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Paul Thuile – Mi interessa la normalità
Le opere di Paul Thuile, fotografie eseguite per fissare i disegni realizzati dall’artista in luoghi fatiscenti, ribadiscono il primato del disegno su tutte le altre forme artistiche.
Comunicato stampa
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Paul Thuile. Il paese delle ultime cose
(di Sergio Risaliti)
Nella disputa tra le belle arti, a differenza di Leonardo e di Michelangelo fautori, uno del primato del pittore sullo scultore, l’altro del suo contrario, Pontormo attribuì ogni merito al disegno. A detta del Varchi, che intervistò i grandi artisti dell’epoca, Iacopo Carucci diceva “essere il disegno disciplina artistica di grado superiore a tutte le altre in quanto precedente ad esse”. Ovviamente l’artista faceva riferimento alla gestazione mentale e immaginativa. L’uomo, come dichiara un celebre mito, illustrato più e più volte dai pittori, ha sempre disegnato direttamente sulla parete. Lo stesso Apelle, il sommo artefice dell’antichità classica, disegnava ripassando le linee della propria ombra proiettata sulla parete del suo studio dalla luce di una candela. In altre storie invece ci si sofferma sugli inizi dell’arte figurativa, raccontando di disegni eseguiti sulla sabbia in riva al mare o su foglie cadute per terra. In questo caso il mito sottintende anche il suo rapporto con il carattere transeunte della realtà e con la stessa evanescenza del disegno. In realtà non esiste cosa più delicata di un tratto di matita, di una sfumatura, di un’ombra tratteggiata, di una lumeggiatura appena accennata, segni indifesi dall’aggressione del tempo che in un tentativo estremo di bloccare idee, emozioni, immagini si fissano su un foglio di carta, un supporto fragile, delicato, come sanno i restauratori, che conservano questi preziosi manufatti al riparo perfino della luce e dell’aria.
Le opere di Paul Thuile, fotografie eseguite per fissare i disegni realizzati dall’artista in luoghi fatiscenti, ribadiscono il primato del disegno su tutte le altre forme artistiche. Pure sulla stessa fotografia che qui si piega a servizio del disegno e del rapporto magico, melanconico, mentale, ma anche fisico, che intercorre tra il disegno di una cosa e di un luogo e la cosa stessa, il luogo stesso. Un rapporto che si gioca tutto sul confronto antico tra principio di realtà e desiderio di possesso delle sue forme appariscenti, possesso però tutto interiore, mentale e sentimentale, perché indirizzato verso la forma assoluta dal punto di vista soggettivo, la sola forma che in quel preciso istante in cui viene colta pare in grado di sopravvivere alla sua sparizione sottraendosi con uno slancio vitale alla distruzione operata dal tempo. Dunque Paul Thuile sembra ossessionato da certe categorie quali desiderio e possesso, prossimità e distanza, soggetto e oggetto, visione e riproduzione, immaginazione e percezione, oppure perdita e assenza. Egli fa una cosa molto semplice, eppure molto seria e poetica. Sceglie case, edifici abitati e disabitati, oppure in procinto di essere trasformati, risistemati, demoliti. Individua un punto, un dettaglio, uno scorcio e si avvicina alla parete quasi aderendo col corpo alla superficie muraria, all’intonaco. In quella posizione guarda quello che vede, ciò che rientra nel suo cono visivo, nell’orizzonte. Ovviamente la prospettiva è al limite dell’anamorfosi. Si ha l’impressione di diventare insetti, lucertole, animali che vedono strisciando sulle pareti, da un punto di vista che normalmente non è accessibile. O bambini che a volte giocano a isolarsi in punti strategici e non solo fanno conoscenza del mondo e degli oggetti assumendo posizioni strane, per esempio appiccicandosi al muro né più né meno come fa l’artista,: a volte lo fanno per avere più spazio sotto osservazione da una posizione di apparente isolamento e distacco. Vicino allo stipite di una porta, all’inizio di una scala, al bordo di una finestra, privilegiando soglie, scalini, angoli, altezze diverse, vicino ad una presa, ad un rubinetto, dietro ad una libreria, a ridosso di uno specchio, a pochi centimetri dal pavimento.
Il taglio è particolare, riesce a superare la possibilità tecnica e oltrepassa il limite di una visione frontale quella a cui invece si dedica l’occhio del fotografo chiamato sul posto a fissare, per l’appunto frontalmente, il disegno e in parte il soggetto stesso del disegno, una scala, una porta, un camino, una tavola imbandita, libri, prese elettriche, il pavimento, un lavandino, una finestra, un vaso di fiori, termosifoni.
A volte il rapporto è straniante: da quella posizione l’artista ha osservato quello che da un punto di vista frontale non si riesce a guardare.
La foto testimonia due mondi separati da una parete, da uno spazio: due mondi, quello reale e quello mentale, quello vissuto e l’altro, quello disegnato. In questi casi è come se il disegno ci precedesse, come se lo sguardo avanzasse prima del nostro corpo. Noi possiamo vedere al di là, oltre, spostando il nostro essere, noi stessi, in un punto o in una parte di quella casa dove ancora non ci troviamo, dove non ci troveremo mai, mai più. Quasi uscendo da noi stessi vediamo diversamente e ancor prima: a volte buchiamo addirittura le pareti, accediamo come fantasmi nei luoghi. In quei luoghi che tra poco non saranno più gli stessi o non sopraviveranno alla demolizione.
Immaginiamo Paul Thuile all’opera: appoggiandosi con la guancia alla parete l’artista si volta verso la stanza, da quella posizione dipinge esattamente quello che vede, o meglio quello che riesce a vedere o ha deciso di vedere, disegnandolo direttamente sulla parete a fianco del suo occhio. L’intonaco si presta all’operazione e assume la dimensione di tela, foglio di carta. L’opera in questo caso sta tra il graffito e l’affresco, ma la dimensione ridotta, lo avvicina più a quei disegni realizzati su taccuini da esploratori, viaggiatori, entomologhi, archeologi. A volte il disegno si trova a poca distanza dall’oggetto disegnato: la fotografia denuncia e immortala una relazione straniante tra la cosa vista frontalmente e l’immagine di quella stessa cosa così come l’ha disegnata l’artista guardandola da una posizione completamente altra da quella del fotografo. In questo caso mentre la fotografia sembra condannata all’oggettività e all’anonimato, al massimo della mimesis e della frontalità, il disegno invece è del tutto soggettivo, riproduce quello che qualcuno ha guardato, ci fa sentire addirittura il modo, la posizione del corpo, la direzione dello sguardo. La riproduzione manuale è il frutto di un’interpretazione soggettiva e non solo di un’analisi oggettiva, che invece spetta al mezzo tecnico condannato infatti all’imitazione, all’esatta riproduzione del dato reale. Eppure il confronto tra i due livelli di realtà, quella fotografica e quella del disegno è spietato: mai come di fronte ad un disegno la cosa, lo spazio, il luogo si fa reale, evidente, direi indimenticabile. La cosa disegnata si fa sentire oltre che vedere, perché, non solo la riconosciamo, ma invero la conosciamo primariamente sotto una forma che è la sua specifica, assoluta, ma è anche tuttavia la sua essenza diversa. Siamo, cioè, di fronte nello stesso istante alla cosa in sé e alla cosa percepita e disegnata nello stile soggettivo dell’artista. Ovvero, quella che ci sembra indimenticabile sono la cosa stessa e la sua “idea mentale”, la forma assoluta e quella relativa trasformate dall’arte in una nuova cosa.
Questo valore, o potere, è ancora più appariscente quando lo scorcio permette all’artista di vedere oltre, al di là dei limiti ai quali invece si deve arrendere l’occhio del fotografo posizionato di fronte. L’arte con un artificio ci sorprende di nuovo. Facendoci contemplare quello che non possiamo vedere, quello che non stiamo guardando. O perché ce lo mostra in un modo diverso o perché rappresenta un pezzo di mondo visibile che ci è impossibile vedere. A volte, infatti, si ha l’impressione che il disegno in realtà sfondi la parete aprendosi una finestra al di là del muro: allora è come se entrassimo nella stanza che sta dall’altra parte. In realtà invece stiamo “entrando” con lo sguardo solo dentro il disegno, all’interno di quel mondo. Siamo al di là dello specchio. Un’esperienza della realtà simile è più forte di ogni altra. Qui sorge la passione per il disegno o la pittura, qui inizia a farsi avvertire la malinconia che ogni rappresentazione lascia come strascico. Un sottofondo, qualcosa che sembra inscritto nel cuore stesso del primo disegno, e che ad ogni esperienza si ripete in chi lo esegue e in chi lo ammira. Il desiderio di possesso e il possesso della cosa assente o distante vissuto e esaudito attraverso un’emozione la cui forza non ha paragoni; appena riempie la mente e il cuore dell’artista invadendolo completamente lo lascia altrettanto immediatamente distaccandosene nel disegno. La cosa rappresentata e l’emozione adesso sono irreali, assenti, di nuovo irraggiungibili e intoccabili. Questo gioco doppio, e anodino, d’emozioni e percezioni, in fondo non fa che ricordarci la profonda malinconia dell’artista e il suo inesauribile desiderio per il mondo visibile e le sue forme.
L’amore per la cosa in sé e per la sua immagine. La scissione profonda, vertiginosa, insanabile tra soggetto, oggetto e sua rappresentazione. Di cui in questo caso la fotografia è pura e fredda testimone. Un triangolo amoroso durante il quale come scriverebbe Barthes qualcosa è stato, qualcosa non è più. In effetti la fotografia secondo il semiologo francese ci ricorda sempre la morte, la sparizione. Qui doppia, tripla. Sparizione del luogo, di quel luogo, come si presentava in quel momento, durante il quale l’artista ha fissato i contorni tremolanti col tratto di una matita direttamente su una parete un po’ scalcinata. Sparizione del disegno, che appunto è stato cancellato per sempre, distrutto assieme a quel mondo, a quel particolare, cose appartenute a qualcuno, oggetti vissuti assieme a qualcuno. Sì perché c’è anche questa nostalgia nei confronti del vissuto. Espressa senza enfasi, senza sentimentalismo. L’artista ci proietta nel mondo del vissuto titolando la foto e il disegno con l’indirizzo del luogo. A riprova che quella casa è esistita, è stata abitata. Un tempo. Per del tempo. Quella foto, quel disegno, in fondo, non rappresenterebbero che l’immagine di qualcosa che non c’è più: l’immagine e qualcosa che sono state fissate un attimo ancora prima della sparizione. Prima che tutto e tutti sparissero. In quel momento subentra la fotografia. Un rilancio misurato e severo nel gioco assurdo dell’arte e della vita: per rubare ancora un po’ di tempo e di spazio alla morte. Alla scomparsa del mondo vissuto e soprattutto dello sguardo. Di quell’esperienza emozionante, già da subito intrisa di malinconia, che è lo sguardo aurorale rivolto verso le cose, gli oggetti e il travaso formale animato da mille sentimenti e sfumature successive che è il disegno di quelle stesse cose, di quegli stessi oggetti.
Ancora una volta, come sempre, come da sempre, l’occhio e la mano si fanno sentire all’opera come non mai. Se di fronte alla pittura e alla scultura quasi ce ne dimentichiamo, e nel caso di una fotografia quasi non ci pensiamo, quando guardiamo un disegno guardiamo e sentiamo più cose, facciamo nostri più momenti della vita delle cose: la realtà, il disegno, i movimenti, le vibrazioni della mano e dell’occhio dell’artista, quel continuo spostamento da un piano all’altro della realtà: sul foglio, di fronte a sé, là davanti, oppure all’interno del proprio pensiero, nel fondo dei propri occhi. Ogni disegno è anche un tracciato, un racconto ulteriore, un opera a parte, tutta racchiusa in se stessa, vicina in un certo senso alla scrittura e alla musica. Queste fotografie ci mostrano intanto due mondi contigui e simili eppure assolutamente diversi e inconciliabili. Sul bianco del muro, sulla superficie ocra, avorio, o gialla della parete l’artista accostandosi il più possibile materializza un mondo più reale di quello vissuto. L’intonaco si apre come un quadro su uno spazio puramente astratto eppure flagrante, più vero del vero. Il disegno ha questa proprietà assoluta: catturare il visibile e l’invisibile, fissarlo nel mondo delle cose certe, duplicare la realtà, moltiplicare e rendere ancora più vero del vero gli oggetti, creando una parvenza di spazio e di mondo abitabile, certo, al di là della superficie bianca su cui si tracciano le linee, i contorni delle cose disegnate.
Nell’opera di Paul Thuile, il disegno, l’inquadratura, il piano concettuale e quello lirico, romantico ed esistenziale, si formalizzano infine attraverso la fotografia, che sola resta a testimoniare oltre che rappresentare ognuno di questi diversi momenti; opera conclusiva che silenziosamente e dignitosamente chiude il cerchio la fotografia certifica anche l’azione, il lato processuale del suo lavoro, l¹enviroment. Opera, velatamente malinconica, perché a ben vedere i livelli di realtà si guardano interrogandosi sul primato e sulla durata vicendevole, mettendo in discussione il valore di presenza oltre che di rappresentazione. La firma in ultima analisi, sempre apposta assieme all’¹indirizzo, coniuga vistosamente, l’autore e l’inquilino, al disegno e al motivo, mentre la fotografia, scattata da un terzo, presente e discreto, quasi assente, proietta in una dimensione astratta e anonima l¹immagine finale. Al tempo stesso però l’esito finale fotografico, testimoniale, rafforza il punto di partenza sentimentale su cui si è impegnato rigorosamente l’artista: il vissuto familiare, l’architettura degli interni e tutto ciò che in una casa fa mondo, vita, esistenza, e la sua inesorabile, silenziosa, sparizione.
Tornano infine alla mente le ultime frasi di un romanzo di Paul Auster. “Poi trova un foglio vergine. Lo stende sul tavolo davanti a sé e con la penna scrive queste parole. E’ stato. Non sarà mai più. Ricorda”. Ecco in cosa consiste l’etica della fotografia. Senza sentimentalismo essa ci dice, è stato, non sarà mai più, ricorda.
PAUL THUILE “Mi interessa la normalità”
In occasione del Salone Internazionale del Mobile e del Design, Photology è lieta di ospitare una selezione di opere recenti dell’artista altoatesino Paul Thuile. Il tema della percezione del quotidiano costituisce il nucleo centrale attorno al quale ruota il lavoro di Paul Thuile, in cui i meccanismi ricettivi vengono affrontati mediante un molteplice processo di straniamento. Il processo prende l’avvio da un oggetto osservato – il dettaglio di una vasca da bagno, uno scaffale, un citofono, un oggetto d’arredo qualsiasi – che viene riprodotto in un disegno scardinante tutte le regole della prospettiva lineare centrica. Questi disegni non vengono realizzati su un supporto cartaceo, ma vengono eseguiti direttamente sulle pareti degli ambienti. In un secondo momento, i disegni vengono fotografati da un fotografo professionista, Augustin Ochsenreiter, e costituiscono il prodotto finale del lavoro di Thuile.
In mostra, una selezione di 15 color print in formato cm. 125 x 100 e 88 x 70, prodotte in un’edizione di 3.
“Le fotografie mostrano le pareti di diversi appartamenti con i miei disegni.
Io sono un disegnatore.
Nel mio progetto disegno direttamente sulla parete ciò che incontro nell` appartamento: oggetti, spazi, viste, ecc. Quando disegno mi trovo vicinissimo alla parete ed all’oggetto che rappresento. Per questa ragione nascono rappresentazioni un poco deformate, come viste attraverso un obiettivo grandangolare.
Fotografo i disegni sulla parete accompagnandoli ad una parte dell’appartamento o agli oggetti raffigurati.
Le fotografie costituiscono il prodotto finale del mio lavoro. Gli spazi solitamente vengono ristrutturati o distrutti dopo il mio intervento e quindi vengono distrutti anche i miei disegni.
Il disegno alla parete rappresenta il mio punto di vista soggettivo.
La fotografia è la registrazione oggettiva delle mie esperienze.
La fotografia rappresenta uno sguardo integrativo.
La scelta dell’immagine fotografica è nuovamente soggettiva.”
Paul Thuile
(di Sergio Risaliti)
Nella disputa tra le belle arti, a differenza di Leonardo e di Michelangelo fautori, uno del primato del pittore sullo scultore, l’altro del suo contrario, Pontormo attribuì ogni merito al disegno. A detta del Varchi, che intervistò i grandi artisti dell’epoca, Iacopo Carucci diceva “essere il disegno disciplina artistica di grado superiore a tutte le altre in quanto precedente ad esse”. Ovviamente l’artista faceva riferimento alla gestazione mentale e immaginativa. L’uomo, come dichiara un celebre mito, illustrato più e più volte dai pittori, ha sempre disegnato direttamente sulla parete. Lo stesso Apelle, il sommo artefice dell’antichità classica, disegnava ripassando le linee della propria ombra proiettata sulla parete del suo studio dalla luce di una candela. In altre storie invece ci si sofferma sugli inizi dell’arte figurativa, raccontando di disegni eseguiti sulla sabbia in riva al mare o su foglie cadute per terra. In questo caso il mito sottintende anche il suo rapporto con il carattere transeunte della realtà e con la stessa evanescenza del disegno. In realtà non esiste cosa più delicata di un tratto di matita, di una sfumatura, di un’ombra tratteggiata, di una lumeggiatura appena accennata, segni indifesi dall’aggressione del tempo che in un tentativo estremo di bloccare idee, emozioni, immagini si fissano su un foglio di carta, un supporto fragile, delicato, come sanno i restauratori, che conservano questi preziosi manufatti al riparo perfino della luce e dell’aria.
Le opere di Paul Thuile, fotografie eseguite per fissare i disegni realizzati dall’artista in luoghi fatiscenti, ribadiscono il primato del disegno su tutte le altre forme artistiche. Pure sulla stessa fotografia che qui si piega a servizio del disegno e del rapporto magico, melanconico, mentale, ma anche fisico, che intercorre tra il disegno di una cosa e di un luogo e la cosa stessa, il luogo stesso. Un rapporto che si gioca tutto sul confronto antico tra principio di realtà e desiderio di possesso delle sue forme appariscenti, possesso però tutto interiore, mentale e sentimentale, perché indirizzato verso la forma assoluta dal punto di vista soggettivo, la sola forma che in quel preciso istante in cui viene colta pare in grado di sopravvivere alla sua sparizione sottraendosi con uno slancio vitale alla distruzione operata dal tempo. Dunque Paul Thuile sembra ossessionato da certe categorie quali desiderio e possesso, prossimità e distanza, soggetto e oggetto, visione e riproduzione, immaginazione e percezione, oppure perdita e assenza. Egli fa una cosa molto semplice, eppure molto seria e poetica. Sceglie case, edifici abitati e disabitati, oppure in procinto di essere trasformati, risistemati, demoliti. Individua un punto, un dettaglio, uno scorcio e si avvicina alla parete quasi aderendo col corpo alla superficie muraria, all’intonaco. In quella posizione guarda quello che vede, ciò che rientra nel suo cono visivo, nell’orizzonte. Ovviamente la prospettiva è al limite dell’anamorfosi. Si ha l’impressione di diventare insetti, lucertole, animali che vedono strisciando sulle pareti, da un punto di vista che normalmente non è accessibile. O bambini che a volte giocano a isolarsi in punti strategici e non solo fanno conoscenza del mondo e degli oggetti assumendo posizioni strane, per esempio appiccicandosi al muro né più né meno come fa l’artista,: a volte lo fanno per avere più spazio sotto osservazione da una posizione di apparente isolamento e distacco. Vicino allo stipite di una porta, all’inizio di una scala, al bordo di una finestra, privilegiando soglie, scalini, angoli, altezze diverse, vicino ad una presa, ad un rubinetto, dietro ad una libreria, a ridosso di uno specchio, a pochi centimetri dal pavimento.
Il taglio è particolare, riesce a superare la possibilità tecnica e oltrepassa il limite di una visione frontale quella a cui invece si dedica l’occhio del fotografo chiamato sul posto a fissare, per l’appunto frontalmente, il disegno e in parte il soggetto stesso del disegno, una scala, una porta, un camino, una tavola imbandita, libri, prese elettriche, il pavimento, un lavandino, una finestra, un vaso di fiori, termosifoni.
A volte il rapporto è straniante: da quella posizione l’artista ha osservato quello che da un punto di vista frontale non si riesce a guardare.
La foto testimonia due mondi separati da una parete, da uno spazio: due mondi, quello reale e quello mentale, quello vissuto e l’altro, quello disegnato. In questi casi è come se il disegno ci precedesse, come se lo sguardo avanzasse prima del nostro corpo. Noi possiamo vedere al di là, oltre, spostando il nostro essere, noi stessi, in un punto o in una parte di quella casa dove ancora non ci troviamo, dove non ci troveremo mai, mai più. Quasi uscendo da noi stessi vediamo diversamente e ancor prima: a volte buchiamo addirittura le pareti, accediamo come fantasmi nei luoghi. In quei luoghi che tra poco non saranno più gli stessi o non sopraviveranno alla demolizione.
Immaginiamo Paul Thuile all’opera: appoggiandosi con la guancia alla parete l’artista si volta verso la stanza, da quella posizione dipinge esattamente quello che vede, o meglio quello che riesce a vedere o ha deciso di vedere, disegnandolo direttamente sulla parete a fianco del suo occhio. L’intonaco si presta all’operazione e assume la dimensione di tela, foglio di carta. L’opera in questo caso sta tra il graffito e l’affresco, ma la dimensione ridotta, lo avvicina più a quei disegni realizzati su taccuini da esploratori, viaggiatori, entomologhi, archeologi. A volte il disegno si trova a poca distanza dall’oggetto disegnato: la fotografia denuncia e immortala una relazione straniante tra la cosa vista frontalmente e l’immagine di quella stessa cosa così come l’ha disegnata l’artista guardandola da una posizione completamente altra da quella del fotografo. In questo caso mentre la fotografia sembra condannata all’oggettività e all’anonimato, al massimo della mimesis e della frontalità, il disegno invece è del tutto soggettivo, riproduce quello che qualcuno ha guardato, ci fa sentire addirittura il modo, la posizione del corpo, la direzione dello sguardo. La riproduzione manuale è il frutto di un’interpretazione soggettiva e non solo di un’analisi oggettiva, che invece spetta al mezzo tecnico condannato infatti all’imitazione, all’esatta riproduzione del dato reale. Eppure il confronto tra i due livelli di realtà, quella fotografica e quella del disegno è spietato: mai come di fronte ad un disegno la cosa, lo spazio, il luogo si fa reale, evidente, direi indimenticabile. La cosa disegnata si fa sentire oltre che vedere, perché, non solo la riconosciamo, ma invero la conosciamo primariamente sotto una forma che è la sua specifica, assoluta, ma è anche tuttavia la sua essenza diversa. Siamo, cioè, di fronte nello stesso istante alla cosa in sé e alla cosa percepita e disegnata nello stile soggettivo dell’artista. Ovvero, quella che ci sembra indimenticabile sono la cosa stessa e la sua “idea mentale”, la forma assoluta e quella relativa trasformate dall’arte in una nuova cosa.
Questo valore, o potere, è ancora più appariscente quando lo scorcio permette all’artista di vedere oltre, al di là dei limiti ai quali invece si deve arrendere l’occhio del fotografo posizionato di fronte. L’arte con un artificio ci sorprende di nuovo. Facendoci contemplare quello che non possiamo vedere, quello che non stiamo guardando. O perché ce lo mostra in un modo diverso o perché rappresenta un pezzo di mondo visibile che ci è impossibile vedere. A volte, infatti, si ha l’impressione che il disegno in realtà sfondi la parete aprendosi una finestra al di là del muro: allora è come se entrassimo nella stanza che sta dall’altra parte. In realtà invece stiamo “entrando” con lo sguardo solo dentro il disegno, all’interno di quel mondo. Siamo al di là dello specchio. Un’esperienza della realtà simile è più forte di ogni altra. Qui sorge la passione per il disegno o la pittura, qui inizia a farsi avvertire la malinconia che ogni rappresentazione lascia come strascico. Un sottofondo, qualcosa che sembra inscritto nel cuore stesso del primo disegno, e che ad ogni esperienza si ripete in chi lo esegue e in chi lo ammira. Il desiderio di possesso e il possesso della cosa assente o distante vissuto e esaudito attraverso un’emozione la cui forza non ha paragoni; appena riempie la mente e il cuore dell’artista invadendolo completamente lo lascia altrettanto immediatamente distaccandosene nel disegno. La cosa rappresentata e l’emozione adesso sono irreali, assenti, di nuovo irraggiungibili e intoccabili. Questo gioco doppio, e anodino, d’emozioni e percezioni, in fondo non fa che ricordarci la profonda malinconia dell’artista e il suo inesauribile desiderio per il mondo visibile e le sue forme.
L’amore per la cosa in sé e per la sua immagine. La scissione profonda, vertiginosa, insanabile tra soggetto, oggetto e sua rappresentazione. Di cui in questo caso la fotografia è pura e fredda testimone. Un triangolo amoroso durante il quale come scriverebbe Barthes qualcosa è stato, qualcosa non è più. In effetti la fotografia secondo il semiologo francese ci ricorda sempre la morte, la sparizione. Qui doppia, tripla. Sparizione del luogo, di quel luogo, come si presentava in quel momento, durante il quale l’artista ha fissato i contorni tremolanti col tratto di una matita direttamente su una parete un po’ scalcinata. Sparizione del disegno, che appunto è stato cancellato per sempre, distrutto assieme a quel mondo, a quel particolare, cose appartenute a qualcuno, oggetti vissuti assieme a qualcuno. Sì perché c’è anche questa nostalgia nei confronti del vissuto. Espressa senza enfasi, senza sentimentalismo. L’artista ci proietta nel mondo del vissuto titolando la foto e il disegno con l’indirizzo del luogo. A riprova che quella casa è esistita, è stata abitata. Un tempo. Per del tempo. Quella foto, quel disegno, in fondo, non rappresenterebbero che l’immagine di qualcosa che non c’è più: l’immagine e qualcosa che sono state fissate un attimo ancora prima della sparizione. Prima che tutto e tutti sparissero. In quel momento subentra la fotografia. Un rilancio misurato e severo nel gioco assurdo dell’arte e della vita: per rubare ancora un po’ di tempo e di spazio alla morte. Alla scomparsa del mondo vissuto e soprattutto dello sguardo. Di quell’esperienza emozionante, già da subito intrisa di malinconia, che è lo sguardo aurorale rivolto verso le cose, gli oggetti e il travaso formale animato da mille sentimenti e sfumature successive che è il disegno di quelle stesse cose, di quegli stessi oggetti.
Ancora una volta, come sempre, come da sempre, l’occhio e la mano si fanno sentire all’opera come non mai. Se di fronte alla pittura e alla scultura quasi ce ne dimentichiamo, e nel caso di una fotografia quasi non ci pensiamo, quando guardiamo un disegno guardiamo e sentiamo più cose, facciamo nostri più momenti della vita delle cose: la realtà, il disegno, i movimenti, le vibrazioni della mano e dell’occhio dell’artista, quel continuo spostamento da un piano all’altro della realtà: sul foglio, di fronte a sé, là davanti, oppure all’interno del proprio pensiero, nel fondo dei propri occhi. Ogni disegno è anche un tracciato, un racconto ulteriore, un opera a parte, tutta racchiusa in se stessa, vicina in un certo senso alla scrittura e alla musica. Queste fotografie ci mostrano intanto due mondi contigui e simili eppure assolutamente diversi e inconciliabili. Sul bianco del muro, sulla superficie ocra, avorio, o gialla della parete l’artista accostandosi il più possibile materializza un mondo più reale di quello vissuto. L’intonaco si apre come un quadro su uno spazio puramente astratto eppure flagrante, più vero del vero. Il disegno ha questa proprietà assoluta: catturare il visibile e l’invisibile, fissarlo nel mondo delle cose certe, duplicare la realtà, moltiplicare e rendere ancora più vero del vero gli oggetti, creando una parvenza di spazio e di mondo abitabile, certo, al di là della superficie bianca su cui si tracciano le linee, i contorni delle cose disegnate.
Nell’opera di Paul Thuile, il disegno, l’inquadratura, il piano concettuale e quello lirico, romantico ed esistenziale, si formalizzano infine attraverso la fotografia, che sola resta a testimoniare oltre che rappresentare ognuno di questi diversi momenti; opera conclusiva che silenziosamente e dignitosamente chiude il cerchio la fotografia certifica anche l’azione, il lato processuale del suo lavoro, l¹enviroment. Opera, velatamente malinconica, perché a ben vedere i livelli di realtà si guardano interrogandosi sul primato e sulla durata vicendevole, mettendo in discussione il valore di presenza oltre che di rappresentazione. La firma in ultima analisi, sempre apposta assieme all’¹indirizzo, coniuga vistosamente, l’autore e l’inquilino, al disegno e al motivo, mentre la fotografia, scattata da un terzo, presente e discreto, quasi assente, proietta in una dimensione astratta e anonima l¹immagine finale. Al tempo stesso però l’esito finale fotografico, testimoniale, rafforza il punto di partenza sentimentale su cui si è impegnato rigorosamente l’artista: il vissuto familiare, l’architettura degli interni e tutto ciò che in una casa fa mondo, vita, esistenza, e la sua inesorabile, silenziosa, sparizione.
Tornano infine alla mente le ultime frasi di un romanzo di Paul Auster. “Poi trova un foglio vergine. Lo stende sul tavolo davanti a sé e con la penna scrive queste parole. E’ stato. Non sarà mai più. Ricorda”. Ecco in cosa consiste l’etica della fotografia. Senza sentimentalismo essa ci dice, è stato, non sarà mai più, ricorda.
PAUL THUILE “Mi interessa la normalità”
In occasione del Salone Internazionale del Mobile e del Design, Photology è lieta di ospitare una selezione di opere recenti dell’artista altoatesino Paul Thuile. Il tema della percezione del quotidiano costituisce il nucleo centrale attorno al quale ruota il lavoro di Paul Thuile, in cui i meccanismi ricettivi vengono affrontati mediante un molteplice processo di straniamento. Il processo prende l’avvio da un oggetto osservato – il dettaglio di una vasca da bagno, uno scaffale, un citofono, un oggetto d’arredo qualsiasi – che viene riprodotto in un disegno scardinante tutte le regole della prospettiva lineare centrica. Questi disegni non vengono realizzati su un supporto cartaceo, ma vengono eseguiti direttamente sulle pareti degli ambienti. In un secondo momento, i disegni vengono fotografati da un fotografo professionista, Augustin Ochsenreiter, e costituiscono il prodotto finale del lavoro di Thuile.
In mostra, una selezione di 15 color print in formato cm. 125 x 100 e 88 x 70, prodotte in un’edizione di 3.
“Le fotografie mostrano le pareti di diversi appartamenti con i miei disegni.
Io sono un disegnatore.
Nel mio progetto disegno direttamente sulla parete ciò che incontro nell` appartamento: oggetti, spazi, viste, ecc. Quando disegno mi trovo vicinissimo alla parete ed all’oggetto che rappresento. Per questa ragione nascono rappresentazioni un poco deformate, come viste attraverso un obiettivo grandangolare.
Fotografo i disegni sulla parete accompagnandoli ad una parte dell’appartamento o agli oggetti raffigurati.
Le fotografie costituiscono il prodotto finale del mio lavoro. Gli spazi solitamente vengono ristrutturati o distrutti dopo il mio intervento e quindi vengono distrutti anche i miei disegni.
Il disegno alla parete rappresenta il mio punto di vista soggettivo.
La fotografia è la registrazione oggettiva delle mie esperienze.
La fotografia rappresenta uno sguardo integrativo.
La scelta dell’immagine fotografica è nuovamente soggettiva.”
Paul Thuile
14
aprile 2004
Paul Thuile – Mi interessa la normalità
Dal 14 aprile al 05 giugno 2004
arte contemporanea
Location
GALLERIA PHOTOLOGY
Milano, Via Della Moscova, 25, (Milano)
Milano, Via Della Moscova, 25, (Milano)
Orario di apertura
11,00-19,00 continuato, chiuso domenica e lunedì
Vernissage
14 Aprile 2004, dalle ore 18 alle ore 24
Autore