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Passaggio ad Oriente
Viaggiatori, esploratori, fotografi. Felice Beato, Leone Nani, Federico Peliti rappresentano l’idea stessa del confronto con civiltà lontane
Comunicato stampa
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Viaggiatori, esploratori, fotografi. Felice Beato, Leone Nani, Federico Peliti rappresentano l'idea stessa del confronto con civiltà lontane. Agli albori del reportage, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, questi tre fotografi hanno contribuito a formare il nostro immaginario su paesi come la Cina, l'India, il Giappone, fornendo una documentazione che per la prima volta esula dagli stereotipi dell'esotismo ottocentesco. Padre Leone Nani come missionario nelle regioni interne della Cina, Federico Peliti come intellettuale e uomo d'affari, Felice Beato grande viaggiatore e maestro hanno impresso nelle loro opere fotografiche tutta la fascinazione e l'interesse scientifico di esperienze pionieristiche: un viaggio in culture diverse e lontane. Per noi, irrimediabilmente, un viaggio in un tempo perduto.
(a cura di Anita Margiotta, Giovanna Calvenzi, Francesca Bonetti)
Federico Peliti
Album indiano: due mondi a confronto
Premiato con medaglia d’oro all’Esposizione Nazionale Italiana di Torino del 1898 nella sezione Dilettanti fotografi, “per la splendida collezione di fotografie dell’India, di cui alcune rarissime, rappresentanti scene religiose, domestiche, templi, monumenti, ecc.”, Federico Peliti (Carignano, 1844-1914) era conosciuto ed era stato celebrato in vita soprattutto per l’attività professionale esercitata in India nella seconda metà dell’Ottocento. Ricordato, tra gli altri, anche in alcuni racconti di Rudyard Kipling (Il risciò fantasma) e dall’antropologo Paolo Mantegazza (India, Milano 1884), per le sue eccezionali doti di albergatore, ristoratore, chef e confettiere sublime, a Peliti ricorrevano abitualmente – per l’organizzazione di banchetti, feste e battute di caccia alla tigre nei luoghi più impervi o nelle regioni desertiche dell’interno dell’India – governatori e funzionari britannici, diplomatici, principi e signori indiani.
Dopo essersi diplomato all’Accademia Albertina di Torino (1865), dove si era formato come scultore con Vincenzo Vela, allora figura di spicco nel mondo artistico ed intellettuale italiano, e dove aveva potuto ricevere gli insegnamenti di architettura, di ornato e di plastica ornamentale che più tardi avrebbe messo in pratica nella realizzazione di raffinatissime torte “architettoniche”, destinate ad abbellire i banchetti ufficiali da lui stesso approntati (e note in alcuni casi anche da alcune fotografie), Peliti giunse a Calcutta nel 1869 per servire, in qualità di chief confectioner, il viceré inglese Lord Mayo, che lo aveva scelto in seguito ad un concorso bandito tra candidati di altissima professionalità, per la raffinata e colta tradizione piemontese nell’arte della confetteria e nel settore dell’industria dolciaria. Nel 1872, dopo l’assassinio del viceré, avviò un’attività commerciale autonoma, aprendo a Calcutta una pasticceria che fu in seguito affiancata da un rinomato ristorante,da altre coffee-house a Simla (la Regent House), a Rangoon, a Bombay, e soprattutto dal Grand Hotel di Simla, che presto divenne il fulcro della sua intraprendente e brillante carriera di confettiere e proprietario alberghiero.
Il repertorio fotografico di Federico Peliti, entrato a far parte delle collezioni dell’Istituto Nazionale per la Grafica nel 1989, grazie alla generosa donazione del nipote Filippo (e al quale è stata già dedicata nel 1993 la mostra Federico Peliti. Un fotografo piemontese in India al tempo della regina Vittoria, a cura di Marina Miraglia), nonostante non rappresenti la totalità della produzione dell’autore, permette comunque – con l’insieme dei suoi circa 400 negativi (lastre alla gelatina bromuro d’argento in vari formati) e 250 positivi (albumine), oltre ad un centinaio di fotografie di altri autori – di ricostruire con sufficiente precisione l’intero arco della sua attività fotografica oltre che dei suoi interessi di collezionista, rivolti in particolare alla fotografia orientalista.
Riallacciandosi alle coordinate preraffaellite della contemporanea cultura fotografica inglese e ispirandosi soprattutto alla monumentale opera fotografica realizzata in India negli anni immediatamente precedenti al suo arrivo dal grande fotografo professionista Samuel Bourne (1863-1869), Peliti ha lasciato un corpus d’immagini che si segnala, nella sua qualità e ricchezza di contenuti, quale importante e quasi unico contributo iconografico italiano alla conoscenza dell’India nel XIX secolo. Possiamo infatti affiancargli soltanto la testimonianza di Felice Beato, con atelier a Calcutta alla fine degli anni cinquanta e che nel 1858 si era recato a Lucknow, a Cawnpore e a Delhi per documentare i luoghi e la cruda repressione della rivolta contro la dominazione inglese (la Mutiny), prima di partire alla volta della Cina al seguito di un contingente militare inglese impegnato nella seconda guerra dell’oppio. Di qualche anno più tarda (1904-1906) è invece la documentazione del conte Luigi Primoli, del quale Peliti anticipa in un certo senso quei caratteri di istantaneità, spontaneità e lucida partecipazione, ottenuti a volte anche grazie all’uso veloce e discreto del piccolo formato della carte de visite, in grado di sorprendere e fermare gesti, usi, riti e abitudini della vita e della cultura popolare indiana, con analitica puntualità e fine sensibilità antropologica.
L’India narrata da Peliti è, da una parte, quella brulicante, policroma e caleidoscopica dei grandi centri, affollata di sadhu, venditori ambulanti, botteghe, celebrazioni pubbliche e pratiche religiose sulle rive del Gange, come quella più sommessa dell’interno agricolo, caratterizzata da più arcaiche attività rurali e artigianali, tra semplici strutture abitative di fango e bambù.
Ma è anche, dall’altra, quella raffigurata nelle straordinarie immagini memorialiste che descrivono gli svaghi e i ludici passatempi dell’ambiente coloniale inglese di Simla, cittadina ai piedi dell’Himalaya, scelta come residenza estiva del governo inglese e luogo di villeggiatura privilegiato per cittadini britannici e dignitari indiani, nonché meta obbligata per viaggiatori occidentali di passaggio in India.
Nelle immagini fotografiche di Peliti l’indagine dei vari contesti archeologici, monumentali e urbanistici si alterna ai ritratti di personalità della più alta nobiltà indiana o di figure più strettamente legate al proprio milieu e alla propria cerchia familiare.
Come sottolineano le immagini scelte per la mostra, la raffinata eleganza della vita sociale e mondana delle upper classes - nella cui rappresentazione meglio si coglie il gusto e la sensibilità preraffaellita di una cultura alta, esclusiva e privilegiata -, si scontra e si confronta con la raffigurazione del mondo popolare in immagini di straordinaria forza narrativa ed emotiva, nelle quali si manifesta invece l’originale approccio dell’autore alla società e alla cultura locale. Contemporaneamente protagonista e testimone della vita del subcontinente, Peliti ritrae il proprio mondo e quello dei nativi con un atteggiamento del tutto scevro dai condizionamenti mentali del colonialismo e dai preconcetti tipici della cultura occidentale. Pur consapevole della profonda ed incolmabile distanza tra la vita dell’élite sociale e culturale cui egli stesso appartiene e la realtà più drammatica e cruda del resto dell’India, Peliti restituisce nobiltà di tratti e spontanea eleganza anche ai gesti più quotidiani, alle attività e alle figure più umili e dimesse di quella immensa poliedrica umanità, di quella complessa e remota civiltà della quale l’Occidente, più facilmente indulgendo al luogo comune del pittoresco e al gusto stereotipato dell’esotico, non ha saputo sempre comprendere e interpretare le più profonde motivazioni ed espressioni culturali.
Leone Nani
Nato ad Albino nel 1880, padre Leone Nani parte per la Cina alla fine del 1903, all’età di ventitre anni. Per dieci anni percorre in lungo e in largo la regione dello Shaanxi, nel corso delle innumerevoli peregrinazioni apostoliche, durante le quali si fa promotore dell’incontro fra la fede cristiana e le culture locali, fra le tradizioni europee e quelle cinesi, in un periodo di profonda crisi tra Cina e Occidente, ma soprattutto di forti turbolenze interne, che portarono alla caduta dell’Impero.
Padre Nani, oltre che generoso e intraprendente missionario, è anche un attento osservatore della vita quotidiana della gente in tutti i suoi aspetti, e non di raro utilizza la sua macchina fotografica per immortalare, in lastre dalla straordinaria potenza evocativa, usi, costumi, paesaggi, ricchezze naturali e miserie della gente.
La fotografia è stata per il missionario del Pime uno strumento di conoscenza che gli ha consentito non solo di soddisfare la sua innata curiosità, ma anche di assolvere a uno dei suoi incarichi: quello di spedire in Italia i resoconti illustrati della sua missione. Le sue immagini, che rispondono alle esigenze del suo apostolato, non sono tuttavia mero frutto di un dovere, bensì dell’istinto e del desiderio di condividere un’esperienza di conoscenza e penetrazione di un mondo così distante, e di comprendere – e far comprendere – a fondo una realtà sociale tanto diversa.
L’eredità delle sue lastre, circa 600, è oggi conservata presso gli archivi del PIME a Milano. Si tratta di una vasta collezione di foto e lastre prodotte, sviluppate e stampate da lui stesso in Cina. La qualità artistica e tecnica del materiale fotografico di padre Leone Nani è assolutamente eccelsa e stupefacente, se si considerano gli scarsi mezzi a disposizione e il contesto in cui ha svolto il suo lavoro.
Oltre alla qualità tecnica e alla bellezza delle foto va, tuttavia, riconosciuto al lavoro di Nani anche uno straordinario valore storico-documentario, in un mondo, come quello cinese dell’epoca, lontano dalla conservazione del proprio patrimonio sociale, di costume e di lavoro.
I suoi scatti testimoniano un’epoca cruciale nella storia della Cina: gli anni della caduta dell’Impero e dell’avvento della Repubblica nel 1912.
Due anni dopo, il missionario fa ritorno in Italia con il suo carico di immagini e racconti, testimone d’eccezione di un evento epocale declinato nelle sue pieghe più quotidiane.
A tutti gli effetti, per qualità delle immagini realizzate, per quantità, per scelta dei soggetti e per la stupefacente capacità di misurarsi con le situazioni più diverse, padre Leone Nani si è guadagnato sul campo il diritto di essere considerato un “autore”, che meriterebbe di entrare a pieno titolo nella storia della fotografia.
(a cura di Anita Margiotta, Giovanna Calvenzi, Francesca Bonetti)
Federico Peliti
Album indiano: due mondi a confronto
Premiato con medaglia d’oro all’Esposizione Nazionale Italiana di Torino del 1898 nella sezione Dilettanti fotografi, “per la splendida collezione di fotografie dell’India, di cui alcune rarissime, rappresentanti scene religiose, domestiche, templi, monumenti, ecc.”, Federico Peliti (Carignano, 1844-1914) era conosciuto ed era stato celebrato in vita soprattutto per l’attività professionale esercitata in India nella seconda metà dell’Ottocento. Ricordato, tra gli altri, anche in alcuni racconti di Rudyard Kipling (Il risciò fantasma) e dall’antropologo Paolo Mantegazza (India, Milano 1884), per le sue eccezionali doti di albergatore, ristoratore, chef e confettiere sublime, a Peliti ricorrevano abitualmente – per l’organizzazione di banchetti, feste e battute di caccia alla tigre nei luoghi più impervi o nelle regioni desertiche dell’interno dell’India – governatori e funzionari britannici, diplomatici, principi e signori indiani.
Dopo essersi diplomato all’Accademia Albertina di Torino (1865), dove si era formato come scultore con Vincenzo Vela, allora figura di spicco nel mondo artistico ed intellettuale italiano, e dove aveva potuto ricevere gli insegnamenti di architettura, di ornato e di plastica ornamentale che più tardi avrebbe messo in pratica nella realizzazione di raffinatissime torte “architettoniche”, destinate ad abbellire i banchetti ufficiali da lui stesso approntati (e note in alcuni casi anche da alcune fotografie), Peliti giunse a Calcutta nel 1869 per servire, in qualità di chief confectioner, il viceré inglese Lord Mayo, che lo aveva scelto in seguito ad un concorso bandito tra candidati di altissima professionalità, per la raffinata e colta tradizione piemontese nell’arte della confetteria e nel settore dell’industria dolciaria. Nel 1872, dopo l’assassinio del viceré, avviò un’attività commerciale autonoma, aprendo a Calcutta una pasticceria che fu in seguito affiancata da un rinomato ristorante,da altre coffee-house a Simla (la Regent House), a Rangoon, a Bombay, e soprattutto dal Grand Hotel di Simla, che presto divenne il fulcro della sua intraprendente e brillante carriera di confettiere e proprietario alberghiero.
Il repertorio fotografico di Federico Peliti, entrato a far parte delle collezioni dell’Istituto Nazionale per la Grafica nel 1989, grazie alla generosa donazione del nipote Filippo (e al quale è stata già dedicata nel 1993 la mostra Federico Peliti. Un fotografo piemontese in India al tempo della regina Vittoria, a cura di Marina Miraglia), nonostante non rappresenti la totalità della produzione dell’autore, permette comunque – con l’insieme dei suoi circa 400 negativi (lastre alla gelatina bromuro d’argento in vari formati) e 250 positivi (albumine), oltre ad un centinaio di fotografie di altri autori – di ricostruire con sufficiente precisione l’intero arco della sua attività fotografica oltre che dei suoi interessi di collezionista, rivolti in particolare alla fotografia orientalista.
Riallacciandosi alle coordinate preraffaellite della contemporanea cultura fotografica inglese e ispirandosi soprattutto alla monumentale opera fotografica realizzata in India negli anni immediatamente precedenti al suo arrivo dal grande fotografo professionista Samuel Bourne (1863-1869), Peliti ha lasciato un corpus d’immagini che si segnala, nella sua qualità e ricchezza di contenuti, quale importante e quasi unico contributo iconografico italiano alla conoscenza dell’India nel XIX secolo. Possiamo infatti affiancargli soltanto la testimonianza di Felice Beato, con atelier a Calcutta alla fine degli anni cinquanta e che nel 1858 si era recato a Lucknow, a Cawnpore e a Delhi per documentare i luoghi e la cruda repressione della rivolta contro la dominazione inglese (la Mutiny), prima di partire alla volta della Cina al seguito di un contingente militare inglese impegnato nella seconda guerra dell’oppio. Di qualche anno più tarda (1904-1906) è invece la documentazione del conte Luigi Primoli, del quale Peliti anticipa in un certo senso quei caratteri di istantaneità, spontaneità e lucida partecipazione, ottenuti a volte anche grazie all’uso veloce e discreto del piccolo formato della carte de visite, in grado di sorprendere e fermare gesti, usi, riti e abitudini della vita e della cultura popolare indiana, con analitica puntualità e fine sensibilità antropologica.
L’India narrata da Peliti è, da una parte, quella brulicante, policroma e caleidoscopica dei grandi centri, affollata di sadhu, venditori ambulanti, botteghe, celebrazioni pubbliche e pratiche religiose sulle rive del Gange, come quella più sommessa dell’interno agricolo, caratterizzata da più arcaiche attività rurali e artigianali, tra semplici strutture abitative di fango e bambù.
Ma è anche, dall’altra, quella raffigurata nelle straordinarie immagini memorialiste che descrivono gli svaghi e i ludici passatempi dell’ambiente coloniale inglese di Simla, cittadina ai piedi dell’Himalaya, scelta come residenza estiva del governo inglese e luogo di villeggiatura privilegiato per cittadini britannici e dignitari indiani, nonché meta obbligata per viaggiatori occidentali di passaggio in India.
Nelle immagini fotografiche di Peliti l’indagine dei vari contesti archeologici, monumentali e urbanistici si alterna ai ritratti di personalità della più alta nobiltà indiana o di figure più strettamente legate al proprio milieu e alla propria cerchia familiare.
Come sottolineano le immagini scelte per la mostra, la raffinata eleganza della vita sociale e mondana delle upper classes - nella cui rappresentazione meglio si coglie il gusto e la sensibilità preraffaellita di una cultura alta, esclusiva e privilegiata -, si scontra e si confronta con la raffigurazione del mondo popolare in immagini di straordinaria forza narrativa ed emotiva, nelle quali si manifesta invece l’originale approccio dell’autore alla società e alla cultura locale. Contemporaneamente protagonista e testimone della vita del subcontinente, Peliti ritrae il proprio mondo e quello dei nativi con un atteggiamento del tutto scevro dai condizionamenti mentali del colonialismo e dai preconcetti tipici della cultura occidentale. Pur consapevole della profonda ed incolmabile distanza tra la vita dell’élite sociale e culturale cui egli stesso appartiene e la realtà più drammatica e cruda del resto dell’India, Peliti restituisce nobiltà di tratti e spontanea eleganza anche ai gesti più quotidiani, alle attività e alle figure più umili e dimesse di quella immensa poliedrica umanità, di quella complessa e remota civiltà della quale l’Occidente, più facilmente indulgendo al luogo comune del pittoresco e al gusto stereotipato dell’esotico, non ha saputo sempre comprendere e interpretare le più profonde motivazioni ed espressioni culturali.
Leone Nani
Nato ad Albino nel 1880, padre Leone Nani parte per la Cina alla fine del 1903, all’età di ventitre anni. Per dieci anni percorre in lungo e in largo la regione dello Shaanxi, nel corso delle innumerevoli peregrinazioni apostoliche, durante le quali si fa promotore dell’incontro fra la fede cristiana e le culture locali, fra le tradizioni europee e quelle cinesi, in un periodo di profonda crisi tra Cina e Occidente, ma soprattutto di forti turbolenze interne, che portarono alla caduta dell’Impero.
Padre Nani, oltre che generoso e intraprendente missionario, è anche un attento osservatore della vita quotidiana della gente in tutti i suoi aspetti, e non di raro utilizza la sua macchina fotografica per immortalare, in lastre dalla straordinaria potenza evocativa, usi, costumi, paesaggi, ricchezze naturali e miserie della gente.
La fotografia è stata per il missionario del Pime uno strumento di conoscenza che gli ha consentito non solo di soddisfare la sua innata curiosità, ma anche di assolvere a uno dei suoi incarichi: quello di spedire in Italia i resoconti illustrati della sua missione. Le sue immagini, che rispondono alle esigenze del suo apostolato, non sono tuttavia mero frutto di un dovere, bensì dell’istinto e del desiderio di condividere un’esperienza di conoscenza e penetrazione di un mondo così distante, e di comprendere – e far comprendere – a fondo una realtà sociale tanto diversa.
L’eredità delle sue lastre, circa 600, è oggi conservata presso gli archivi del PIME a Milano. Si tratta di una vasta collezione di foto e lastre prodotte, sviluppate e stampate da lui stesso in Cina. La qualità artistica e tecnica del materiale fotografico di padre Leone Nani è assolutamente eccelsa e stupefacente, se si considerano gli scarsi mezzi a disposizione e il contesto in cui ha svolto il suo lavoro.
Oltre alla qualità tecnica e alla bellezza delle foto va, tuttavia, riconosciuto al lavoro di Nani anche uno straordinario valore storico-documentario, in un mondo, come quello cinese dell’epoca, lontano dalla conservazione del proprio patrimonio sociale, di costume e di lavoro.
I suoi scatti testimoniano un’epoca cruciale nella storia della Cina: gli anni della caduta dell’Impero e dell’avvento della Repubblica nel 1912.
Due anni dopo, il missionario fa ritorno in Italia con il suo carico di immagini e racconti, testimone d’eccezione di un evento epocale declinato nelle sue pieghe più quotidiane.
A tutti gli effetti, per qualità delle immagini realizzate, per quantità, per scelta dei soggetti e per la stupefacente capacità di misurarsi con le situazioni più diverse, padre Leone Nani si è guadagnato sul campo il diritto di essere considerato un “autore”, che meriterebbe di entrare a pieno titolo nella storia della fotografia.
19
aprile 2005
Passaggio ad Oriente
Dal 19 aprile al 05 giugno 2005
fotografia
Location
MUSEO DI ROMA – PALAZZO BRASCHI
Roma, PIAZZA San Pantaleo, 10, (Roma)
Roma, PIAZZA San Pantaleo, 10, (Roma)
Biglietti
intero, 6,20 euro; ridotto, 3,10 euro
Orario di apertura
martedi – domenica: 9.00 – 19.00 (la biglietteria chiude un'ora prima ); chiuso il lunedi
Vernissage
19 Aprile 2005, ore 17
Autore
Curatore