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Per una esegesi della complessità: il segno dei quattro
Quattro artisti, quattro modi profondamente diversi di affrontare la comune missione dell’arte, una missione esigente, come sanno molto bene i nostri ermeneuti, soprattutto in una realtà dove l’arte agli occhi dei più è vanità, nel senso qoheletiano del termine hèvel, un fiato che non sembra avere grande importanza, un vapore che si dissolve presto, ma che, dal sorgere dell’umanità, non cessa di mostrare tutta la sua forza, oltre il tempo e lo spazio.
Comunicato stampa
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Per una esegesi della complessità: il segno dei quattro
Quattro artisti, quattro modi profondamente diversi di affrontare la comune missione dell’arte, una missione esigente, come sanno molto bene i nostri ermeneuti, soprattutto in una realtà dove l’arte agli occhi dei più è vanità, nel senso qoheletiano del termine hèvel, un fiato che non sembra avere grande importanza, un vapore che si dissolve presto, ma che, dal sorgere dell’umanità, non cessa di mostrare tutta la sua forza, oltre il tempo e lo spazio.
Opportunamente ha scritto recentemente Maurizio Calvesi: “Può ormai assomigliare, l’arte, a quel gioco di centri concentrici che produce il sasso nell’acqua. Intorno al punto di impatto, si formano circoli dal lineamento sempre più tenue, finché si perde come acqua nell’acqua. Dal centro di questa liquida planimetria ci si può allontanare verso altre zone, rimanendo nel territorio dell’arte, purché in quella zona i circoli lascino ancora un segno. Il che non sempre avviene.”
La ricerca qui proposta di Mario Artioli Tavani è uno sguardo disincantato alle consuetudini, agli usi ed agli abusi della contemporaneità, quel tempo definito postmoderno che, come l’artista ci ricorda, da un lato è il tempo del «falso benessere», dall’altro è il tempo degli intrighi, un tempo a cui solo «l’albero della cultura» può garantire la sopravvivenza, in una rinnovata palingenesi da cui le mani, forse dell’artista, sicuramente dell’umanità, si aggrappano all’uovo della «creazione» nel tentativo di uscire da esso e dare vita ad una nuova era, in una lettura al contempo affascinante ed avvincente, dove ognuno ritrova il suo cammino, ciascuno percorre il suo itinerarium mentis, ricercando le finalità di ogni agire, di ogni essere nel mondo.
Si tratta, infatti, di una valenza spaziotemporale dove le opere agganciano l’eternità e la meta-spazialità, in una sorta di tempo senza tempo e spazio senza spazio che lasciano al fruitore dell’opera ampia libertà di immaginazione e di movimento interpretativo, nella consapevolezza che l’uomo vive in un presente che non riesce a conservare il passato e non sa orientarsi nel futuro, mentre l’artista vero medita sulla perdita delle tradizioni, dei legami sociali, sulla mancanza di orientamento, sul divenire superfluo dell’uomo stesso.
Ed ecco allora che interviene l’arte, secondo una nota tesi di Günther Anders: “Tutto ciò che è venturo è già qui, presso di noi, poiché dipende da noi”.
Ed è per questo motivo che in queste opere aleggia, per vie ed in forme diverse, il fantasma della bellezza, anche dove essa sembra essere assente, perché ci troviamo di fronte a quel di più gnoseologico che prova, pur lallando, ad effettuare una ermeneutica della complessità, che sembra essere, «Il falso benessere» lo mostra in modo decisamente plastico, solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato e dove l’arte diventa “un rifugio al sistema e alle strutture del mondo, una forma di preghiera in questo massacro tecnologico privo di sentimento e di passione”- sottolinea Radu Dragomirescu.
Chi, come Anne Brechbühl, ha una particolare dimestichezza con le tecniche della grafica come la xilografia e la calcografia e che lavora in vari “ateliers” di artisti e di stampatori d’arte importanti con numerose mostre personali e collettive nazionali e internazionali di grafica e di ex-libris, conosce perfettamente l’arte di formare matrici incidendo linee, segni ed immagini su lastre metalliche per trarne poi la stampa e la riproduzione in tiratura mediante idonei sistemi, ma con una profonda ispirazione legata ad una ermeneutica della vita che si manifesta sovente attraverso un simbolo principale, quello della scala.
La scala, da un lato simbolo della vita, dai gradini sempre troppo alti per le nostre corte gambe, dall’altro simbolo dell’artista che, in modo neoromantico, manifesta quella sensucht, quella aspirazione all’infinito che poi, come nelle opere presentate, è anche frammentazione del finito e del fenomenico, con quel recupero postmoderno dell’immanente e del trascendente che il volto femminile tra le mani così bene simboleggia.
A volte un afflato elegiaco pervade la ricerca dell’artista, consapevole, come detto, dell’imperfezione dell’esistenza, così plasticamente rappresentata dalle figure geometriche e dagli spazi franti.
L’artista affronta, poi, il problema della visione del tempo che tende ad appiattirsi inesorabilmente sulla contemporaneità, nella consapevolezza che non vi è più una concezione totale della storia ma vi sono differenti storie, che contribuiscono all’interruzione della continuità del tempo, nella amara convinzione che il presente del postmoderno è un presente che non ha più memoria storica del passato e non progetta più un futuro, con quello che si può definire schiacciamento sull’immediato, sulla moda, sulla novità fine a se stessa.
Caty Fiol manifesta nelle sue opere una sensibilità particolare che produce una visione delle cose e della realtà che origina da un centro di esternazione formidabile: l’anima e i suoi stati emozionali, dove l’artista si immerge come un rinnovato palombaro dello spirito, effettuando straordinarie estroiettazioni di magma psichico, dove il colore domina incontrastato in una finta dimensione fenomenica che altro non è che il luogo della coscienza, seppure mimetizzato nel paesaggio.
L’artista sa perfettamente che l’arte, mai come oggi, è uno strumento di conoscenza e ogni artista, l’artista vero, estroietta sulla tela, sul tondo di ceramica, sul sacco di canapa, sulla carta, sul cartone, su di una colonna di cartongesso, insomma dove e come meglio crede, i sentimenti, le emozioni, le ansie, le gioie, le tristezze che si sedimentano nell’anima e che l’ispirazione fa eruttare nell’opera d’arte, monomio-binomio inscindibile di questa società definita postmoderna, nella quale l’uomo perde sé stesso, l’artista perde sé stesso, dopo la fine delle grandi narrazioni, dopo la morte dei grandi valori di riferimento.
Prova ne è la figura dello “spaventapasseri”, emblema perfetto dell’artista che sa che il mistero presente dell’esistenza è qui ed ora, ma è rivolto altrove.
Come colpisce l’immagine della «Croce», vista da un particolarissimo punto di vista: l’artista non si ferma all’analisi della realtà fenomenica come atomo opaco del male, regno del male e della sofferenza, anche se l’esperienza umana è sempre drammatica, tesa com’è tra la libertà e la singolarità.
«La Croce», in questo particolare contesto, testimonia la drammaticità del vissuto che si fa ancora più evidente quando la storia diviene guerra, terrore, morte, sopraffazione, ingiustizia, quando le ragioni della non-ragione hanno la meglio.
Il principio disperazione non deve però prevalere nell’ermeneutica del divenire storico, perché, sono parole di Luis Cabrera de Cordoba, “colui che prende in considerazione attentamente la storia dei tempi antichi e ne conserva l’insegnamento, è illuminato sulle cose future, dal momento che esiste un unico genere umano”.
Ogni opera di Gianfranco Zazzeroni è una intensa partecipazione alla vita, una identificazione panica di una totalità fisica e psichica, come è stato giustamente detto.
Ma è nel particolare che l’artista assume l’universale, è nella dimensione fenomenica che introietta le grandi verità del mondo, a volte nascoste nei «frammenti di un arcobaleno» o nei meandri dell’«orchidea» che sempre incarna quel meraviglioso “magma della vita” a cui Zazzeroni ha dedicato una preziosa meditazione, partecipando a processi di disvelamento, non credendo che la vita sia quella che si vede.
L’artista estroietta ciò che prova, quasi un’eco profonda dello “scrivo quel che mi attraversa” professato da Nazim Hikmet, accostando a volte la sua preziosa sensibilità alle dimensioni precipue della natura, dove manifesta e forse ritrova nel contempo emozioni, sentimenti, sguardi malinconici o di gioia di chi sa che la realtà vera è sotto il velo di Maja, perché l’artista, mutuando le bellissime parole della compianta Alda Merini, “interroga il mondo intero e le sue incertezze, come se la frontiera della sua storia stesse al di là dei fiori...”
Zazzeroni guarda, decostruisce, destruttura, e poi ricompone alla luce della sua visione del mondo, della sua inchiesta esegetica, che rende con precisi tratti, padroneggia con il chiaro intento di proporre una personale visione di quell’attimo spazio-temporale che fissa il momento di una stagione o l’istante di una relazione con l’alterità che alla fine è il vero senso della vita.
Poetica dell’attimo e del silenzio, della luce e del colore, visione di un istante che viene fissato nell’opera d’arte e si fa bellezza, attrazione, come testimonia l’etimologia greca della parola bello, perché “la bellezza risplende nel cuore di colui che ad essa aspira più che negli occhi di colui che la vede”, sostiene in modo esaustivo Khalil Gibran.
Massimo Pasqualone
Quattro artisti, quattro modi profondamente diversi di affrontare la comune missione dell’arte, una missione esigente, come sanno molto bene i nostri ermeneuti, soprattutto in una realtà dove l’arte agli occhi dei più è vanità, nel senso qoheletiano del termine hèvel, un fiato che non sembra avere grande importanza, un vapore che si dissolve presto, ma che, dal sorgere dell’umanità, non cessa di mostrare tutta la sua forza, oltre il tempo e lo spazio.
Opportunamente ha scritto recentemente Maurizio Calvesi: “Può ormai assomigliare, l’arte, a quel gioco di centri concentrici che produce il sasso nell’acqua. Intorno al punto di impatto, si formano circoli dal lineamento sempre più tenue, finché si perde come acqua nell’acqua. Dal centro di questa liquida planimetria ci si può allontanare verso altre zone, rimanendo nel territorio dell’arte, purché in quella zona i circoli lascino ancora un segno. Il che non sempre avviene.”
La ricerca qui proposta di Mario Artioli Tavani è uno sguardo disincantato alle consuetudini, agli usi ed agli abusi della contemporaneità, quel tempo definito postmoderno che, come l’artista ci ricorda, da un lato è il tempo del «falso benessere», dall’altro è il tempo degli intrighi, un tempo a cui solo «l’albero della cultura» può garantire la sopravvivenza, in una rinnovata palingenesi da cui le mani, forse dell’artista, sicuramente dell’umanità, si aggrappano all’uovo della «creazione» nel tentativo di uscire da esso e dare vita ad una nuova era, in una lettura al contempo affascinante ed avvincente, dove ognuno ritrova il suo cammino, ciascuno percorre il suo itinerarium mentis, ricercando le finalità di ogni agire, di ogni essere nel mondo.
Si tratta, infatti, di una valenza spaziotemporale dove le opere agganciano l’eternità e la meta-spazialità, in una sorta di tempo senza tempo e spazio senza spazio che lasciano al fruitore dell’opera ampia libertà di immaginazione e di movimento interpretativo, nella consapevolezza che l’uomo vive in un presente che non riesce a conservare il passato e non sa orientarsi nel futuro, mentre l’artista vero medita sulla perdita delle tradizioni, dei legami sociali, sulla mancanza di orientamento, sul divenire superfluo dell’uomo stesso.
Ed ecco allora che interviene l’arte, secondo una nota tesi di Günther Anders: “Tutto ciò che è venturo è già qui, presso di noi, poiché dipende da noi”.
Ed è per questo motivo che in queste opere aleggia, per vie ed in forme diverse, il fantasma della bellezza, anche dove essa sembra essere assente, perché ci troviamo di fronte a quel di più gnoseologico che prova, pur lallando, ad effettuare una ermeneutica della complessità, che sembra essere, «Il falso benessere» lo mostra in modo decisamente plastico, solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato e dove l’arte diventa “un rifugio al sistema e alle strutture del mondo, una forma di preghiera in questo massacro tecnologico privo di sentimento e di passione”- sottolinea Radu Dragomirescu.
Chi, come Anne Brechbühl, ha una particolare dimestichezza con le tecniche della grafica come la xilografia e la calcografia e che lavora in vari “ateliers” di artisti e di stampatori d’arte importanti con numerose mostre personali e collettive nazionali e internazionali di grafica e di ex-libris, conosce perfettamente l’arte di formare matrici incidendo linee, segni ed immagini su lastre metalliche per trarne poi la stampa e la riproduzione in tiratura mediante idonei sistemi, ma con una profonda ispirazione legata ad una ermeneutica della vita che si manifesta sovente attraverso un simbolo principale, quello della scala.
La scala, da un lato simbolo della vita, dai gradini sempre troppo alti per le nostre corte gambe, dall’altro simbolo dell’artista che, in modo neoromantico, manifesta quella sensucht, quella aspirazione all’infinito che poi, come nelle opere presentate, è anche frammentazione del finito e del fenomenico, con quel recupero postmoderno dell’immanente e del trascendente che il volto femminile tra le mani così bene simboleggia.
A volte un afflato elegiaco pervade la ricerca dell’artista, consapevole, come detto, dell’imperfezione dell’esistenza, così plasticamente rappresentata dalle figure geometriche e dagli spazi franti.
L’artista affronta, poi, il problema della visione del tempo che tende ad appiattirsi inesorabilmente sulla contemporaneità, nella consapevolezza che non vi è più una concezione totale della storia ma vi sono differenti storie, che contribuiscono all’interruzione della continuità del tempo, nella amara convinzione che il presente del postmoderno è un presente che non ha più memoria storica del passato e non progetta più un futuro, con quello che si può definire schiacciamento sull’immediato, sulla moda, sulla novità fine a se stessa.
Caty Fiol manifesta nelle sue opere una sensibilità particolare che produce una visione delle cose e della realtà che origina da un centro di esternazione formidabile: l’anima e i suoi stati emozionali, dove l’artista si immerge come un rinnovato palombaro dello spirito, effettuando straordinarie estroiettazioni di magma psichico, dove il colore domina incontrastato in una finta dimensione fenomenica che altro non è che il luogo della coscienza, seppure mimetizzato nel paesaggio.
L’artista sa perfettamente che l’arte, mai come oggi, è uno strumento di conoscenza e ogni artista, l’artista vero, estroietta sulla tela, sul tondo di ceramica, sul sacco di canapa, sulla carta, sul cartone, su di una colonna di cartongesso, insomma dove e come meglio crede, i sentimenti, le emozioni, le ansie, le gioie, le tristezze che si sedimentano nell’anima e che l’ispirazione fa eruttare nell’opera d’arte, monomio-binomio inscindibile di questa società definita postmoderna, nella quale l’uomo perde sé stesso, l’artista perde sé stesso, dopo la fine delle grandi narrazioni, dopo la morte dei grandi valori di riferimento.
Prova ne è la figura dello “spaventapasseri”, emblema perfetto dell’artista che sa che il mistero presente dell’esistenza è qui ed ora, ma è rivolto altrove.
Come colpisce l’immagine della «Croce», vista da un particolarissimo punto di vista: l’artista non si ferma all’analisi della realtà fenomenica come atomo opaco del male, regno del male e della sofferenza, anche se l’esperienza umana è sempre drammatica, tesa com’è tra la libertà e la singolarità.
«La Croce», in questo particolare contesto, testimonia la drammaticità del vissuto che si fa ancora più evidente quando la storia diviene guerra, terrore, morte, sopraffazione, ingiustizia, quando le ragioni della non-ragione hanno la meglio.
Il principio disperazione non deve però prevalere nell’ermeneutica del divenire storico, perché, sono parole di Luis Cabrera de Cordoba, “colui che prende in considerazione attentamente la storia dei tempi antichi e ne conserva l’insegnamento, è illuminato sulle cose future, dal momento che esiste un unico genere umano”.
Ogni opera di Gianfranco Zazzeroni è una intensa partecipazione alla vita, una identificazione panica di una totalità fisica e psichica, come è stato giustamente detto.
Ma è nel particolare che l’artista assume l’universale, è nella dimensione fenomenica che introietta le grandi verità del mondo, a volte nascoste nei «frammenti di un arcobaleno» o nei meandri dell’«orchidea» che sempre incarna quel meraviglioso “magma della vita” a cui Zazzeroni ha dedicato una preziosa meditazione, partecipando a processi di disvelamento, non credendo che la vita sia quella che si vede.
L’artista estroietta ciò che prova, quasi un’eco profonda dello “scrivo quel che mi attraversa” professato da Nazim Hikmet, accostando a volte la sua preziosa sensibilità alle dimensioni precipue della natura, dove manifesta e forse ritrova nel contempo emozioni, sentimenti, sguardi malinconici o di gioia di chi sa che la realtà vera è sotto il velo di Maja, perché l’artista, mutuando le bellissime parole della compianta Alda Merini, “interroga il mondo intero e le sue incertezze, come se la frontiera della sua storia stesse al di là dei fiori...”
Zazzeroni guarda, decostruisce, destruttura, e poi ricompone alla luce della sua visione del mondo, della sua inchiesta esegetica, che rende con precisi tratti, padroneggia con il chiaro intento di proporre una personale visione di quell’attimo spazio-temporale che fissa il momento di una stagione o l’istante di una relazione con l’alterità che alla fine è il vero senso della vita.
Poetica dell’attimo e del silenzio, della luce e del colore, visione di un istante che viene fissato nell’opera d’arte e si fa bellezza, attrazione, come testimonia l’etimologia greca della parola bello, perché “la bellezza risplende nel cuore di colui che ad essa aspira più che negli occhi di colui che la vede”, sostiene in modo esaustivo Khalil Gibran.
Massimo Pasqualone
02
agosto 2013
Per una esegesi della complessità: il segno dei quattro
Dal 02 al 15 agosto 2013
arte contemporanea
Location
CASA NATALE DI RAFFAELLO
Urbino, Via Raffaello, 57, (Pesaro E Urbino)
Urbino, Via Raffaello, 57, (Pesaro E Urbino)
Vernissage
2 Agosto 2013, h 17.30
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