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Paul Harbutt – Bad Boys
Sono comprese 80 opere fra dipinti, disegni ed una scultura non prettamente legata al lavoro di “Bad Boys”, dal titolo “The Mirror which Flatters Not”, che l’artista abbinerà ad un trittico creando un’installazione all’interno della Project Room. L’esposizione è improntata sulla visualizzazione dei “Cattivi Ragazzi” ripresi dall’artista tra mille giochi pericolosi che costellano tutta l’infanzia e l’adolescenza
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Venerdì 18 gennaio 2013 alle ore 18.00 all’interno del Museo Carlo Bilotti - Aranciera di Villa Borghese
inaugura “Bad Boys”, personale dell’artista anglo americano Paul Harbutt.
La mostra, curata da Achille Bonito Oliva, promossa dall’Assessorato alle Politiche Culturali e Centro
Storico, Sovraintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale, è stata realizzata in collaborazione con la
Transpetrol Foundation di Bruxelles. Sono comprese 80 opere fra dipinti, disegni ed una scultura non prettamente legata al lavoro di “Bad
Boys”, dal titolo “The Mirror which Flatters Not”, che l’artista abbinerà ad un trittico creando
un’installazione all’interno della Project Room.
L’esposizione è improntata sulla visualizzazione dei “Cattivi Ragazzi” ripresi dall’artista tra mille giochi
pericolosi che costellano tutta l’infanzia e l’adolescenza.
Tutte le opere hanno come soggetto il comportamento di bambini e ragazzi, dal passato fino ai nostri
giorni: soggetti che infrangono le regole comportamentali.
“Bad Boys” denuncia la condanna sociale e le dure punizioni subite ingiustamente dall’infanzia e
dall’adolescenza. L’artista vede la violenza sui bambini come conseguenza diretta dello stress sociale e della
povertà ma riesce a comunicarlo con umorismo ed ironia, elementi da sempre imprescindibili del suo
lavoro.
Achille Bonito Oliva, curatore della mostra, dell’esposizione scrive: da Bosch a Bruegel, l’artista anglo
americano riprende la socialità conflittuale e l’energia ludica che i due grandi artisti nordici ci hanno
tramandato con le loro opere. “Bad Boys” è volutamente problematica e didattica. Possiede una forza
pedagogica ed anche una grande dose di comprensione verso la libertà, seppure ai limiti della buona
educazione e della convenienza, frutto sicuramente di una mentalità sanamente puritana che vuole
restituire all’arte una funzione illustrativa e forse di insegnamento. Sul piano linguistico le opere
documentano la maturità di una ricerca capace di produrre un alto tasso di comunicazione con una felice
semplificazione dell’immagine che, come una pellicola tatuata sulla superficie della tela, ci presenta lo
spettacolo ludico e vitalmente pericoloso del gioco infantile, spesso sopportato dagli adulti, ma anche
punito, alcune volte represso per mancanza di dialogo tra gli adulti ed i bambini. Da tutto questo nasce
l’ironia iconografica di Harbutt che, come diceva Goethe, è la passione che si libera nel distacco. Liberandosi
lo humor nero del mondo adulto forse potrà sorridere e accompagnare i giochi dell’infanzia verso una
condizione di progressiva libertà come speranza di un futuro migliore e l’arte, in quanto ricerca della
bellezza, rappresenta (come diceva Baudelaire) la domenica della vita.
Una parte del ricavato dalla vendita dei cataloghi sarà devoluta all’Associazione no profit “Save the
Children”.
SCHEDA TECNICA
TITOLO: BAD BOYS
DATE: 19 gennaio – 3 marzo 2013
INAUGURAZIONE: 18 gennaio ore 18.00
ARTISTA: Paul Harbutt
CURATORE: Achille Bonito Oliva
GENERE: dipinti, disegni, scultura
OPERE: 80 (21 grandi, 38 piccole, 21 disegni ed una scultura)
SEDE: Museo Carlo Bilotti - Aranciera di Villa Borghese - Viale Fiorello la Guardia, 6 - 00197 Roma
ORARI: martedì – venerdì 10.00/16.00 sabato- domenica 10.00/19.00
INGRESSO: intero euro 8.00 ridotto euro 7.00
INFO: 06 06 08
MAIL: info@museocarlobilotti.it
LINK: www.museocarlobilotti.it
Impara l’arte…
Angeli custodi, a livello iconografico, di Paul Harbutt sono artisti del passato e del presente: Bosch, Bruegel, Goia, la Pop Art tra Rauschenberg Lichtenstein ed Andy Warhol. La mostra comprende ventiquattro dipinti con neon colorati, disegni e sculture. Tutta l’esposizione è improntata sulla visualizzazione dei Bad Boys, ripresi tra mille giochi pericolosi che costellano tutta l’infanzia e l’adolescenza dei ragazzi, da Brosch a Bruegel l’artista americano riprende la socialità conflittuale e l’energia ludica che i due grandi artisti nordici ci hanno tramandato con le proprie opere. Di Goya esplicita è la ripresa iconografica del gioco come lazzo liberatorio ed esercizio ginnico al limite della aggressione e dell’autolesionismo. Della Pop americana evidenti sono i segni di un linguaggio volutamente di superficie, giocato tra collage e riproduzione serigrafia, tra neon ed un cromatismo sgargiante ripreso dal gusto urbano delle grandi città americane.
La mostra di Harbutt è volutamente problematica e didattica. Possiede una forza pedagogica ed anche una grande dose di comprensione verso la libertà, seppure ai limiti della buona educazione e della convenienza, frutto sicuramente d una mentalità sanamente puritana che vuole restituire all’arte una funzione illustrativa e forse di insegnamento.
Sul piano linguistico le opere documentano la maturità di una ricerca capace di produrre un alto tasso di comunicazione con una felice semplificazione dell’immagine che, come una pellicola tatuata sulla superficie della tela, ci presenta lo spettacolo ludico e vitalmente pericoloso del gioco infantile, spesso sopportato dagli adulti, ma anche punito, alcune volte represso per mancanza di dialogo tra gli adulti ed i bambini.
Da tutto questo nasce l’ironia iconografica d Harbutt che, come diceva Goethe è la passione che si libera nel distacco. Liberandosi l’humor nero del mondo adulto forse potrà sorridere e accompagnare i giochi dell’infanzia verso una condizione di progressiva libertà come speranza di un futuro migliore e l’arte, in quanto ricerca della bellezza, rappresenta (come diceva Baudelaire) la domenica della vita. Per questo l’arte contemporanea ha adottato lo sconfinamento e la trasgressione, tecniche del gioco infantile come rappresentazione di una libertà da diffondere in tutto il corpo sociale.
Tutta l’arte contemporanea è attraversata dalla necessità di sconfinare fuori dalla grammatica e dalla sintassi che le è propria. Dalle avanguardie storiche in avanti una coazione alla contaminazione tocca tutti i movimenti artistici, presi dall’impulso di rappresentare la complessità del mondo mediante una complessità stilistica data per intreccio, collegamento e citazione di linguaggi altri nel linguaggio dell’arte.
Ma nell’arte del passato, anche quello remoto, troviamo esempi di contaminazione tra immagine e parola, arte ed architettura: i codici miniati, gli affreschi medioevali, la letteratura nella sua evoluzione fino ad arrivare a Sterne, Mallarmè, Apollinaire e Marinetti.
L’arte contemporanea dal futurismo in avanti, con anticipi evidenti nell’opera stentorea che sfiora la messa in posa della fotografia in Rousseau, trova nel collage il modo di accogliere l’universo della riproduzione meccanica nell’ambito della produzione artigianale della pittura. Titoli di giornali, lacerti di immagini quotidiane cominciano ad apparire nel linguaggio aulico dell’arte. La contaminazione riguarda il piano alto della storia dell’arte e quello basso della cronaca. Se nell’arte europea l’intreccio stilistico avviene ancora con qualche patema d’animo, in quella americana invece trova una sua realizzazione tranquilla ed inevitabile. Il pragmatismo anglosassone di H. diventa un deterrente di attenzione verso la realtà moderna scevra da gerarchie. Per cui l’arte figurativa diventa il campo di rottura di una nuova iconografia, capace di mettere in scena tutto il rappresentabile, anche quello appartenente all’universo della produzione seriale dell’industria. Di questo sono evidenti i caratteri di neutralità, oggettività, intercambiabilità ed anonimato che denotano la circolazione della merce. Una circolazione enfatizzata dalla pubblicità e dalla esibizione elementare dei simboli.
Si crea il paradosso di un’immagine che intenzionalmente abbassa il tiro per meglio catturare i piani bassi di un’altra immagine proveniente da universi di intrattenimento poco edificante. Eppure tale discesa diventa un tonico ed un incentivo per un’arte tesa nello sforzo di collegarsi alla vita, alle sue pulsioni e ritmi, pronta ad includere nei propri piani alti quella modica quantità di volgarità che rappresenta il pratico inerte del quotidiano. Tale apertura comporta evidentemente nell’arte delle avanguardie storiche e delle neo avanguardie il rischio calcolato di sfondare la durata effimera dell’immagine. In tale sfida comunque l’arte di H. risulta vincente.
Un universo di segni e di merci trova la sua rappresentazione neutrale nel linguaggio della pop-art americana che rinuncia anche all’ironia, tutta europea, di quella inglese. Non si scherza col segno e la merce. Non per paura ma per pura immanenza nell’unico universo possibile.
Il mondo è quello che è. H. adopera come segno del proprio paesaggio antropologico i simulacri bassi provenienti dai mass medi. Come lacerti di cultura orale e popolare, destinati all’obsolescenza ed all’oblio; l’artista recupera elabora e consegna a futura memoria ciò che invece andrebbe perduto. Ora che non è più possibile tramandare oralmente come avveniva prima dell’avvento della scrittura. Mai un termine fu adoperato così contestualmente, senza demagogia ed anzi con precisione. Le immagini pop sono spostate e desinate alla durata mediante il trattamento linguistico dell’artista che non le detesta o contesta, ma le assume con il sentimento della neutralità-corretta indispensabile per l’uso e la manipolazione da effettuare. Se Lichtenstein rappresenta l’ésprit de geometrie che affronta l’universo concentrazionario delle immagini popolari della società di massa americana, Warhol ne costituisce l’ésprit de finesse, colui che meglio ha saputo comprendere, assorbire e costruire un’antropologia culturale assolutamente adeguata. L’artista ha saputo, nell’arco di tutta la sua produzione e strategia, fondare una sorta di snobismo di massa, un paradosso legato alla società moltiplicata e standardizzata americana. Un’arte superbamente e supinamente retorica che ha lavorato sull’emblema riconoscibile in tutti i suoi passaggi, dalla produzione industriale ed elettronica alla riproduzione artistica, riportabile alla griffe del suo autore.
Neutralità, oggettività, impersonalità, caratteri terribili di accompagnamento della merce diventano i connotati stabilizzati della nuova immagine di H. che allontana e nello stesso tempo seduce l’occhio distratto dello spettatore. Questa immagine infatti è fatta tutta per lo sguardo. Per questo scorre rafforzata sotto il segno di un efficace superficialismo, che castiga la profondità psicologica e premia la codificazione del reale.
Anche l’arte diventa cosa. Non si sottrae al destino oggettivante che caratterizza universo dell’offerta in cui è immerso l’uomo contemporaneo. Anzi la contemporaneità tra arte e vita è assicurata proprio dall’assunzione del cinismo, inteso come categoria dell’esistenza capace di garantire un occhio sgombro dalla zavorra ideologica che per decenni ha occluso i varchi della relativa totalità dell’esistenza.
In questo senso l’opera di H. diventa il deterrente che segna lo spartiacque tra autonomia ed economia dell’arte. Paradossalmente soltanto passando da questa falsa strettoia è possibile garantirsi l’accesso al nuovo moderno. Esso non è fatto da belle forme ma dalla metafisica della forma, intesa come incombenza di una comunicazione tra gli uomini che puo’ avvenire soltanto mediante una moltiplicazione della complessità, un impiego della citazione che costringe l’artista ad uscire dall’uso scomposto del gesto per approdare invece alla necessità di una forma non ortopedica ma soggettiva dell’espressione. In questa direzione l’ironia funziona molto bene. In quanto rafforzamento della distanza, aiuta l’artista nelle sue operazioni di metalinguaggio, lo spinge verso una sana oscillazione che lo cura da ogni affanno psicologico e lo costringe a misurarsi con l’involontaria comicità dell’esistenza antieroica della società di massa.
Involontariamente la figura diventa una corazza stilistica dell’are, un corsetto bassamente formale, una dissonanza di marca salutarmene medioevale, capace di rivitalizzare il tessuto astratto dell’evento artistico. L’astrazione è data inevitabilmente dal fatto che quantitativamente l’artista come individuo rappresenta soltanto se stesso nella società di massa. Un po’ poco per quanto riguarda il suo potere di rappresentazione. Ma se invece attraversa l’immaginario collettivo, ecco che allora acquista un diverso potere. Diventa colui che ridisegna le istanze di un nuovo profondo. L’artista è il nuovo designer che non interpreta i contenuti ma, senza invadenze, le forme di accesso alla complessità-onirica dell’universo dello spettacolo e della merce, del bisogno e del diritto, del sogno e della veglia.
Un’opera ad occhi aperti realizza H. quando fonde la sua immagine. Memore e partecipe, invaso ed invadente, egli compie una elaborazione di opulenza capace di coniugare insieme quantità collettiva e qualità individuale, qualità oggettiva del simulacro della merce in quantità materia del proprio processo creativo.
La posa orizzontale della post-modernità ci permette di meglio godere lo spettacolo. Dimessa la proverbiale superbia intellettuale, possiamo meglio accogliere l’osmosi tra i diversi universi contigui. Perché di contiguità si tratta. Non di distanza siderale. Ora che la merce ha acquistato tutti gli ornamenti inizialmente destinati all’espressione artistica, ecco che l’arte può a sua volta assumere il carattere stentoreo, oggettivo ed anche brutalmente tautologico della merce. Imporsi senza reticenza alla scena dell’esistente.
La complessità marca l’arte di H., capace di affrontare i nuovi connotati che segnano il panorama che circonda l’uomo, lo seduce, lo svia ma anche lo accompagna verso un uso disinibito della nozione di consumo, meno passivo più consapevole, meno idealistico e più autenticamente edonistico.
Il piacere dell’occhio introduce un elemento di affrancamento che oggi l’arte continua ad assicurare all’uomo, in un presente che non ha bisogno di rimandare al domani radioso.
L’hic et nunc dell’immagine trattiene lo spettatore sulla soglia di un presente che non offre più un riscatto totale, ma un rasserenamento parziale. L’arte mostra di aver perso, di non aver più una funzione palingenetica bensì di terapia formale, nel senso di presentarsi non come mezzo ma come oggetto multiplo, pronto a tutti gli usi.
Un’oggettistica dell’immagine domina il campo dell’arte di H. Con tutte le caratteristiche di splendente impenetrabilità che accompagna l’esistenza di tutte le immagini quotidiane. In al modo lo spettatore possiede i codici di entrata che permettono l’accesso all’universo delle forme esemplari dove di nuovo si celebra la differenza e l’unicità espressiva.
Tutto questo determina un felice scorrimento. Fa saltare la convenzionale porta del museo, luogo proverbiale di delizie e raffinatezze formali, a favore di un’arte che va incontro alla vita ma per porla in una condizione di impossibilità, fuori dal codice tassativo del significato e dentro invece ad una contaminazione senza gerarchia di provenienze.
In Barman, personaggio di un fumetto per ragazzi e film di T. Burton, Jocker entra in un museo e, applicando le tecniche gestuali dell’action-painting, compie una giocosa manipolazione degli statici capolavori appesi alle pareti. Interessante è qui la metafora dell’appropriazione di un personaggio del fumetto dei procedimenti alti dell’arte contro l’arte stessa. Naturalmente non è la rivolta della prosa contro la poesia,della volgarità contro la politesse della forma, piuttosto l’intreccio di due diverse condizioni culturali che si attraversano per esprimere alla fine la stessa identità, l’essere frutto di linguaggi e dunque di artificio. La condizione metalinguistica, operazione condotta alla seconda potenza omologa ormai arte e fumetto. Esiste la terza via, l’unica possibile, che mette tutto in relazione in una continuità garantita dalle forme. Barman rappresenta la metafora della manipolazione onnivora, il capovolgimento della citazione: dall’arte al fumetto, dal fumetto all’arte. Questo significa che non esistono più piani bassi, tutto è in circolo ed in movimento. In fondo l’arte è una continua affermazione di una notizia confortevole per l’umanità: tutto è in viaggio e non si accettano più prenotazioni per posti riservati.
Achille Bonito Oliva
inaugura “Bad Boys”, personale dell’artista anglo americano Paul Harbutt.
La mostra, curata da Achille Bonito Oliva, promossa dall’Assessorato alle Politiche Culturali e Centro
Storico, Sovraintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale, è stata realizzata in collaborazione con la
Transpetrol Foundation di Bruxelles. Sono comprese 80 opere fra dipinti, disegni ed una scultura non prettamente legata al lavoro di “Bad
Boys”, dal titolo “The Mirror which Flatters Not”, che l’artista abbinerà ad un trittico creando
un’installazione all’interno della Project Room.
L’esposizione è improntata sulla visualizzazione dei “Cattivi Ragazzi” ripresi dall’artista tra mille giochi
pericolosi che costellano tutta l’infanzia e l’adolescenza.
Tutte le opere hanno come soggetto il comportamento di bambini e ragazzi, dal passato fino ai nostri
giorni: soggetti che infrangono le regole comportamentali.
“Bad Boys” denuncia la condanna sociale e le dure punizioni subite ingiustamente dall’infanzia e
dall’adolescenza. L’artista vede la violenza sui bambini come conseguenza diretta dello stress sociale e della
povertà ma riesce a comunicarlo con umorismo ed ironia, elementi da sempre imprescindibili del suo
lavoro.
Achille Bonito Oliva, curatore della mostra, dell’esposizione scrive: da Bosch a Bruegel, l’artista anglo
americano riprende la socialità conflittuale e l’energia ludica che i due grandi artisti nordici ci hanno
tramandato con le loro opere. “Bad Boys” è volutamente problematica e didattica. Possiede una forza
pedagogica ed anche una grande dose di comprensione verso la libertà, seppure ai limiti della buona
educazione e della convenienza, frutto sicuramente di una mentalità sanamente puritana che vuole
restituire all’arte una funzione illustrativa e forse di insegnamento. Sul piano linguistico le opere
documentano la maturità di una ricerca capace di produrre un alto tasso di comunicazione con una felice
semplificazione dell’immagine che, come una pellicola tatuata sulla superficie della tela, ci presenta lo
spettacolo ludico e vitalmente pericoloso del gioco infantile, spesso sopportato dagli adulti, ma anche
punito, alcune volte represso per mancanza di dialogo tra gli adulti ed i bambini. Da tutto questo nasce
l’ironia iconografica di Harbutt che, come diceva Goethe, è la passione che si libera nel distacco. Liberandosi
lo humor nero del mondo adulto forse potrà sorridere e accompagnare i giochi dell’infanzia verso una
condizione di progressiva libertà come speranza di un futuro migliore e l’arte, in quanto ricerca della
bellezza, rappresenta (come diceva Baudelaire) la domenica della vita.
Una parte del ricavato dalla vendita dei cataloghi sarà devoluta all’Associazione no profit “Save the
Children”.
SCHEDA TECNICA
TITOLO: BAD BOYS
DATE: 19 gennaio – 3 marzo 2013
INAUGURAZIONE: 18 gennaio ore 18.00
ARTISTA: Paul Harbutt
CURATORE: Achille Bonito Oliva
GENERE: dipinti, disegni, scultura
OPERE: 80 (21 grandi, 38 piccole, 21 disegni ed una scultura)
SEDE: Museo Carlo Bilotti - Aranciera di Villa Borghese - Viale Fiorello la Guardia, 6 - 00197 Roma
ORARI: martedì – venerdì 10.00/16.00 sabato- domenica 10.00/19.00
INGRESSO: intero euro 8.00 ridotto euro 7.00
INFO: 06 06 08
MAIL: info@museocarlobilotti.it
LINK: www.museocarlobilotti.it
Impara l’arte…
Angeli custodi, a livello iconografico, di Paul Harbutt sono artisti del passato e del presente: Bosch, Bruegel, Goia, la Pop Art tra Rauschenberg Lichtenstein ed Andy Warhol. La mostra comprende ventiquattro dipinti con neon colorati, disegni e sculture. Tutta l’esposizione è improntata sulla visualizzazione dei Bad Boys, ripresi tra mille giochi pericolosi che costellano tutta l’infanzia e l’adolescenza dei ragazzi, da Brosch a Bruegel l’artista americano riprende la socialità conflittuale e l’energia ludica che i due grandi artisti nordici ci hanno tramandato con le proprie opere. Di Goya esplicita è la ripresa iconografica del gioco come lazzo liberatorio ed esercizio ginnico al limite della aggressione e dell’autolesionismo. Della Pop americana evidenti sono i segni di un linguaggio volutamente di superficie, giocato tra collage e riproduzione serigrafia, tra neon ed un cromatismo sgargiante ripreso dal gusto urbano delle grandi città americane.
La mostra di Harbutt è volutamente problematica e didattica. Possiede una forza pedagogica ed anche una grande dose di comprensione verso la libertà, seppure ai limiti della buona educazione e della convenienza, frutto sicuramente d una mentalità sanamente puritana che vuole restituire all’arte una funzione illustrativa e forse di insegnamento.
Sul piano linguistico le opere documentano la maturità di una ricerca capace di produrre un alto tasso di comunicazione con una felice semplificazione dell’immagine che, come una pellicola tatuata sulla superficie della tela, ci presenta lo spettacolo ludico e vitalmente pericoloso del gioco infantile, spesso sopportato dagli adulti, ma anche punito, alcune volte represso per mancanza di dialogo tra gli adulti ed i bambini.
Da tutto questo nasce l’ironia iconografica d Harbutt che, come diceva Goethe è la passione che si libera nel distacco. Liberandosi l’humor nero del mondo adulto forse potrà sorridere e accompagnare i giochi dell’infanzia verso una condizione di progressiva libertà come speranza di un futuro migliore e l’arte, in quanto ricerca della bellezza, rappresenta (come diceva Baudelaire) la domenica della vita. Per questo l’arte contemporanea ha adottato lo sconfinamento e la trasgressione, tecniche del gioco infantile come rappresentazione di una libertà da diffondere in tutto il corpo sociale.
Tutta l’arte contemporanea è attraversata dalla necessità di sconfinare fuori dalla grammatica e dalla sintassi che le è propria. Dalle avanguardie storiche in avanti una coazione alla contaminazione tocca tutti i movimenti artistici, presi dall’impulso di rappresentare la complessità del mondo mediante una complessità stilistica data per intreccio, collegamento e citazione di linguaggi altri nel linguaggio dell’arte.
Ma nell’arte del passato, anche quello remoto, troviamo esempi di contaminazione tra immagine e parola, arte ed architettura: i codici miniati, gli affreschi medioevali, la letteratura nella sua evoluzione fino ad arrivare a Sterne, Mallarmè, Apollinaire e Marinetti.
L’arte contemporanea dal futurismo in avanti, con anticipi evidenti nell’opera stentorea che sfiora la messa in posa della fotografia in Rousseau, trova nel collage il modo di accogliere l’universo della riproduzione meccanica nell’ambito della produzione artigianale della pittura. Titoli di giornali, lacerti di immagini quotidiane cominciano ad apparire nel linguaggio aulico dell’arte. La contaminazione riguarda il piano alto della storia dell’arte e quello basso della cronaca. Se nell’arte europea l’intreccio stilistico avviene ancora con qualche patema d’animo, in quella americana invece trova una sua realizzazione tranquilla ed inevitabile. Il pragmatismo anglosassone di H. diventa un deterrente di attenzione verso la realtà moderna scevra da gerarchie. Per cui l’arte figurativa diventa il campo di rottura di una nuova iconografia, capace di mettere in scena tutto il rappresentabile, anche quello appartenente all’universo della produzione seriale dell’industria. Di questo sono evidenti i caratteri di neutralità, oggettività, intercambiabilità ed anonimato che denotano la circolazione della merce. Una circolazione enfatizzata dalla pubblicità e dalla esibizione elementare dei simboli.
Si crea il paradosso di un’immagine che intenzionalmente abbassa il tiro per meglio catturare i piani bassi di un’altra immagine proveniente da universi di intrattenimento poco edificante. Eppure tale discesa diventa un tonico ed un incentivo per un’arte tesa nello sforzo di collegarsi alla vita, alle sue pulsioni e ritmi, pronta ad includere nei propri piani alti quella modica quantità di volgarità che rappresenta il pratico inerte del quotidiano. Tale apertura comporta evidentemente nell’arte delle avanguardie storiche e delle neo avanguardie il rischio calcolato di sfondare la durata effimera dell’immagine. In tale sfida comunque l’arte di H. risulta vincente.
Un universo di segni e di merci trova la sua rappresentazione neutrale nel linguaggio della pop-art americana che rinuncia anche all’ironia, tutta europea, di quella inglese. Non si scherza col segno e la merce. Non per paura ma per pura immanenza nell’unico universo possibile.
Il mondo è quello che è. H. adopera come segno del proprio paesaggio antropologico i simulacri bassi provenienti dai mass medi. Come lacerti di cultura orale e popolare, destinati all’obsolescenza ed all’oblio; l’artista recupera elabora e consegna a futura memoria ciò che invece andrebbe perduto. Ora che non è più possibile tramandare oralmente come avveniva prima dell’avvento della scrittura. Mai un termine fu adoperato così contestualmente, senza demagogia ed anzi con precisione. Le immagini pop sono spostate e desinate alla durata mediante il trattamento linguistico dell’artista che non le detesta o contesta, ma le assume con il sentimento della neutralità-corretta indispensabile per l’uso e la manipolazione da effettuare. Se Lichtenstein rappresenta l’ésprit de geometrie che affronta l’universo concentrazionario delle immagini popolari della società di massa americana, Warhol ne costituisce l’ésprit de finesse, colui che meglio ha saputo comprendere, assorbire e costruire un’antropologia culturale assolutamente adeguata. L’artista ha saputo, nell’arco di tutta la sua produzione e strategia, fondare una sorta di snobismo di massa, un paradosso legato alla società moltiplicata e standardizzata americana. Un’arte superbamente e supinamente retorica che ha lavorato sull’emblema riconoscibile in tutti i suoi passaggi, dalla produzione industriale ed elettronica alla riproduzione artistica, riportabile alla griffe del suo autore.
Neutralità, oggettività, impersonalità, caratteri terribili di accompagnamento della merce diventano i connotati stabilizzati della nuova immagine di H. che allontana e nello stesso tempo seduce l’occhio distratto dello spettatore. Questa immagine infatti è fatta tutta per lo sguardo. Per questo scorre rafforzata sotto il segno di un efficace superficialismo, che castiga la profondità psicologica e premia la codificazione del reale.
Anche l’arte diventa cosa. Non si sottrae al destino oggettivante che caratterizza universo dell’offerta in cui è immerso l’uomo contemporaneo. Anzi la contemporaneità tra arte e vita è assicurata proprio dall’assunzione del cinismo, inteso come categoria dell’esistenza capace di garantire un occhio sgombro dalla zavorra ideologica che per decenni ha occluso i varchi della relativa totalità dell’esistenza.
In questo senso l’opera di H. diventa il deterrente che segna lo spartiacque tra autonomia ed economia dell’arte. Paradossalmente soltanto passando da questa falsa strettoia è possibile garantirsi l’accesso al nuovo moderno. Esso non è fatto da belle forme ma dalla metafisica della forma, intesa come incombenza di una comunicazione tra gli uomini che puo’ avvenire soltanto mediante una moltiplicazione della complessità, un impiego della citazione che costringe l’artista ad uscire dall’uso scomposto del gesto per approdare invece alla necessità di una forma non ortopedica ma soggettiva dell’espressione. In questa direzione l’ironia funziona molto bene. In quanto rafforzamento della distanza, aiuta l’artista nelle sue operazioni di metalinguaggio, lo spinge verso una sana oscillazione che lo cura da ogni affanno psicologico e lo costringe a misurarsi con l’involontaria comicità dell’esistenza antieroica della società di massa.
Involontariamente la figura diventa una corazza stilistica dell’are, un corsetto bassamente formale, una dissonanza di marca salutarmene medioevale, capace di rivitalizzare il tessuto astratto dell’evento artistico. L’astrazione è data inevitabilmente dal fatto che quantitativamente l’artista come individuo rappresenta soltanto se stesso nella società di massa. Un po’ poco per quanto riguarda il suo potere di rappresentazione. Ma se invece attraversa l’immaginario collettivo, ecco che allora acquista un diverso potere. Diventa colui che ridisegna le istanze di un nuovo profondo. L’artista è il nuovo designer che non interpreta i contenuti ma, senza invadenze, le forme di accesso alla complessità-onirica dell’universo dello spettacolo e della merce, del bisogno e del diritto, del sogno e della veglia.
Un’opera ad occhi aperti realizza H. quando fonde la sua immagine. Memore e partecipe, invaso ed invadente, egli compie una elaborazione di opulenza capace di coniugare insieme quantità collettiva e qualità individuale, qualità oggettiva del simulacro della merce in quantità materia del proprio processo creativo.
La posa orizzontale della post-modernità ci permette di meglio godere lo spettacolo. Dimessa la proverbiale superbia intellettuale, possiamo meglio accogliere l’osmosi tra i diversi universi contigui. Perché di contiguità si tratta. Non di distanza siderale. Ora che la merce ha acquistato tutti gli ornamenti inizialmente destinati all’espressione artistica, ecco che l’arte può a sua volta assumere il carattere stentoreo, oggettivo ed anche brutalmente tautologico della merce. Imporsi senza reticenza alla scena dell’esistente.
La complessità marca l’arte di H., capace di affrontare i nuovi connotati che segnano il panorama che circonda l’uomo, lo seduce, lo svia ma anche lo accompagna verso un uso disinibito della nozione di consumo, meno passivo più consapevole, meno idealistico e più autenticamente edonistico.
Il piacere dell’occhio introduce un elemento di affrancamento che oggi l’arte continua ad assicurare all’uomo, in un presente che non ha bisogno di rimandare al domani radioso.
L’hic et nunc dell’immagine trattiene lo spettatore sulla soglia di un presente che non offre più un riscatto totale, ma un rasserenamento parziale. L’arte mostra di aver perso, di non aver più una funzione palingenetica bensì di terapia formale, nel senso di presentarsi non come mezzo ma come oggetto multiplo, pronto a tutti gli usi.
Un’oggettistica dell’immagine domina il campo dell’arte di H. Con tutte le caratteristiche di splendente impenetrabilità che accompagna l’esistenza di tutte le immagini quotidiane. In al modo lo spettatore possiede i codici di entrata che permettono l’accesso all’universo delle forme esemplari dove di nuovo si celebra la differenza e l’unicità espressiva.
Tutto questo determina un felice scorrimento. Fa saltare la convenzionale porta del museo, luogo proverbiale di delizie e raffinatezze formali, a favore di un’arte che va incontro alla vita ma per porla in una condizione di impossibilità, fuori dal codice tassativo del significato e dentro invece ad una contaminazione senza gerarchia di provenienze.
In Barman, personaggio di un fumetto per ragazzi e film di T. Burton, Jocker entra in un museo e, applicando le tecniche gestuali dell’action-painting, compie una giocosa manipolazione degli statici capolavori appesi alle pareti. Interessante è qui la metafora dell’appropriazione di un personaggio del fumetto dei procedimenti alti dell’arte contro l’arte stessa. Naturalmente non è la rivolta della prosa contro la poesia,della volgarità contro la politesse della forma, piuttosto l’intreccio di due diverse condizioni culturali che si attraversano per esprimere alla fine la stessa identità, l’essere frutto di linguaggi e dunque di artificio. La condizione metalinguistica, operazione condotta alla seconda potenza omologa ormai arte e fumetto. Esiste la terza via, l’unica possibile, che mette tutto in relazione in una continuità garantita dalle forme. Barman rappresenta la metafora della manipolazione onnivora, il capovolgimento della citazione: dall’arte al fumetto, dal fumetto all’arte. Questo significa che non esistono più piani bassi, tutto è in circolo ed in movimento. In fondo l’arte è una continua affermazione di una notizia confortevole per l’umanità: tutto è in viaggio e non si accettano più prenotazioni per posti riservati.
Achille Bonito Oliva
18
gennaio 2013
Paul Harbutt – Bad Boys
Dal 18 gennaio al 03 marzo 2013
arte contemporanea
disegno e grafica
disegno e grafica
Location
MUSEO CARLO BILOTTI – ARANCIERA DI VILLA BORGHESE
Roma, Viale Fiorello La Guardia, 4, (Roma)
Roma, Viale Fiorello La Guardia, 4, (Roma)
Biglietti
intero euro 8.00 ridotto euro 7.00
Orario di apertura
martedì – venerdì 10.00/16.00 sabato- domenica 10.00/19.00
Vernissage
18 Gennaio 2013, ore 18
Autore
Curatore