abituarsi a riflettere e scegliere il buono, il giusto, perché è giusto attingere a piene mani dal reale. È nelle cose che il reale si relaziona, fuori assolutamente dal fenomenologico per non cadere nella metafisica, e naviga nella conoscenza. Dagli effetti l’ostatismo ricava opere irripetibili per la sua stessa struttura.
Per questi “muri” che ci parlano di adesione e di appartenenza occorre ancor più eliminare ogni fraintendimento sociologico per il quale l’allestimento è il “solito” spazio del tutto privo di effetti speciali, per scoprire invece quelle piccole cose reali che sono costantemente dimenticate, che stanno sempre lì davanti a noi: un “sempre” certo invadente, forse anche volutamente noioso.
Giulia Santacroce
27
aprile 2019
Paride Bianco – I muri di Livorno
Dal 27 aprile al 21 maggio 2019
arte contemporanea
Location
STUDIO D’ARTE MES3
Livorno, Via Giuseppe Verdi, 40, (Livorno)
Livorno, Via Giuseppe Verdi, 40, (Livorno)
Orario di apertura
da martedì a sabato ore 10-12 e 16-19
Domenica su appuntamento
Vernissage
27 Aprile 2019, ore 18.00
Autore
Curatore