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Paul Thorel – Al pari di un profilo
Con la prima mostra in galleria di Paul Thorel proseguiamo la collaborazione tra arte e scrittura con alcuni tra i più interessanti scrittori contemporanei. Dopo Tiziano Scarpa per Anish Kapoor, per questa occasione abbiamo chiesto ad Aldo Nove di scrivere un testo per il catalogo che raccoglierà i nuovi ritratti fotografici di Thorel.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Con la prima mostra in galleria di Paul Thorel proseguiamo la collaborazione tra arte e scrittura con alcuni tra i più interessanti scrittori contemporanei. Dopo Tiziano Scarpa per Anish Kapoor, per questa occasione abbiamo chiesto ad Aldo Nove di scrivere un testo per il catalogo che raccoglierà i nuovi ritratti fotografici di Thorel.
STANNO PER ESSERE
Un'immagine ha a che fare con la distanza, potremmo dire che ne è la rappresentazione (attraverso una cosa, un pensiero, che ne è testimonianza, scelta o casuale).
Immagine fantastica o del passato.
Immagine del futuro.
Immagine, sempre, di ciò che non è qui.
Sempre abbiamo a che fare con il tempo (immagine evocata, pensata) e con lo spazio (immagine di ciò che non è qui, eppure ci viene rappresentata).
Nel ritratto, l'immagine ci mostra proprio ciò che non è qui (e suppone una persona, una vita): supplisce dunque a una distanza che dribbla lo spazio.
Dagli anni Cinquanta dello scorso secolo, quell'immagine è stata, per eccellenza (non sola, ovviamente), l'immagine televisiva. E televisione null'altro significa che immagine che attraversa lo spazio.
Tutto questo per dire che i ritratti di Thorel mi hanno ricordato le immagini televisive, ma in una loro condizione del tutto particolare: la loro imminenza, la loro presenza nel non ancora. Ritratti che stanno per essere.
O sono stati.
Mi riferisco all'esperienza (primaria, per chi è della mia generazione, e dunque per chi con la televisione si è formato) dell'immagine che si cela sotto un canale non perfettamente sintonizzato.
Quelle immagini che non sono ancora, dicevamo.
Da piccolo si parlava di "effetto neve". Quando si muovevano quegli enormi tasti, simili a sigarette, per cercare la sintonia, e la sintonia si approssimava con l'immagine che emergeva da un trambusto di segnali elettrici, altro dalla riproduzione di una realtà, qualunque questa fosse.
Una quasi realtà, dunque.
Ma quasi anche perché più sinceramente vicina alla sua condizione di illusione.
Nell'era in cui il delitto perfetto (per citare Baudrillard) non solo è compiuto, ma detta le condizioni del nostro immaginario, non è poco.
Torniamo a Thorel.
Tele-visione.
Visione attraverso lo spazio.
Come qualunque immagine che è qua, dinnanzi a noi: anche se sappiamo che un'immagine ci si può presentare anche attraverso il tempo.
L'immagine del ricordo, abbiamo detto.
Thorel, come nelle immagini televisive che non sono ancora (o che sono state, è lo stesso), ci ricorda l'elemento della pacificata non fissità del ritratto.
Il suo scorrere.
Il suo assestarsi.
Il suo non eludere l'enigma di cosa sia visto, mentre lo si vede e dopo.
Quel dopo è la sua decomposizione, quasi organica.
Da dove vengono, allora, e dove vanno i ritratti quando non sono esattamente qui?
Non ci interessa l'oggettività (che non ci è data) ma tutto quel ribollire d'emozioni e di condizioni che formano il ritratto e, con esso, l'identità.
La sua provvisorietà.
La fotografia da sempre vive nell'utopia vinta dell'attimo che si ferma. Ma si ferma nella finzione di una fissità che sogna un mondo delle immagini normato dall'assoluto, gioca con il ricordo ingannandolo, è souvenir di qualcosa che per un istante solo è stato, e giocoforza si fa carica di un’elusione tanto immaginifica quanto tangibile.
Spostare le cose.
Dislocare il loro apparire.
Vedere ciò che era prima.
Vederlo anche diversamente, cambiandone il punto di vista, cercando un punto di vista originale ma sempre rimanendo fedeli all'impegno di "fregare" tempo e spazio.
Thorel compie un’operazione diversa.
Usa la fotografia, e i ritratti che attraverso la fotografia ottiene, per una riflessione sul ritratto che si sottrae a qualunque fascino del "come se".
Come se noi fossimo lì.
O anche "come se noi fossimo capaci di guardare così".
Non un occhio che si sottrae al panta rei: né un occhio eccellente, né un occhio normale, intendendo con questa opposizione la forbice che per prima caratterizza un’operazione artistica. Non si tratta di realismo né di qualunque cos'altro a questo si opponga.
La realtà sta altrove.
Come nel caso della sintonizzazione della televisione, è quasi.
Quasi sta
.
Oppure è stata.
Ma manca qualcosa.
Manca il ritratto, la foto non c'è pienamente.
Manca a se stessa
.
Non è piena di sè perché è altrove rispetto a se stessa.
Deve ancora arrivare.
È arrivata e adesso sta andando via.
Ma noi sappiamo (ci testimoniano i ritratti di Thorel) che sicuramente c'è stata e che sicuramente ci sarà.
Qualcosa attraversando il tempo ci arriva.
E ci arriva con una nettezza, scusate il gioco di parole, fotografica.
Con la necessità della frattura, della lacerazione.
Con la potenza di quanto non si è acquietato e dunque in quel limite della forma in cui sempre l'arte si realizza, ed è un limite, in questo caso, empirico prima che ideale, riguarda la tecnica e non quanto attraverso di essa si rappresenta.
Come fosse un occhio altro per noi che di occhi ne abbiamo sempre e solo due anche se gli occhi della mente ne reclamano infiniti, come infinite sono le possibilità di guardare e dunque di evocare.
Thorel non vede per restituirci, attraverso una visione, qualcosa.
Ce ne propone l'altrove.
L'altrove della cosa.
Un'urgenza che non può più aspettare (come se del ritratto assistessimo alla nascita: o, unificando concettualmente gli opposti, alla morte, intesa in fieri).
È una rappresentazione che scappa a se stessa perché sa il tempo e sa lo spazio, non ha nessuna intenzione di condurre contro di essi quella lotta che li piega a essere oggetti di consumo: marxianamente, feticci.
Realtà seconde.
Realtà d'utilizzo.
Realtà in vendita.
Restano, i ritratti di Thorel, inevitabilmente altro (con la minuscola, e dunque senza nessuna ascesi verso nient'altro che non sia: mancanza).
L'unica a essere sconfitta, nella lotta tra il reale e la sua rappresentazione, è la fotografia, ossia il mezzo, quello più comunemente inteso nella sua idoneità a riportare la percentuale più alta di reale nella rappresentazione, in un'approssimazione al vero che Thorel toglie (hegelianamente) alla sua funzione.
Queste fotografie, infatti, non sono (più) fotografie se sono viste come ritratti.
E non sono (più) ritratti se sono (restano), all'occhio di chi guarda, fotografie.
Di sicuro restano (sono) ciò che è nel mezzo.
Nella scissione tra pensiero e rappresentazione.
Tra visione e doppio.
Incombono.
Stanno per essere.
Sono state.
Senza nessuna illusione.
Aldo Nove
Nota biografica
Artista fotografo, nato nel 1956 a Londra ma di nazionalità Italo Francese, Paul Thorel, dopo alcuni anni di pittura iniziati nel 1970 seguendo un corso da Carla Accardi a Roma, nel 1979 inizia la sua ricerca sulla creazione di immagini elettroniche all’Institut National de l’Audiovisuel di Parigi.
Negli anni successivi, oltre al suo lavoro di artista, lavora su progetti sperimentali collaborando con la Rai, centri di produzione TV, industrie informatiche e università. Realizza progetti per il cinema e il teatro e collabora alla creazione di spot pubblicitari.
Dal 1981 si dedica al trattamento digitale della fotografia.
I suoi lavori sono stati pubblicati su riviste internazionali di fotografia come Aperture, Originale, Zoom, Photographies Magazine e su diversi quotidiani e settimanali italiani.
Espone in gallerie private e partecipa a mostre fotografiche in musei francesi, italiani e americani, a due edizioni della Biennale Internazionale della Fotografia di Torino e a diverse rassegne dedicate alla fotografia e ai nuovi media nell’arte.
All’Istituto Francese di Firenze presenta 10 ritratti realizzati appositamente per questa mostra con tecniche miste fotografiche e digitali.
Collettive e personali
Mostre personali
2009 “Ritratti”, Istituto Francese di Firenze.
2003 “Walk Like An Egyptian”, Museo Nazionale Archeologico, Napoli.
2002 “Ritratti e Paesaggi”, Arte Maggio Castello Svevo, Bari.
2000 “L’origine Des Inconnus”, Gallerie Taché Lévy, Bruxelles.
1998 “Derive”, Galleria Bonomo, Roma.
1998 “Sudio Trisorio”, Napoli.
1997 “Passaggi”, Galleria Neos, Santeramo.
1996 “In Vero Simili”, Incontri Internazionali d’Arte, Spoleto.
1995 “Art Media”, Galleria Paola Verrengia, Salerno.
1994 Depot Gallery, Bologna.
1993 “Lueurs Marginales”, Galleria Il Ponte, Firenze.
1992 “Condensazioni”, Galleria Extra, Taranto.
1991 “Condensazioni e Spostamenti”, Biennale Internazionale della Fotografia, Torino.
1985 Galleria Ferro Di Cavallo, Roma.
1980 Centre Culturel Français, Roma.
Mostre collettive
2009 “La camera dello squardo, fotografi italiani”, Palazzo sant’Elia Palermo.
2008 “Una Storia Privata”, Museo Carlo Bilotti, Roma.
2008 “Una Storia Privata”, Photo Espana, Madrid.
2006 “Une Histoire Privée” , Maison Européenne de la Photographie, Paris.
2001 “Art Outsiders”, Maison Européenne de la Photographie, Paris
1999 “Felici Coincidenze”, Arte Maggio, Bari.
1998 “Natura Inurbata”, Palazzo Delle Esposizioni, Roma.
1997 “Photography In The Electronic Age”, Aperture Foudation, Ackland Art Museum, Chapel Hill, NC.
San José Museum of Art. Aperture Foundation.
Philadelphia Museum of Art, Aperture Foundation.
Tampa Museum of Art, Aperture Foundation.
1997 “Leda e il Cigno”. Galleria Weber, Torino.
Modena Per La Fotografia.
1995 “Il Ritratto Maltrattato”, Galleria Il Diaframma, Milano.
Blaffer Gallery Houston, Aperture Foundation.
1994 F.I.T. New York, Aperture Foundation.
1993 “Tremplin Pour Les Images”, Rencontres Internationales de la Photographie”, Arles.
1992 “Imprimatur”, San Carpoforo, Milano.
1992 “L’épreuve Numérique”, Palais de Tokyo, Paris.
1989 “Varianze”, Biennale Internazionale della Fotografia, Torino.
1989 “Tremplin pour les Images”, Palais de Tokyo. Paris.
1089 “Exposition Pixel”, Salon de la Photographie et de la Video, Paris.
1988 ”Pixim”, Conférence Annuele sur l’Image Numérique, Paris.
Note sui Ritratti di Paul Thorel
di
Guido Costa
Paul Thorel si dedica alla ritrattistica da più di due decenni. Per lui fare ritratti è quasi una pratica di meditazione che penso lo aiuti a relazionarsi all’altro da sé, esercitando una disciplina su se stesso.
La ritrattistica, genere quanto mai antico e quanto mai profondo, ha da sempre questo sottofondo eroico, dove l’estremo impossessarsi fa tutt’uno con l’assoluto spossessarsi nella rincorsa ideale del puro occhio. Impresa impossibile, la si potrebbe definire, in cui un bisogno estetico si trasforma in imperativo etico, orientato ad una paradossale rappresentazione dell’essenza.
Nel pensiero comune il ritratto perfetto è quello che coglie l’idea dell’individuo, senza essere inquinato, o deformato, dal punto di vista dell’artista. Un paradosso, potremmo dire, una sorta di imperativo categorico kantiano: qualcosa che mai e poi mai ci aspetteremmo laddove esiste un medesimo rapporto tra interprete e interpretato. Mai, infatti, penseremmo possibili un testo o una descrizione, che esauriscano totalmente il proprio oggetto o un’interpretazione capace di cogliere per intero l’interpretato. Eppure, dal ritratto ci si aspetta esattamente questo, quasi esso viva al di fuori dei vincoli ermeneutici e abbia a che fare con un tipo del tutto particolare di testo, più attingibile, meno opaco. Quasi, insomma, che l’essere umano – di regola il soggetto privilegiato della ritrattistica – fosse un testo più leggibile della parola scritta, in assoluta contraddizione di ogni analisi del profondo, analitica o psicoanalitica, fenomenologia, sociologica, storica, mistica o religiosa.
Ma è proprio su questo paradosso che si spalanca la prospettiva etica, capace, probabilmente, di polverizzare i dubbi delle tante teorie dell’interpretazione.
Credo che per un vero ritrattista la verosimiglianza sia un aspetto del tutto trascurabile: dei grandi ritratti del passato, di cui non possediamo alcun documento che ne attesti l’aderenza al soggetto, ciò che ci colpisce è quel qualcosa di sottile – quel surplus di anima – che ce li fa essere parlanti. Parlanti un linguaggio del tutto particolare, che nel pensare comune fa tutt’uno con il mistero.
I grandi ritratti sono enigmi, sono documenti che vanno al di là dell’interpretazione.
Ma che cos’è questo qualcosa che mette in scacco la pura verosimiglianza, portandoci a parlare di trascendenza? Spesso sono dei particolari – uno sguardo, un sorriso, un atteggiarsi del viso – quasi l’intero ritratto collassasse in quel punto e proprio da quel punto iniziasse a parlarci. Un particolare: ecco la leva, il punto di forza su cui si è esercitato l’imperativo etico dell’artista.
Ma veniamo a Paul Thorel e a come, nel suo lavoro di ritrattista, si abbia a che fare proprio con questi paradigmi, e con grandissima precisione.
Innanzitutto per la scelta del mezzo, quello fotografico, che più di ogni altro si presta alla moltiplicazione degli sforzi nella ricerca dell’essenza, grazie alla sua capacità di polverizzare il tempo e lo spazio, avvicinandosi per un soffio all’immagine in movimento e alla terza dimensione.
La libertà di un fotografo di fronte al proprio soggetto (e di qui anche il suo enorme margine di errore) è innanzitutto teorica, anche se ad un osservazione superficiale apparirebbe squisitamente pratica e frutto delle qualità della macchina.
In secondo luogo Paul Thorel lavora esclusivamente, e da sempre, in digitale. Questa scelta gli permette un secondo livello di elaborazione, nata dalla composizione e scomposizione dell’immagine secondo modelli matematici, in parte controllati, in parte risultato di eventi casuali, di cui si conoscono soltanto alcune costanti (l’avvicinarsi e l’allontanarsi dai propri limiti).
Proprio l’incrocio di queste due prospettive (quella squisitamente teorica, e quella pratica) avvicina i suoi ritratti più alla pittura che alla fotografia tradizionale, di regola meno sottoposta a manipolazioni così profonde e complesse, permettendogli un’elaborazione dell’immagine analoga per certi versi a quella operata con il pennello, con tanto di sovrapposizioni, velature e pentimenti.
Il suo procedimento, lento e riflessivo, da non confondere con quello corrivo e standardizzato dei programmi di sintesi dell’immagine, lo porta a concentrarsi su alcuni elementi, piuttosto che su altri, piegandoli al suo gusto e al suo sentire, lavorandoli minuziosamente fino ad amplificarli a cifre del ritratto.
Solitamente in bianco e nero e dotati di una stupefacente profondità ai limiti della tridimensionalità, i ritratti di Paul Thorel giungono così ad un particolarissimo equilibrio tra realismo ed astrazione, organizzandosi intorno a quei pochi tratti fondamentali che sono l’essenza o il mistero del complesso rapporto tra ritrattista e modello.
In quei fasci di linee, in quelle ondulazioni, in quei rapporti di pieno e vuoto c’è per intero il soggetto, mai però suggerito simbolicamente, o trasformato in metafora: c’è realmente, così come potrebbe esserci in un tradizionalissimo ritratto fotografico, eppure pittoricamente sublimato e concentrato in un sol punto. E nel percorso che conduce a quel punto, e soltanto a quello, si riassume l’intero imperativo etico che l’ha portato a decidersi per un punto di vista piuttosto che un altro.
Un percorso che non risponde alle leggi della verosimiglianza o dello stile, ma a quelle della corrispondenza tra il sé e l’altro da sé. Un percorso combattuto per intero entro i confini della propria anima d’artista, come un pittore di fronte alla tela bianca.
STANNO PER ESSERE
Un'immagine ha a che fare con la distanza, potremmo dire che ne è la rappresentazione (attraverso una cosa, un pensiero, che ne è testimonianza, scelta o casuale).
Immagine fantastica o del passato.
Immagine del futuro.
Immagine, sempre, di ciò che non è qui.
Sempre abbiamo a che fare con il tempo (immagine evocata, pensata) e con lo spazio (immagine di ciò che non è qui, eppure ci viene rappresentata).
Nel ritratto, l'immagine ci mostra proprio ciò che non è qui (e suppone una persona, una vita): supplisce dunque a una distanza che dribbla lo spazio.
Dagli anni Cinquanta dello scorso secolo, quell'immagine è stata, per eccellenza (non sola, ovviamente), l'immagine televisiva. E televisione null'altro significa che immagine che attraversa lo spazio.
Tutto questo per dire che i ritratti di Thorel mi hanno ricordato le immagini televisive, ma in una loro condizione del tutto particolare: la loro imminenza, la loro presenza nel non ancora. Ritratti che stanno per essere.
O sono stati.
Mi riferisco all'esperienza (primaria, per chi è della mia generazione, e dunque per chi con la televisione si è formato) dell'immagine che si cela sotto un canale non perfettamente sintonizzato.
Quelle immagini che non sono ancora, dicevamo.
Da piccolo si parlava di "effetto neve". Quando si muovevano quegli enormi tasti, simili a sigarette, per cercare la sintonia, e la sintonia si approssimava con l'immagine che emergeva da un trambusto di segnali elettrici, altro dalla riproduzione di una realtà, qualunque questa fosse.
Una quasi realtà, dunque.
Ma quasi anche perché più sinceramente vicina alla sua condizione di illusione.
Nell'era in cui il delitto perfetto (per citare Baudrillard) non solo è compiuto, ma detta le condizioni del nostro immaginario, non è poco.
Torniamo a Thorel.
Tele-visione.
Visione attraverso lo spazio.
Come qualunque immagine che è qua, dinnanzi a noi: anche se sappiamo che un'immagine ci si può presentare anche attraverso il tempo.
L'immagine del ricordo, abbiamo detto.
Thorel, come nelle immagini televisive che non sono ancora (o che sono state, è lo stesso), ci ricorda l'elemento della pacificata non fissità del ritratto.
Il suo scorrere.
Il suo assestarsi.
Il suo non eludere l'enigma di cosa sia visto, mentre lo si vede e dopo.
Quel dopo è la sua decomposizione, quasi organica.
Da dove vengono, allora, e dove vanno i ritratti quando non sono esattamente qui?
Non ci interessa l'oggettività (che non ci è data) ma tutto quel ribollire d'emozioni e di condizioni che formano il ritratto e, con esso, l'identità.
La sua provvisorietà.
La fotografia da sempre vive nell'utopia vinta dell'attimo che si ferma. Ma si ferma nella finzione di una fissità che sogna un mondo delle immagini normato dall'assoluto, gioca con il ricordo ingannandolo, è souvenir di qualcosa che per un istante solo è stato, e giocoforza si fa carica di un’elusione tanto immaginifica quanto tangibile.
Spostare le cose.
Dislocare il loro apparire.
Vedere ciò che era prima.
Vederlo anche diversamente, cambiandone il punto di vista, cercando un punto di vista originale ma sempre rimanendo fedeli all'impegno di "fregare" tempo e spazio.
Thorel compie un’operazione diversa.
Usa la fotografia, e i ritratti che attraverso la fotografia ottiene, per una riflessione sul ritratto che si sottrae a qualunque fascino del "come se".
Come se noi fossimo lì.
O anche "come se noi fossimo capaci di guardare così".
Non un occhio che si sottrae al panta rei: né un occhio eccellente, né un occhio normale, intendendo con questa opposizione la forbice che per prima caratterizza un’operazione artistica. Non si tratta di realismo né di qualunque cos'altro a questo si opponga.
La realtà sta altrove.
Come nel caso della sintonizzazione della televisione, è quasi.
Quasi sta
.
Oppure è stata.
Ma manca qualcosa.
Manca il ritratto, la foto non c'è pienamente.
Manca a se stessa
.
Non è piena di sè perché è altrove rispetto a se stessa.
Deve ancora arrivare.
È arrivata e adesso sta andando via.
Ma noi sappiamo (ci testimoniano i ritratti di Thorel) che sicuramente c'è stata e che sicuramente ci sarà.
Qualcosa attraversando il tempo ci arriva.
E ci arriva con una nettezza, scusate il gioco di parole, fotografica.
Con la necessità della frattura, della lacerazione.
Con la potenza di quanto non si è acquietato e dunque in quel limite della forma in cui sempre l'arte si realizza, ed è un limite, in questo caso, empirico prima che ideale, riguarda la tecnica e non quanto attraverso di essa si rappresenta.
Come fosse un occhio altro per noi che di occhi ne abbiamo sempre e solo due anche se gli occhi della mente ne reclamano infiniti, come infinite sono le possibilità di guardare e dunque di evocare.
Thorel non vede per restituirci, attraverso una visione, qualcosa.
Ce ne propone l'altrove.
L'altrove della cosa.
Un'urgenza che non può più aspettare (come se del ritratto assistessimo alla nascita: o, unificando concettualmente gli opposti, alla morte, intesa in fieri).
È una rappresentazione che scappa a se stessa perché sa il tempo e sa lo spazio, non ha nessuna intenzione di condurre contro di essi quella lotta che li piega a essere oggetti di consumo: marxianamente, feticci.
Realtà seconde.
Realtà d'utilizzo.
Realtà in vendita.
Restano, i ritratti di Thorel, inevitabilmente altro (con la minuscola, e dunque senza nessuna ascesi verso nient'altro che non sia: mancanza).
L'unica a essere sconfitta, nella lotta tra il reale e la sua rappresentazione, è la fotografia, ossia il mezzo, quello più comunemente inteso nella sua idoneità a riportare la percentuale più alta di reale nella rappresentazione, in un'approssimazione al vero che Thorel toglie (hegelianamente) alla sua funzione.
Queste fotografie, infatti, non sono (più) fotografie se sono viste come ritratti.
E non sono (più) ritratti se sono (restano), all'occhio di chi guarda, fotografie.
Di sicuro restano (sono) ciò che è nel mezzo.
Nella scissione tra pensiero e rappresentazione.
Tra visione e doppio.
Incombono.
Stanno per essere.
Sono state.
Senza nessuna illusione.
Aldo Nove
Nota biografica
Artista fotografo, nato nel 1956 a Londra ma di nazionalità Italo Francese, Paul Thorel, dopo alcuni anni di pittura iniziati nel 1970 seguendo un corso da Carla Accardi a Roma, nel 1979 inizia la sua ricerca sulla creazione di immagini elettroniche all’Institut National de l’Audiovisuel di Parigi.
Negli anni successivi, oltre al suo lavoro di artista, lavora su progetti sperimentali collaborando con la Rai, centri di produzione TV, industrie informatiche e università. Realizza progetti per il cinema e il teatro e collabora alla creazione di spot pubblicitari.
Dal 1981 si dedica al trattamento digitale della fotografia.
I suoi lavori sono stati pubblicati su riviste internazionali di fotografia come Aperture, Originale, Zoom, Photographies Magazine e su diversi quotidiani e settimanali italiani.
Espone in gallerie private e partecipa a mostre fotografiche in musei francesi, italiani e americani, a due edizioni della Biennale Internazionale della Fotografia di Torino e a diverse rassegne dedicate alla fotografia e ai nuovi media nell’arte.
All’Istituto Francese di Firenze presenta 10 ritratti realizzati appositamente per questa mostra con tecniche miste fotografiche e digitali.
Collettive e personali
Mostre personali
2009 “Ritratti”, Istituto Francese di Firenze.
2003 “Walk Like An Egyptian”, Museo Nazionale Archeologico, Napoli.
2002 “Ritratti e Paesaggi”, Arte Maggio Castello Svevo, Bari.
2000 “L’origine Des Inconnus”, Gallerie Taché Lévy, Bruxelles.
1998 “Derive”, Galleria Bonomo, Roma.
1998 “Sudio Trisorio”, Napoli.
1997 “Passaggi”, Galleria Neos, Santeramo.
1996 “In Vero Simili”, Incontri Internazionali d’Arte, Spoleto.
1995 “Art Media”, Galleria Paola Verrengia, Salerno.
1994 Depot Gallery, Bologna.
1993 “Lueurs Marginales”, Galleria Il Ponte, Firenze.
1992 “Condensazioni”, Galleria Extra, Taranto.
1991 “Condensazioni e Spostamenti”, Biennale Internazionale della Fotografia, Torino.
1985 Galleria Ferro Di Cavallo, Roma.
1980 Centre Culturel Français, Roma.
Mostre collettive
2009 “La camera dello squardo, fotografi italiani”, Palazzo sant’Elia Palermo.
2008 “Una Storia Privata”, Museo Carlo Bilotti, Roma.
2008 “Una Storia Privata”, Photo Espana, Madrid.
2006 “Une Histoire Privée” , Maison Européenne de la Photographie, Paris.
2001 “Art Outsiders”, Maison Européenne de la Photographie, Paris
1999 “Felici Coincidenze”, Arte Maggio, Bari.
1998 “Natura Inurbata”, Palazzo Delle Esposizioni, Roma.
1997 “Photography In The Electronic Age”, Aperture Foudation, Ackland Art Museum, Chapel Hill, NC.
San José Museum of Art. Aperture Foundation.
Philadelphia Museum of Art, Aperture Foundation.
Tampa Museum of Art, Aperture Foundation.
1997 “Leda e il Cigno”. Galleria Weber, Torino.
Modena Per La Fotografia.
1995 “Il Ritratto Maltrattato”, Galleria Il Diaframma, Milano.
Blaffer Gallery Houston, Aperture Foundation.
1994 F.I.T. New York, Aperture Foundation.
1993 “Tremplin Pour Les Images”, Rencontres Internationales de la Photographie”, Arles.
1992 “Imprimatur”, San Carpoforo, Milano.
1992 “L’épreuve Numérique”, Palais de Tokyo, Paris.
1989 “Varianze”, Biennale Internazionale della Fotografia, Torino.
1989 “Tremplin pour les Images”, Palais de Tokyo. Paris.
1089 “Exposition Pixel”, Salon de la Photographie et de la Video, Paris.
1988 ”Pixim”, Conférence Annuele sur l’Image Numérique, Paris.
Note sui Ritratti di Paul Thorel
di
Guido Costa
Paul Thorel si dedica alla ritrattistica da più di due decenni. Per lui fare ritratti è quasi una pratica di meditazione che penso lo aiuti a relazionarsi all’altro da sé, esercitando una disciplina su se stesso.
La ritrattistica, genere quanto mai antico e quanto mai profondo, ha da sempre questo sottofondo eroico, dove l’estremo impossessarsi fa tutt’uno con l’assoluto spossessarsi nella rincorsa ideale del puro occhio. Impresa impossibile, la si potrebbe definire, in cui un bisogno estetico si trasforma in imperativo etico, orientato ad una paradossale rappresentazione dell’essenza.
Nel pensiero comune il ritratto perfetto è quello che coglie l’idea dell’individuo, senza essere inquinato, o deformato, dal punto di vista dell’artista. Un paradosso, potremmo dire, una sorta di imperativo categorico kantiano: qualcosa che mai e poi mai ci aspetteremmo laddove esiste un medesimo rapporto tra interprete e interpretato. Mai, infatti, penseremmo possibili un testo o una descrizione, che esauriscano totalmente il proprio oggetto o un’interpretazione capace di cogliere per intero l’interpretato. Eppure, dal ritratto ci si aspetta esattamente questo, quasi esso viva al di fuori dei vincoli ermeneutici e abbia a che fare con un tipo del tutto particolare di testo, più attingibile, meno opaco. Quasi, insomma, che l’essere umano – di regola il soggetto privilegiato della ritrattistica – fosse un testo più leggibile della parola scritta, in assoluta contraddizione di ogni analisi del profondo, analitica o psicoanalitica, fenomenologia, sociologica, storica, mistica o religiosa.
Ma è proprio su questo paradosso che si spalanca la prospettiva etica, capace, probabilmente, di polverizzare i dubbi delle tante teorie dell’interpretazione.
Credo che per un vero ritrattista la verosimiglianza sia un aspetto del tutto trascurabile: dei grandi ritratti del passato, di cui non possediamo alcun documento che ne attesti l’aderenza al soggetto, ciò che ci colpisce è quel qualcosa di sottile – quel surplus di anima – che ce li fa essere parlanti. Parlanti un linguaggio del tutto particolare, che nel pensare comune fa tutt’uno con il mistero.
I grandi ritratti sono enigmi, sono documenti che vanno al di là dell’interpretazione.
Ma che cos’è questo qualcosa che mette in scacco la pura verosimiglianza, portandoci a parlare di trascendenza? Spesso sono dei particolari – uno sguardo, un sorriso, un atteggiarsi del viso – quasi l’intero ritratto collassasse in quel punto e proprio da quel punto iniziasse a parlarci. Un particolare: ecco la leva, il punto di forza su cui si è esercitato l’imperativo etico dell’artista.
Ma veniamo a Paul Thorel e a come, nel suo lavoro di ritrattista, si abbia a che fare proprio con questi paradigmi, e con grandissima precisione.
Innanzitutto per la scelta del mezzo, quello fotografico, che più di ogni altro si presta alla moltiplicazione degli sforzi nella ricerca dell’essenza, grazie alla sua capacità di polverizzare il tempo e lo spazio, avvicinandosi per un soffio all’immagine in movimento e alla terza dimensione.
La libertà di un fotografo di fronte al proprio soggetto (e di qui anche il suo enorme margine di errore) è innanzitutto teorica, anche se ad un osservazione superficiale apparirebbe squisitamente pratica e frutto delle qualità della macchina.
In secondo luogo Paul Thorel lavora esclusivamente, e da sempre, in digitale. Questa scelta gli permette un secondo livello di elaborazione, nata dalla composizione e scomposizione dell’immagine secondo modelli matematici, in parte controllati, in parte risultato di eventi casuali, di cui si conoscono soltanto alcune costanti (l’avvicinarsi e l’allontanarsi dai propri limiti).
Proprio l’incrocio di queste due prospettive (quella squisitamente teorica, e quella pratica) avvicina i suoi ritratti più alla pittura che alla fotografia tradizionale, di regola meno sottoposta a manipolazioni così profonde e complesse, permettendogli un’elaborazione dell’immagine analoga per certi versi a quella operata con il pennello, con tanto di sovrapposizioni, velature e pentimenti.
Il suo procedimento, lento e riflessivo, da non confondere con quello corrivo e standardizzato dei programmi di sintesi dell’immagine, lo porta a concentrarsi su alcuni elementi, piuttosto che su altri, piegandoli al suo gusto e al suo sentire, lavorandoli minuziosamente fino ad amplificarli a cifre del ritratto.
Solitamente in bianco e nero e dotati di una stupefacente profondità ai limiti della tridimensionalità, i ritratti di Paul Thorel giungono così ad un particolarissimo equilibrio tra realismo ed astrazione, organizzandosi intorno a quei pochi tratti fondamentali che sono l’essenza o il mistero del complesso rapporto tra ritrattista e modello.
In quei fasci di linee, in quelle ondulazioni, in quei rapporti di pieno e vuoto c’è per intero il soggetto, mai però suggerito simbolicamente, o trasformato in metafora: c’è realmente, così come potrebbe esserci in un tradizionalissimo ritratto fotografico, eppure pittoricamente sublimato e concentrato in un sol punto. E nel percorso che conduce a quel punto, e soltanto a quello, si riassume l’intero imperativo etico che l’ha portato a decidersi per un punto di vista piuttosto che un altro.
Un percorso che non risponde alle leggi della verosimiglianza o dello stile, ma a quelle della corrispondenza tra il sé e l’altro da sé. Un percorso combattuto per intero entro i confini della propria anima d’artista, come un pittore di fronte alla tela bianca.
02
settembre 2010
Paul Thorel – Al pari di un profilo
Dal 02 settembre al 02 ottobre 2010
fotografia
Location
GALLERIA MASSIMO MININI
Brescia, Via Luigi Apollonio, 68, (Brescia)
Brescia, Via Luigi Apollonio, 68, (Brescia)
Orario di apertura
da lunedì a venerdì 10.30-19.30, sabato 15.30-19.30
Vernissage
2 Settembre 2010, ore 18
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