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Parti di Realtà / Realtà di Parte
Una predilezione, quella dei tre artisti, per dei punti di vista talvolta in contrasto con le caratteristiche proprie del documentario o del reportage
Comunicato stampa
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Questa mostra è nata un paio d’anni fa mentre stavamo preparando il numero della rivista Daemon dedicato ai paesi dell’est Europa (Daemon 10, Orient Express ’04). In quell’occasione decisi di presentare per la prima volta in Italia Zbynek Baladran, un giovane artista di Praga che aveva partecipato da poco all’edizione numero 5 di Manifesta tenutasi a San Sebastian. Un artista interessante sotto molti punti di vista ma soprattutto per una sua particolare attitudine nel guardare alla realtà, intesa con i fatti che ci accadono quotidianamente, gli avvenimenti più grandi di noi -ma che per forza di cose si intrecciano con le nostre vite- e quindi per il suo rapporto con la storia e le storie. Un’attitudine comune a molti degli artisti che in questo periodo si confrontano con le caratteristiche di linguaggi quali il documentario e il reportage, e da questi finiscono per attingere.
Due linguaggi che sono tornati all’attenzione generale dopo un periodo di disinteresse. Il caso più eclatante, e che ha trascinato tutti gli altri con il proprio grande successo, sono le pellicole di Michael Moore. Ma il segnale che più mi ha colpito all’interno di questa tendenza non è un documentario, bensì il film Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2005) del regista americano Wes Anderson. Un libero tributo al documentarista e oceanografo francese Jacques Cousteau, una storia intrisa di poesia, surrealismo e nostalgia. Gli occhi del regista sono ancora (o vorrebbero ancora esserlo) gli occhi del bambino cresciuto a documentari, dei quale certo non coglieva l’aspetto didattico e scientifico, bensì il lirismo e il sentimento insito nella natura, nei luoghi lontani e nelle storie che venivano raccontate. Un modo di vedere comune ai molti che nelle ultime generazioni hanno passato il loro tempo guardando i reportage che affollavano e affollano la tv.
Una poesia sentita fortemente anche dagli altri due artisti di questa mostra, Carlos Casas e Alice Guareschi, che ci mostrano come quest’attitudine possa essere declinata in vari modi ma al cui centro rimane sempre la vita filtrata attraverso i concetti di spazio e di tempo. Proprio perché lo spazio e il tempo cambiano per ognuno di noi, non può esistere la “storia” ufficiale ma possono esistere solo le “storie” individuali con cui raccontiamo la realtà. Concetti, quelli di spazio e tempo, espressi direttamente nelle opere di Alice Guareschi e di Zbynek Baladran: la prima, ad esempio, nel lavoro intitolato Racconto d'inverno #3. Della possibilità di sguardo in proporzione alla velocità del movimento (2005), il secondo li enuncia nel lettering sovrapposto alle immagini di vecchi reportage di scavi archeologici nel video Working Process (2004). Concetti che sono alla base anche dei lavori di Carlos Casas, nei quali sono raccontate le storie personali di uomini nei luoghi più estremi e selvaggi della terra, e di come questi spazi abbiano influenzato la loro vita. Spazio e tempo che intrecciandosi danno appunto vita a una forte condizione di narratività interna ai video, i cui protagonisti spesso raccontano la propria storia o la storia di qualcuno conosciuto profondamente o la storia di un luogo. Zbynek Baladran nell’opera intitolata Vide (2003) ricostruisce parti della vita di Jiri Kovanda e dei movimenti d’avanguardia cechi attraverso il racconto di chi lo ha conosciuto, mescolando immagini di vita quotidiana, architetture della città, vecchio materiale d’archivio. Una tecnica, quella di Baladran di utilizzare vecchi filmati, materiale di scarto, pellicole trovate casualmente ed unite in maniera dissonante, incredibilmente simile al modo di lavorare del regista italiano Alberto Grifi, uno dei protagonisti del video di Alice Guareschi Autobiografia di una casa (2002). Qui, attraverso i ricordi narrati dal cineasta del suo amico pittore e scrittore post-surrealista Giordano Franzoni, si tenta di capire e sentire quali sono le cause, le linee e le geometrie delle relazioni e degli incontri avvenuti e mancati. Molto forte la componente di lirismo, come spiega la stessa Alice Guareschi: “Ho saputo da subito che volevo raccontare questa storia. E che lo avrei fatto da un punto di vista sentimentale, non in modo sistematico”. Allo stesso modo sono densi di poesia i video di Carlos Casas: territori estremi, gelidi e semidesertici si specchiano nelle persone che nonostante tutto vi sopravvivono cercando di strappare quanta più vita è loro possibile. Uomini e donne chiamati a raccontare le proprie storie, immersi nella solitudine di spazi quasi completamente dimenticati, anzi di luoghi che pagano le colpe di altri luoghi. Come le tre generazioni di pescatori del Lago d’Aral che per la politica idrica dell’Unione Sovietica si è visto ridurre dell’80% le proprie acque morendo. O come i tre individui che hanno scelto di vivere in Patagonia, una delle zone meno popolate della terra. Paesaggi, quasi da quadro del periodo romantico, rimangono invece i soli protagonisti dei suoi Fieldworks, brevi filmati montati con le poche e disturbate frequenze radio riuscite ad arrivare in questi angoli di terra, registrate da Carlos Casas per fargli da colonna sonora.
Una predilezione, quella dei tre artisti, per dei punti di vista talvolta in contrasto con le caratteristiche proprie del documentario o del reportage. L’oggettività, la scientificità, l’impegno ideologico, una visione “macro”, sono abbandonate per una dimensione estremamente soggettiva, sentimentale, relativa, personale, quotidiana, quasi da diario autobiografico. Ripuliscono il nostro sguardo dalle caratteristiche forse più pretenziose nel momento stesso in cui si rivolge alla realtà, sentita come il punto centrale di ogni domanda.
Due linguaggi che sono tornati all’attenzione generale dopo un periodo di disinteresse. Il caso più eclatante, e che ha trascinato tutti gli altri con il proprio grande successo, sono le pellicole di Michael Moore. Ma il segnale che più mi ha colpito all’interno di questa tendenza non è un documentario, bensì il film Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2005) del regista americano Wes Anderson. Un libero tributo al documentarista e oceanografo francese Jacques Cousteau, una storia intrisa di poesia, surrealismo e nostalgia. Gli occhi del regista sono ancora (o vorrebbero ancora esserlo) gli occhi del bambino cresciuto a documentari, dei quale certo non coglieva l’aspetto didattico e scientifico, bensì il lirismo e il sentimento insito nella natura, nei luoghi lontani e nelle storie che venivano raccontate. Un modo di vedere comune ai molti che nelle ultime generazioni hanno passato il loro tempo guardando i reportage che affollavano e affollano la tv.
Una poesia sentita fortemente anche dagli altri due artisti di questa mostra, Carlos Casas e Alice Guareschi, che ci mostrano come quest’attitudine possa essere declinata in vari modi ma al cui centro rimane sempre la vita filtrata attraverso i concetti di spazio e di tempo. Proprio perché lo spazio e il tempo cambiano per ognuno di noi, non può esistere la “storia” ufficiale ma possono esistere solo le “storie” individuali con cui raccontiamo la realtà. Concetti, quelli di spazio e tempo, espressi direttamente nelle opere di Alice Guareschi e di Zbynek Baladran: la prima, ad esempio, nel lavoro intitolato Racconto d'inverno #3. Della possibilità di sguardo in proporzione alla velocità del movimento (2005), il secondo li enuncia nel lettering sovrapposto alle immagini di vecchi reportage di scavi archeologici nel video Working Process (2004). Concetti che sono alla base anche dei lavori di Carlos Casas, nei quali sono raccontate le storie personali di uomini nei luoghi più estremi e selvaggi della terra, e di come questi spazi abbiano influenzato la loro vita. Spazio e tempo che intrecciandosi danno appunto vita a una forte condizione di narratività interna ai video, i cui protagonisti spesso raccontano la propria storia o la storia di qualcuno conosciuto profondamente o la storia di un luogo. Zbynek Baladran nell’opera intitolata Vide (2003) ricostruisce parti della vita di Jiri Kovanda e dei movimenti d’avanguardia cechi attraverso il racconto di chi lo ha conosciuto, mescolando immagini di vita quotidiana, architetture della città, vecchio materiale d’archivio. Una tecnica, quella di Baladran di utilizzare vecchi filmati, materiale di scarto, pellicole trovate casualmente ed unite in maniera dissonante, incredibilmente simile al modo di lavorare del regista italiano Alberto Grifi, uno dei protagonisti del video di Alice Guareschi Autobiografia di una casa (2002). Qui, attraverso i ricordi narrati dal cineasta del suo amico pittore e scrittore post-surrealista Giordano Franzoni, si tenta di capire e sentire quali sono le cause, le linee e le geometrie delle relazioni e degli incontri avvenuti e mancati. Molto forte la componente di lirismo, come spiega la stessa Alice Guareschi: “Ho saputo da subito che volevo raccontare questa storia. E che lo avrei fatto da un punto di vista sentimentale, non in modo sistematico”. Allo stesso modo sono densi di poesia i video di Carlos Casas: territori estremi, gelidi e semidesertici si specchiano nelle persone che nonostante tutto vi sopravvivono cercando di strappare quanta più vita è loro possibile. Uomini e donne chiamati a raccontare le proprie storie, immersi nella solitudine di spazi quasi completamente dimenticati, anzi di luoghi che pagano le colpe di altri luoghi. Come le tre generazioni di pescatori del Lago d’Aral che per la politica idrica dell’Unione Sovietica si è visto ridurre dell’80% le proprie acque morendo. O come i tre individui che hanno scelto di vivere in Patagonia, una delle zone meno popolate della terra. Paesaggi, quasi da quadro del periodo romantico, rimangono invece i soli protagonisti dei suoi Fieldworks, brevi filmati montati con le poche e disturbate frequenze radio riuscite ad arrivare in questi angoli di terra, registrate da Carlos Casas per fargli da colonna sonora.
Una predilezione, quella dei tre artisti, per dei punti di vista talvolta in contrasto con le caratteristiche proprie del documentario o del reportage. L’oggettività, la scientificità, l’impegno ideologico, una visione “macro”, sono abbandonate per una dimensione estremamente soggettiva, sentimentale, relativa, personale, quotidiana, quasi da diario autobiografico. Ripuliscono il nostro sguardo dalle caratteristiche forse più pretenziose nel momento stesso in cui si rivolge alla realtà, sentita come il punto centrale di ogni domanda.
24
maggio 2006
Parti di Realtà / Realtà di Parte
Dal 24 maggio al 16 giugno 2006
arte contemporanea
Location
NEON>FDV
Milano, Via Giulio Cesare Procaccini, 4, (Milano)
Milano, Via Giulio Cesare Procaccini, 4, (Milano)
Orario di apertura
mar_mer_gio_ven per info telefonare in galleria
Vernissage
24 Maggio 2006, ore 21
Autore
Curatore