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Percorsi del Novecento romano in 70 opere della Galleria Comunale d’Arte Moderna
Un’occasione unica per ammirare le più importanti opere della collezione della Galleria Comunale d’Arte Moderna che, a causa dei complessi lavori di ristrutturazione della sede di Via Crispi, negli ultimi anni i visitatori non hanno avuto occasione di vedere. Importanti testimonianze della cultura e dell’arte italiana della prima metà del Novecento in circa settanta dipinti
Comunicato stampa
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Una preziosa occasione per ammirare alcune delle opere più importanti della collezione della Galleria Comunale d’Arte Moderna che, a causa dei complessi lavori di ristrutturazione della sede di Via Crispi, negli ultimi anni i visitatori non hanno avuto occasione di vedere. Istituita nel 1925 come museo civico volto a documentare l’arte contemporanea, la Galleria possiede una raccolta unica di opere che permette di seguire con continuità le tendenze e gli umori dell’arte italiana nella sua storia più recente.
Percorsi del Novecento romano presenta una selezione di circa settanta dipinti e sculture, importanti testimonianze della cultura e dell’arte italiana della prima metà del Novecento, esposte dal 31 marzo al 4 luglio 2010 al Casino dei Principi di Villa Torlonia. La mostra è curata dalla Galleria Comunale d’Arte Moderna e promossa dall’Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione del Comune di Roma - Sovraintendenza ai Beni Culturali. Organizzazione e servizi museali sono di Zètema Progetto Cultura.
Sono presenti in mostra alcuni capolavori quali Il dubbio (1907) di Giacomo Balla, Ortensie (1911) di Enrico Lionne, Il vestito viola (1923) di Camillo Innocenti, Serenità (1925) di Felice Carena, Il Cardinal Decano (1930) di Scipione, Combattimento di gladiatori (1933-1934) di Giorgio de Chirico, Donne che si spogliano (1934) di Mario Mafai, Palestra (Bagnanti) (1934-1935) di Fausto Pirandello, Marinaio nello spazio (1934) di Enrico Prampolini, La famiglia (1927) di Mario Sironi, Il pastore (1930) di Arturo Martini.
Accanto a queste opere di eccezionale pregio e forza visiva, ne figurano altre mai esposte finora, anch’esse pienamente significative dell’ambiente culturale e artistico romano della prima metà del Novecento.
Attraverso cinque sezioni la mostra conferma ancora una volta il ruolo di grande officina culturale della città di Roma, divenuta capitale dello Stato italiano.
Sezione I – Secessione e Divisionismo: il percorso tocca i momenti più emozionanti dell’arte a Roma nei primi decenni del secolo: accanto agli esiti italiani del post-impressionismo, che in Balla preludono alla rivoluzione futurista, sono presentati, attraverso opere di Amedeo Bocchi, Ferruccio Ferrazzi, Antonio Mancini, alcuni degli episodi più interessanti della Secessione, movimento culturale degli anni Dieci e frattura inquieta rispetto all’arte ufficiale e accademica.
Sezione II – Classicismo: viene esposta, per la prima volta a Roma, la grande tela di Felice Carena, Serenità, opera del 1925 caposaldo dell’attività dell’artista. Vi ruotano intorno, in una vivace contrapposizione, alcune opere del fronte classicista romano, toscano e milanese accanto alle posizioni teoriche espresse dalle opere di Giorgio de Chirico e Gino Severini.
Sezione III – Aeropittura futurista: seppur non interamente, è esposto il nucleo dei dipinti del Secondo Futurismo presente in collezione. Visioni dall’alto, proporzioni distorte, velocità e movimento, cromie dissonanti figurano nelle opere di Tato, Sante Monachesi, Tullio Crali accanto alla componente onirica dei dipinti di Enrico Prampolini.
Sezione IV – Scuola Romana: viene presentata una selezione assolutamente limitata del patrimonio artistico degli anni Trenta presente nella collezione. Le felici acquisizioni capitoline di quel periodo hanno infatti costituito una raccolta di straordinario pregio per l’arte italiana dove accanto alla Scuola di Via Cavour, in questa occasione presentata con alcuni dei capolavori di Scipione e di Mafai, figurano le opere altrettanto importanti del Tonalismo romano, rappresentato da Emanuele Cavalli, Giuseppe Caporossi, Guglielmo Janni, Fausto Pirandello, Roberto Melli, del Realismo Magico con i paesaggi di Antonio Donghi, nonché di altri protagonisti, come Renato Guttuso, Carlo Levi, Giorgio Morandi, del vivacissimo ambiente artistico italiano di quegli anni.
Sezione V – Scultura: il percorso attraversa l’intera mostra interessando, con una selezione ovviamente limitata, la produzione plastica italiana, romana in particolare, dal finire degli anni Dieci al finire degli anni Quaranta. Opere note, come il Busto femminile di Nicola D’Antino, inedite come la Testa di donna di Teresa Berring, mai presentate a Roma come il Busto (Ritratto di giovinetta ) del giovane Ettore Colla, si affiancano ai capolavori di Arturo Dazzi, Marino Marini e Arturo Martini provenienti dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, nuovamente e felicemente proposti nel contesto della collezione originaria.
Cura della mostra e del catalogo: Maria Elisa Tittoni, Maria Catalano, Federica Pirani, Cinzia Virno.
Catalogo: Gangemi Editore. Saggi di Giovanna Bonasegale, Maria Catalano, Federica Pirani, Cinzia Virno.
Artisti a Roma tra Secessione e istanze divisioniste
Cinzia Virno
I dipinti presenti in questa prima parte dell’esposizione appartengono tutti a maestri italiani del Novecento che, nel primo trentennio del secolo si muovono in ambito romano. Il sottile filo conduttore che li unisce, pur nelle sostanziali differenze tematiche e stilistiche è la partecipazione, più o meno attiva, alle istanze secessioniste sia nella loro accezione più vasta e prossima agli originari movimenti mitteleuropei, sia a quel movimento che, nato nel 1912, prende il nome di “ Secessione romana” e alle relative esposizioni che si tengono nella Capitale dal 1913 al 1917.
L’ondata secessionista arriva in Italia nel 1910, quando altrove si va ormai spegnendo, e all’Esposizione Internazionale per il cinquantenario di Roma, del 1911, se ne avverte fortemente l’impatto anche in virtù della partecipazione di artisti quali Klimt, e Franz von Stuck.
Gli intenti del gruppo dei secessionisti romani, sono quelli dichiarati nel breve assunto riportato sul catalogo della Seconda Esposizione, nel 1914, ribadito anche nelle edizioni successive: “La Mostra accoglierà ogni aspirazione ed ogni tecnica purchè nobile e degna: pitture, sculture, disegni, incisioni ed oggetti d’arte decorativa. Secondo le norme del proprio Statuto, la Secessione desidera inoltre incoraggiare particolarmente ogni manifestazione d’arte giovanile, anche la più audace, purchè attraverso la novità si affermi l’intimo senso di persuasione artistica e la sincerità d’intendimenti dell’autore1”.
Di fatto, accanto agli autori più giovani, figurano ancora molti artisti della “vecchia guardia”, in buona parte provenienti dalle fila degli Amatori e Cultori e diversi nomi, anche di rilievo, a volte non romani, ma certamente legati alla tradizione ottocentesca, come Carlandi, Boldini e gli scultori Bistolfi e Troubetzkoy al quale la prima mostra della Secessione dedica una personale con 88 pezzi2.
La maggior parte dei partecipanti alle esposizioni, non mostra, in realtà la volontà di rompere con il passato e le tendenze più innovative, almeno se riferite al panorama romano, riguardano le scelte divisioniste e quelle legate alle istanze simboliste e jugendstil. Le prime introdotte a Roma da Giacomo Balla, fondamentale tramite con la pittura del nord, da Pellizza a Morbelli; le seconde dipendenti direttamente dalle correnti nordeuropee, da Klimt e dal decorativismo dei Nabis.
Il divisionismo, come fenomeno del nord Italia, tema ampiamente indagato da Annie Paule Quinsac3, ha la connotazione di un linguaggio sperimentale, ma in qualche modo autonomo, rispetto ai precedenti e contemporanei esiti raggiunti dagli artisti francesi. Di questi rifiuta in particolare l’assoluto rigore scientifico, comunque subordinato ad una ricerca pittorica vissuta interiormente e mediata dal pensiero, come dimostra quanto Previati scrive nel 1890, al fratello Giuseppe: “…Mi sono persuaso che finora non ero riuscito a mostrare interamente sulla tela le idee che mi passavano per la mente, non perché l’idea io non l’avessi chiara ma per un erroneo criterio del fine che si deve raggiungere con l’arte, il quale fine è puramente e semplicemente l’espressione di queste idee nel modo più efficace e più assomigliante alla propria impressione”4.
Tra i pittori divisionisti del nord, come rileva Aurora Scotti, la personalità di Angelo Morbelli, “è forse quella che ha goduto per tutto il secolo XX di una maggiore linearità se non continuità di fama5”, anche grazie alla scelta di precise tematiche del vero affini alla cultura e alla società settentrionali.
Dal 1890 Morbelli partecipa più volte alle esposizioni degli Amatori e Cultori di Roma e, nel 1913, vi presenta Angolo di giardino (tav. 8). Realizzato con una sapiente tecnica divisionista, che il pittore utilizza sin dall’inizio degli anni Novanta, rappresenta il giardino dell’artista alla Colma di Rosignano nel Monferrato, soggetto a lui particolarmente caro e ripreso anche in un quadro analogo presso la Pinacoteca Provinciale di Bari. Come evidenzia quest’opera, il divisionismo di Morbelli, utilizzato come mezzo per indagare il vero, è concepito come una fitta trama di pennellate sovrapposte che qui, in particolare, delineano il suolo assolato in primo piano e le forme arrotondate degli alberi aprendo la veduta su un orizzonte vasto e indefinito.
Inizialmente vicino a Morbelli e alle ricerche di Pellizza da Volpedo, si colloca Giacomo Balla che, torinese di nascita lascia la città natale per trasferirsi a Roma nel 1895. Le prime opere divisioniste del pittore risalgono al 1897. Se ne rintraccia qualche primo effetto, in opere di derivazione impressionista come Luci di marzo, sebbene non ancora supportato dai principi rigorosi cui si rifarà più avanti6. il soggiorno a Parigi tra il 1900 e i 1901, gli consente di affinarne la tecnica, attraverso la conoscenza della pittura impressionista e dei secessionisti europei presenti all’Esposizione Universale.
Nei primi anni del secolo Balla, affianca a tele e pastelli realizzati con la tecnica divisionista notturni e interni spesso resi attraverso un’inquadratura particolare, assimilabile all’obiettivo fotografico. è in questa fase che si colloca Il dubbio (tav. 3) sorta di “istantanea” dal taglio ravvicinato realizzata dal pittore ad olio su carta. Il volto e il busto della donna ritratta, in equilibrio tra le tenebre ed una luce quasi accecante che la coglie alle spalle, è quello della moglie Elisa. La sua espressione è catturata mentre volge la testa, indirizzando lo sguardo verso lo spettatore con fare ammiccante. Il dipinto è esposto alla mostra degli Amatori e Cultori del 1908 dove Balla presenta anche due opere divisioniste: il trittico a monocromo del Maggio e un cielo notturno: Orione, oltre ad un pastello in bianco e nero che ritrae Lo scultore Enoch Glicenstein. Nell’accezione di una nuova esperienza diretta della visione e della sua resa attraverso la scomposizione della pennellata, è dunque Balla che, a Roma, apre la strada al divisionismo e alle tematiche di natura intimista ad esso connesse.
Nel 1910, com’è noto, l’artista firma il Manifesto dei pittori futuristi con Boccioni, Carrà, Severini e Russolo. Tre anni più tardi, mentre espone alla mostra dei futuristi nel ridotto del Teatro Costanzi, è presente alla Prima mostra della Secessione, non come artista espositore, bensì come membro del Consiglio Direttivo. Per l’occasione realizza anche, ad acquerello i bozzetti per il manifesto della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna), che però non vengono utilizzati, forse, perché come ipotizza Pasqualina Spadini, “troppo originali per l’uso al quale erano destinati7”. Di fatto Balla non espone le sue opere né a questa né alle edizioni successive della Secessione romana.
Distante dalle tematiche divisioniste, estraneo anche alle suggestioni postimpressioniste e nordeuropee è il solitario percorso di Antonio Mancini sebbene nella tecnica pittorica sia da riconoscere uno degli elementi fondamentali del suo fare arte. L’unica mostra secessionista alla quale partecipa è quella del 1914. Vi presenta La cucitrice, realizzata in quello stesso anno ed acquistata per l’occasione, con il fondo Müller, dall’Accademia Nazionale di San Luca. A quella data Mancini è un artista ormai affermato a livello internazionale. Il successo ottenuto all’Esposizione Internazionale del 1911 aveva rafforzato la sua fama, per certi versi più vasta all’Estero che in Italia, soprattutto grazie ai suoi “mecenati” stranieri come il pittore e collezionista olandese Hendrik Wilhelm Mesdag e l’antiquario tedesco Otto Messinger, nonché ai diversi viaggi compiuti in Inghilterra e in Germania nel primo decennio del secolo. Anche nel periodo in cui partecipa alla citata Secessione, Mancini è sotto la protezione di un collezionista straniero. Si tratta dell’industriale di origini francesi Fernand Du Chéne de Vère che gli mette a disposizione la villa Jacobini di Frascati. Qui, legato da un contratto, l’artista risiede, in una sorta di eremo, dal 1911 al 1918.
Mancini non era tra tra le giovani leve cui fa riferimento il regolamento della mostra, e la sua partecipazione ha più che altro il senso di includere anche alcuni pittori italiani di fama conclamata. Inoltre, ai vertici dell’organizzazione, comparivano diversi personaggi a lui strettamente legati, come i suoi collezionisti, Cavalier Ippolito Bondi e ingegner Roberto Almagià, membri del Comitato di patronato, nonché i pittori Camillo Innocenti ed Enrico Lionne, tra i suoi più attenti seguaci, facenti ambedue parte sia del Consiglio Direttivo che della Giuria8. La cucitrice, è appunto esemplificativa di quanto l’artista va realizzando già dalla seconda metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, ovvero lo studio della figura che vuole rendere, come egli stesso definisce, “grande al vero”, nei suoi più attenti rapporti spaziali, compositivi e cromatici. Per questa ragione, com’è noto adotta l’espediente del “doppio reticolo”, consistente nel sovrapporre due griglie di fili, uguali tra loro, una al modello e una alla tela, per poi dipingere focalizzando l’attenzione, riquadro per riquadro. Un simile modo di operare, che lascia spesso tracce evidenti sull’opera, è lontano dalle ricerche divisioniste. L’artista persegue l’unità compositiva e cromatica del soggetto, senza alcun riscontro di carattere scientifico e basandosi esclusivamente sulla sua sensazione visiva. Tale modalità perdura in Mancini fin quasi alla fine della sua vita ed è riscontrabile anche nelle opere degli anni Venti in cui dipinge quasi esclusivamente i membri della sua famiglia. Ne è un esempio Enrica in viola, (tav. 12), ritratto della nipote, a grandezza naturale, realizzato dall’artista intorno al 1920. Recentemente acquisito presso gli eredi del pittore, il dipinto, quasi un monocromo tra il rosso e il violaceo, dalla materia densa e vibrante, è una di quelle sinfonie di colori puri che l’artista predilige e che avrà tanto seguito tra gli artisti più giovani9.
Cogliendone in particolare l’aspetto materico e il vivace cromatismo guardano infatti a Mancini diversi pittori operanti a Roma nella prima metà del Novecento. Oltre ai citati Innocenti e Lionne, anche Armando Spadini, pittore toscano di nascita, che si trasferisce nella capitale nel 1910.
Tutti interessati allo studio dei rapporti tra colore e luce, i primi due insieme ad Arturo Noci, approdano poi ad un divisionismo di matrice borghese e intimista, mentre Spadini, oltre che nel paesaggio, trova nei ritratti di famiglia la sua vena più felice.
La partecipazione di questi artisti, piuttosto vicini in quanto ad intenti pittorici, alle varie edizioni della Secessione romana è molto assidua. Il ruolo più importante è quello assunto da Camillo Innocenti, già adepto dei XXV della Campagna romana, che è tra i primi ad aderire al sodalizio secessionista, all’interno del quale è anche membro del Consiglio direttivo. è lui, fra l’altro, ad assumersi il compito di convogliare le opere di artisti stranieri, specie francesi come Renoir, Cezanne, Matisse, perché siano esposte alle mostre secessioniste10. A quella del 1914, la stessa dove è presente Mancini, ha una sala individuale con 19 pezzi realizzati con tecnica divisionista. Tra questi La sultana, raffinata immagine di donna nuda mollemente adagiata su un giaciglio, che viene acquistata dal Comune di Roma11. Lo scritto di Gabriel Mourey riportato sul catalogo dell’esposizione, ben delinea il carattere della sua pittura: “… Egli ama le combinazioni ardite, le armonie complesse, gli accordi raffinati delle mezze tinte e dei toni; egli eccelle nel notare le sensazioni visuali preziose e impreviste; egli ha delle magnifiche audacie per fissare gli elementi di luce più sottili e più eccezionali e a tradurne la passeggera seduzione12 “. Tuttavia la vena divisionista e con essa la pittura di ricercati ambienti borghesi si andranno nel tempo esaurendo. Il vestito viola (tav. 4), luminoso ritratto di donna seduta in un interno, dipinto nel 1923, è esposto alla Biennale romana in quello stesso anno con opere ormai diverse, ispirate alle terre arabe. Due anni dopo, il suo trasferimento al Cairo, come professore dell’Accademia locale di Belle Arti, decreterà definitivamente la fine di questo percorso, avviando la sua attività verso un lento declino.
Enrico Lionne, forse per la comune formazione napoletana, è quello che di Mancini maggiormente apprezza le audacie cromatiche, a volte le dissonanze, che si rendono evidenti in molte delle sue opere. L’artista, trasferitosi nella capitale nel 1885, dopo una prima esperienza da illustratore si dedica definitivamente alla pittura, divenendo, sullo scorcio del secolo, un deciso sostenitore della tecnica divisionista della quale accoglie i criteri scientifici attraverso lo studio della teoria dei colori di Rood. Presente a tutte le esposizioni della Secessione, nel 1913 e nel 1914, progetta anche le decorazioni rispettivamente, delle Sale 6 e 413.
Dopo un iniziale orientamento verso i soggetti popolari e romani, dipinge nature morte e si sofferma sugli interni borghesi della Belle époque, resi con una pittura gioiosa, libera, vibrante, di vaga ascendenza postimpressionista e Nabis. Spesso ripete soggetti simili con minime varianti, sempre attento ai problemi della luce e del colore, come si riscontra nell’audace natura morta di Ortensie (tav.9) presentata all’esposizione internazionale di Roma nel 1911; quasi un pendant dei due vasi di rose in Fiori d’autunno, esposto alla Terza Secessione. Analoghi confronti possono essere fatti tra Violette (tav. 2) presente con altre 4 opere alla Prima delle mostre secessioniste e L’Attesa, della Galleria Civica d’Arte Moderna Giannoni di Novara14 che, sebbene di sei anni più tarda, ricalca l’impostazione generale della mondana figura femminile con grande cappello, sensualmente adagiata su una poltrona.
Pur partendo da premesse comuni, diversi sono gli intenti e la tecnica adottati da Armando Spadini. Per l’artista toscano la prima mostra della Secessione è anche la prima esposizione ufficiale cui prende parte. Vi presenta, fra l’altro, Figure (La Colazione), realizzato nel 1911, che viene acquistato dal Ministero della pubblica Istruzione per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna 15. All’edizione del ’15 ha una sala individuale con dieci opere. Tra queste Sotto la pergola, acquistata dal Comune di Roma16 e La famiglia.
Queste opere insieme ad altre coeve come Bambini con ventaglio della Galleria Nazionale d’arte moderna e Gruppo di famiglia sotto gli archi17 (tav. 5) sono tutte realizzate tra il 1913 e il 1914 ed hanno per soggetto la famiglia del pittore. Quest’ultima si differenzia dalle altre, soprattutto per l’ambientazione esterna e per il taglio verticale della composizione. Lo scenario è la scala della villa ai Parioli dove l’artista, con la sua famiglia, si era da poco trasferito. Alle immagini familiari ben si adatta la gamma chiara dei colori adottati e la tecnica che sfuma le figure rendendole quasi rarefatte. Difatti la pittura di Spadini, in questi anni, si evolve sempre più verso una disgregazione dei contorni, carattere sottolineato anche da Lancellotti a proposito delle sue opere più recenti presenti all’ultima delle mostre secessioniste: “… son dipinte a toni esaltati nella trasparenza dell’atmosfera e non definiscono la forma con nessun particolare ma solo con la massa del colore.18”
Altro interprete dell’arte a Roma, in questi anni, è Arturo Noci, paesaggista e raffinato pittore intimista, definito da Maurizio Fagiolo dell’Arco “ Divisionista aristocratico19”. Nel 1904, mentre aderisce al nascente gruppo dei XXV della Campagna romana, nella sua opera affiora l’interesse per il ritratto e per il corpo femminile in relazione all’ambiente, orientamento che ne fa uno dei più espliciti artisti della vita moderna. Le sue opere divisioniste si collocano a partire da questo periodo e fino al 1914 anno in cui, insieme a due paesaggi20, presenta alla Secessione, un ritratto femminile in un interno: L’arancio (tav. 11) Lo scenario dell’opera è un ambiente piuttosto scarno. Una poltrona, ed un quadro appeso al muro sono gli unici elementi che descrivono, nella sua essenzialità, una stanza medio borghese. Il soggetto è una donna, ben vestita e pettinata alla moda, che pare essere in posa. Seduta sul bracciolo, guarda verso l’osservatore mentre sbuccia un arancio. Il dipinto è realizzato con una pennellata regolare ed attenta ed una gamma cromatica pacata, volta a sottolineare il momento di solitaria intimità domestica. Dell’opera si conosce anche uno studio della testa, reso con la medesima tecnica, in collezione privata a Roma. Tuttavia la stagione divisionista di Noci a quell’epoca è quasi terminata. Partecipe, oltre che del Consiglio Direttivo, di tutte e quattro le esposizioni secessioniste, già a quella del 1916, con Il Ritratto del conte Greppi, dimostra di aver abbandonato questa tecnica optando poi per un ritorno ad una più realistica pittura di paesaggio.
Ben diversa dai pittori divisionisti che esaltano la mondanità, un po’ superficiale, di certi soggetti, è l’attività del parmense Amedeo Bocchi. A Roma dal 1902 risente del fascino di artisti, come De Carolis e Sartorio e interessandosi al rapporto tra figura e ambiente naturale. Il suo è un realismo“ lirico” non privo di qualche fuggevole richiamo Jugendstil, almeno nelle opere dei primi anni Dieci, come Il Ritratto di signora con cappello nero, 21 dove gli elementi decorativi a rilievo nel fondo, ricoperti di foglia d’argento, rimandano direttamente al decorativismo di Klimt. In questo senso l’artista appare avvicinabile alle tematiche secessioniste, sebbene il suo nome non sia presente in nessuna delle esposizioni romane. Nel 1919, periodo in cui dipinge Nel parco (tav. 1), Bocchi, a Roma, è un personaggio isolato. Opera dalla struttura compositiva e coloristica inedita, per l’arte italiana, questo dipinto, è realizzato a Villa Strohl Fern dove il pittore risiede dal 1905. Dai colori vivi e dissonanti e dal forte impatto emotivo, sembra rievocare, nei toni, l’espressionismo tedesco di Nolde, mentre la luce incombente come un riflettore sulla figura, ricorda la modalità di certe inquadrature cinematografiche, che proprio Sartorio, in quegli anni, andava sperimentando. In seguito l’artista abbandonerà questa strada ritornando, per molti versi, alle originarie istanze decorative a lui derivanti dalla pratica dell’affresco, e avvicinando la sua ricerca a quella di Ferrazzi.
Quest’ultimo pittore, dalla complessa personalità, é avvezzo oltre che all’affresco, alle tecniche più diverse come dimostra anche il recupero dell’antica pratica dell’encausto. Intorno al 1910 realizza opere di grandi dimensioni, di ascendenza simbolista, vagamente dipendenti da Previati e Segantini. Tuttavia non rinuncia mai ad una solida costruzione delle figure di matrice classica. Alla Secessione del 1913 è presente con Genitrice, di chiara derivazione segantiniana. Ma in quello stesso periodo nasce in lui l’attrazione per la pittura di Cezanne e Matisse.
è soprattutto il primo, la cui opera è approfondita dall’artista nel corso del suo viaggio in Svizzera nel 1916, ad essere assunto come punto di riferimento per la sua ricerca pittorica negli anni Dieci.22. è in questa fase che ritroviamo le prime opere dedicate alle “ Sette sale”, tema da lui particolarmente amato e ampiamente trattato negli anni successivi. Si tratta di un soggetto più volte ripreso dal suo studio romano al Colle Oppio. Ma se nelle prime opere il tema è affrontato con spirito, appunto, “cezanniano”, reso attraverso una pennellata libera e una costruzione spaziale quasi geometrica, sulla quale si innesta qualche richiamo all’espressionismo tedesco, ben diverso è il risultato al quale approda negli anni Venti, abbandonato ormai ogni riferimento al divisionismo e alle avanguardie europee. è quanto si rileva in Orti e baracche alle Sette Sale del 1925 (tav. 14), quasi un paesaggio idilliaco nel quale si riaffaccia la componente simbolista, rivisitata attraverso un plasticismo pittorico di matrice classica. Questi elementi, pur nella assoluta distanza del soggetto sono visibili anche in Frammento di composizione (tav. 13) di qualche anno precedente. L’opera, esposta alla Biennale romana del 1923, è il frammento, appunto, di una composizione più grande, La vita gaia, realizzata dall’artista in due versioni. La composizione del dipinto, con le due figure ravvicinate, una delle quali un nudo di spalle, esalta il carattere allegorico, della scena, rafforzato dalla presenza di elementi dalla valenza alchemica quali lo specchio e l’ampolla di vetro; mentre i toni chiari e la pennellata costruttiva, data per ampie campiture, richiamano la pittura italiana del Quattrocento.
Lo stesso iniziale interesse di Ferrazzi per Cezanne e gli impressionisti, nonché per la pittura dei fauve, si riscontra anche in Primo Conti, sebbene con esiti completamente diversi. Artista toscano, eccezionalmente precoce, studia la pittura dei macchiaioli. A soli tredici anni, espone con successo le sue opere a Firenze, dove peraltro entra in contatto con i futuristi: Soffici, Marinetti, Palazzeschi, Papini. Attratto dalle più esplicite audacie cromatiche secessioniste, partecipa, quindicenne, alla Terza mostra della Secessione romana, con La via della ninna a Firenze, Rapporti e una Natura morta23. Lo stile della sua pittura già delineato in questa fase, alterna i riferimenti liberty, simbolisti e futuristi a quelli più esplicitamente espressionisti di matrice fauve.
Da questo momento, e fino alla fine degli anni Venti, il suo intento è quello di esprimere per mezzo dell’arte, il sentimento della modernità attraverso la vivacità dei colori e una pennellata sintetica, quasi asciutta. è in quest’epoca che dipinge Liung – Juk ( Firenze, Palazzo Pitti), l’inusuale ritratto di una governante cinese, vestita in abiti imperiali con il quale, nel 1924, vince il Premio Ussi. L’opera è esposta l’anno successivo alla Terza Biennale romana, dove l’artista ha una personale con otto pezzi, tra cui, oltre a quello citato, La Borghese di Canton (Raccolta Contini Bonacossi) ed un terzo ritratto di donna cinese: Siao Tai Tai 24 (tav. 7). In quest’ultima, analogamente all’altra opera, la donna è ritratta seduta, leggermente di tre quarti, mentre guarda verso l’esterno. Come è stato giustamente rilevato, l’impostazione della figura contempla un impianto verticale – piramidale, riscontrabile anche in altri dipinti del pittore realizzati negli anni Venti25. Anche in questo caso la donna indossa un vistoso abbigliamento cinese e sulla testa porta una sorta di turbante con perle e pietre preziose . Tutti questi elementi, oltre al ventaglio che la cinese tiene in mano, rendono il quadro un tripudio di colore, coraggiosa testimonianza di ricercata modernità venata di esotismo.
Noto al pubblico romano per la sua partecipazione all’Esposizione Internazionale di Roma del 1911, nonché “Cultore” della Società Amatori e Cultori il piemontese Felice Casorati, nel 1913 partecipa alla Prima Secessione romana con il “Gruppo Zanetti Zillia”. Si presenta con un dipinto, Il sogno del melograno26, totalmente divisionista nella tecnica e dalla forte carica simbolica. Difatti, prima di dare avvio alla sua nota fase metafisica, il pittore attraversa un non breve periodo ispirato alle tendenze nordeuropee. Il nutrito gruppo di opere che espone quello stesso anno presso Ca’ Pesaro a Venezia, suscita le critiche di alcuni artisti “capesariani” tra cui Gino Rossi e Arturo Martini, che disapprovano: “le accezioni simboliste e le suggestioni klimtiane27” insite nel suo linguaggio. Tale polemica lo porta ad una fase di graduale revisione critica e ad un cambiamento di direzione a livello tecnico e iconografico. Quando partecipa alla Secessione del 1914, espone 5 xilografie ed ha una sala personale con 13 pezzi tra dipinti e sculture. Tra questi, oltre a quelli di gusto liberty, si affacciano opere dai toni diversi come Scherzo (uova); Scherzo (fiordalisi), Scherzo (Marionette)28.
Temi della sua pittura sono pressocchè costantemente la figura e la natura morta dove gli elementi desunti dal quotidiano subiscono un processo di semplificazione compositiva e di stilizzazione formale. è quanto si osserva in Albergo di provincia (tav. 15) una sinfonia di bianco, nero e grigio, realizzata nel 1927 ed esposta con altre sette opere alla biennale veneziana l’anno successivo. L’opera ben esemplifica il nuovo modo di intendere la natura morta cui Casorati perviene in questi anni. La tecnica di per sé adottata, la tempera su tavola, ha il sapore di una citazione dall’antico. Il vassoio e le ciotole che vi sono poggiate, sono visti dall’alto. La sagoma scura del primo si staglia nettissima, tra il merletto di una tenda e lo schienale di una sedia. L’insolito punto di vista il contatto quasi troppo ravvicinato con gli oggetti del quadro, creano una sorta di intimità con l’osservatore rendendolo partecipe della silenziosa atmosfera dell’opera.
Il carattere evocativo di un soggetto completamente diverso ma altrettanto intrigante è certamente riscontrabile in Scene di vita romana di Umberto Bottazzi (tav. 6). Dipinto nel 1930, è quasi una “Sacra rappresentazione”, un silenzioso raduno di donne eleganti che si svolge in un “salotto” all’aperto, presso la Fontana delle Tartarughe in piazza Mattei. è un’opera di una romanità dichiarata della tarda attività di questo poliedrico artista che, pittore, illustratore, decoratore e architetto, morirà soltanto due anni più tardi.
Dipinta con rara maestria, specie nella cura degli abiti delle figure, rivela la propensione per il decorativismo che caratterizza il percorso di Bottazzi fin dagli esordi. Sua è la decorazione della quinta Sala Internazionale alla Secessione romana del 191329, con motivi d’argento, mentre nel 1914 e 1915 espone rispettivamente due incisioni e delle vetrate nella sezione architettura.
Legato a Grassi e Cambellotti, con i quali, peraltro, fonda la rivista “La casa” che accoglie con entusiasmo le teorie secessioniste, Bottazzi rappresenta uno dei principali interpreti delle correnti decorativiste e liberty strettamente legate ambiente romano30.
Documentato a Roma dal 1899 dove giunge dalla Liguria, è Antonio Discovolo, allievo di Giovanni Fattori e Nino Costa e, tramite quest’ultimo, partecipe negli anni giovanili del cenalo di “In Arte Libertas”. Dopo l’esperienza “naturalista”, si cimenta nel dominio del reale, a contatto con le terre e il mare della sua regione, dando vita ad ariose tele delle quali luce e colore divengono il tema dominante. Partecipa attivamente al clima culturale romano frequentando il cenacolo di artisti che si riuniva al Caffè Aragno, da Balla a Colemann, a Biseo, e prende parte alle Esposizioni degli Amatori e Cultori, esponendo quasi ininterrottamente, dal 1900 al 1910 e, successivamente, nel 1923, 1927 e 1930.
La sua partecipazione a tutte e quattro le edizioni della Secessione romana mette in luce alcuni aspetti della sua esperienza divisionista evidenti in opere come Riposo acquistata dal Comune di Roma alla Secessione del ‘17. Un’esperienza che peraltro aveva già toccato il suo apice negli anni tra il 1902 e il 1907, anche grazie al rapporto diretto con Plinio Nomellini, già ai tempi della Boheme di Torre del Lago, e poi a Roma con Lionne.
Nell’introduzione al catalogo della mostra personale di Discovolo alla Galleria Pesaro nel 1922, Raffaele Calzini traccia della personalità dell’artista, un quadro preciso: “… è un pittore di sensibilità moderna che non disdegna la tecnica e la maniera antica, che passa dal vero all’immaginario, e dalla pittura di paese alla pittura di ritratti sempre con le stesse qualità di disegno e di colore. La monotonia d’intonazione di alcune sue tele è più apparente che reale: ogni quadro sviluppa un motivo, affronta un problema tecnico per risolverlo... A veder raccolta l’opera di Antonio Discovolo, si direbbe che tutta la disperante inquietudine artistica che caratterizza il primo ventennio del nostro secolo non l’ha turbato né corroso: egli è rimasto fedele non al proprio programma; ma al proprio temperamento. Si vede subito ch’egli non ha un programma, ch’egli appartiene a quella schiera di artisti “felici” che operano senza preoccupazioni teoriche e senza fisime rivoluzionarie…”31. L’assenza di inquietudine artistica cui fa riferimento Calzini è esplicitata in un percorso in cui i cambiamenti di natura stilistica, più che tematica, avvengono con gradualità e senza nette prese di posizione. Tuttavia, l’elemento costante del suo fare arte sarà sempre il sentimento della natura che nel tempo si orienta gradualmente, verso un lirismo di vaga ascendenza nordica e bockliniana come si osserva in La ninfa addormentata (tav. 10) opera ormai lontana dall’esperienza divisionista, presente alla citata mostra alla Galleria Pesaro e realizzata nel 1922, quando è ormai da tempo ritornato a dipingere nello stimolante ambiente delle Cinque Terre.
NOTE
1Seconda mostra Internazionale d’arte della “ Secessione”, Roma 1914, Catalogo illustrato, Prima edizione, Roma, Tipografia dell’Unione Editrice, 1914, p. 15.
2 Prima Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione”, Roma 1913, Tipografia dell’Unione, Roma 1913. pp. 59-62.
3 Si veda: A. P. Quinsac, La peinture divisionniste italienne – Origines et premiers développements, / 1880 – 1895, Editions Klincksieck, Paris 1972.
4 Lettera di Gaetano Previati al fratello Giuseppe, 24 settembre 1890, in Archivi del divisionismo / Raccolti e ordinati da Teresa Fiori, saggio introduttivo di F. Bellonzi, Officina Edizioni, Roma 1968, p. 246.
5 A. Scotti, Luce, Colore, realtà e simbolo nella pittura di Morbelli in Angelo Morbelli tra realismo e divisionismo, Fondazione De Fornaris – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino, 7 febbraio – 25 aprile 2001, Edizioni GAM, Torino 2001, p. 11.
6 Si veda la scheda dell’opera di F. Pirani in Divisionismo romano, mostra a cura di L. Stefanelli Torossi, catalogo M. T. Benedetti, presentazione di F. Bellonzi, contributi critici di autori vari, Roma, Galleria Arco Farnese, 20 gennaio – 31 marzo 1989, pp. 58-59 ripr.
7 In Secessione Romana 1913-1916, a cura di R. Bossaglia – M. Quesada – P. Spadini, Roma, Palazzo Venezia 4 – 28 giugno 1987, Roma, Fratelli Palombi Editori, 1987, scheda 3 p. 285
8Seconda mostra Internazionale d’arte “Della Secessione”, 1914, cit. pp. 7, 9, 13.
9 Sulle notizie relative all’opera si veda: C. Virno, La collezione Mancini della Galleria Comunale d’Arte Moderna: qualche riflessione sulla tarda attività dell’artista, in “ Bollettino dei Musei Comunali di Roma, nuova Serie, XV, 2001, pp. 155 – 162 ( in particolare pp. 158-161).
10 P. in In Secessione Romana 1913 – 1916, cit, 1987, p. 296.
11 Lo stesso Comune di Roma acquisterà alla quarta esposizione della Secessione (1916-1917) , un’altra opera di Innocenti: Sogno, rubata nel 1922. Ibidem.
12 G. Mourey, in Seconda mostra Internazionale d’arte “Della Secessione”, 1914, cit., p. 31.
13 Realizzate la prima da Vincenzo Costantini e Gualtiero Gherardi,; la seconda da Edgardo Gambo. Cfr. Prima Esposizione Internazionale d’Arte della” della Secessione”, 1913, cit. p. 33 e Seconda mostra Internazionale d’arte “della Secessione”, 1914, cit., p. 15.
14 Da Segantini a Balla / Un viaggio nella luce, a cura di M. Vescovo, Torino, Palazzo Cavour 3 dicembre 1999 – 27 febbraio 2000, p. 142 n. 53 ripr.
15 Si veda: Galleria Nazionale d’Arte Moderna / Le collezioni / Il XX secolo, a cura di S. Pinto, Mondadori Electa, Milano 2005, p. 81, n. 5.8. v.
16 Si veda G. Tamburri, in I Catalogo Generale della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, a cura di G. Bonasegale, Roma, De Luca, 1994, pp. 442-444. n. 118 ripr.
17 Acquistata presso la Biennale Veneziana del 1926. Ibidem, pp. 444-446, n. 119 ripr.
18 A. Lancellotti, Cronachetta Artistica / La IV Mostra Internazionale della “ Secessione”, in “ Emporium”, vol. XLV, n. 265, gennaio 1917, p. 296 (pp. 298-303).
19 M. Fagiolo, P. Spadini, L. Djokic, Arturo Noci / Dal divisionismo al realismo, Galleria Campo dei Fiori, 7, Roma, Febbraio 1966, p. 15.
20 Si tratta delle opere: Paesaggio (Burano) e Il Cantiere dei Sandoli (Terracina).
21 L’opera, del 1914, attualmente in collezione privata, è una delle più note dell’artista. Si veda: Amedeo Bocchi / La luce della bellezza e della vita vera, a cura di L. Caramel, Parma, 11 marzo – 27 maggio 2007, p. 133 n. 29, tav. 29.
22 Come ricorda Ragghianti, un catalogo del pittore francese, portato nello zaino di soldato, accompagnò il giovane Ferrazzi in Sardegna nel 1917 . Ferruccio Ferrazzi, saggi introduttivi di C. L. Raggianti e J. Recupero, schede a cura di N. Cerroni Ferrazzi, Officina Edizioni, Roma, 1974, p. 20
23 Terza Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione”, Roma 1915, Catalogo Illustrato, terza Edizione, Roma, Tipografia dell’Unione editrice, 1915, p. 19.
24 Si veda dell’opera l’approfondita scheda di T. Zambrotta in: G. Bonasegale, 1994, cit., pp. 263-266, n. 32, ripr.
25 Ibidem.
26 Prima Esposizione Internazionale d’Arte della “ Secessione”, 1913, cit. p. 51, n. 9, tav. XXXV.
27 P. Spadini, in Secessione Romana 1913 – 1916….1987, cit. p. 290.
28 Seconda mostra Internazionale d’arte della” Secessione”, 1914, cit. p. 42.
29Prima Esposizione Internazionale d’Arte della “ Secessione”, 1913, cit. p. 28.
30 Si veda in proposito il fondamentale saggio di Gloria Raimondi al quale si rimanda per eventuali approfondimenti: G. Raimondi, Umberto Bottazzi, artista e architetto romano (1865 – 1932), in “Studi romani”, anno XLVIII, nn. 3-4, Dicembre – Luglio 2000, pp. 408 – 414.
31 R. Calzini, in Mostra individuale del Pittore Antonio Discovolo, Milano, Galleria Pesaro, novembre 1922, pp. 5-6.
Breve storia della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma
Maria Elisa Tittoni
Segnata da solenni inaugurazioni, da lunghe chiusure, da dispersioni delle collezioni e fortunosi recuperi la ormai quasi secolare storia della Galleria comunale d’arte moderna e contemporanea di Roma vede ora con questa mostra una ulteriore riaffermazione della sua importanza e del suo prestigio per la comprensione delle vicende dell’arte a Roma in special modo nei primi cinquanta anni del secolo scorso.
D’altro canto questo era già l’assunto del ruolo assegnato alla Galleria al momento della sua prima inaugurazione nel 1925 nelle luminose sale del Museo Mussolini a Palazzo Caffarelli in Campidoglio dove vennero sistemate le opere moderne “di notevole pregio” acquistate dal Comune a partire dal 1883 nelle diverse esposizioni tenutesi a Roma e, ricorrente destino, disperse nei magazzini o negli uffici.
Acquisti importanti erano stati fatti alle mostre, da quelle della Società degli Amatori e Cultori, all’ Esposizione Internazionale di Belle Arti nel 1911, delle Esposizioni della Secessione romana dal 1913 al 1916 a quelle degli Acquerellisti e delle tre edizioni della Biennale Romana nel 1921 1923 e 1925.
In quella occasione l’allora direttore dei Musei Settimo Bocconi ribadiva nelle pagine di “Capitolium” la necessità che il Comune non dovesse “disinteressarsi alle moderne manifestazioni artistiche” e che “l’opera così degnamente iniziata” dovesse essere “portata a quell’altezza che le tradizioni artistiche del Campidoglio richiedono”.
A questo scopo Bocconi sottolineava l’esigenza per la Galleria di uno sviluppo costante attraverso l’integrazione di “opere di quegli artisti che ora non figurano e che per la loro fama o che per la nuova tendenza che rappresentano non possono mancare in una collezione d’ arte moderna”.
Dopo solo tre anni, nel 1928, la Galleria venne chiusa per riaprire nel 1931 sempre in Campidoglio: alla sua nuova sistemazione provvide Antonio Muñoz. Se nel 1925 la opere erano disposte in sei sale, Muñoz ebbe invece a disposizione dodici sale e una vasta terrazza per il “completo riordinamento della Galleria Mussolini” dalla quale l’anno precedente erano già stati eliminati i 120 acquerelli della “Roma sparita” di Roesler Franz a favore dell’appena costituito Museo di Roma.
Nelle pagine di “Capitolium” Muñoz spiegava le ragioni del riordinamento dovute sia all’acquisizione di trenta opere di Vincenzo Gemito sia agli acquisti intervenuti dopo il 1925 in particolare le settanta opere – fra dipinti e sculture – provenienti dalla Prima Quadriennale d’Arte Nazionale, per i quali il Comune aveva impegnato trecentomila lire.
Una cura minuziosa era stata profusa nell’allestimento degli ambienti e nella la loro illuminazione, infatti egli poteva dichiarare che “il riordinamento è stato fatto con signorilità; in molte sale sono state soppresse le finestre e sostituite con velari, col risultato di guadagnare spazio e di ottenere una illuminazione più adatta; tutte le sale hanno le pareti rivestite di stoffa, e a terra eleganti tappeti; i quadri si presentano con decorose cornici, le sculture su degni basamenti”. Muñoz appare particolarmente fiero della sua decisione di allestire la grande terrazza con le sculture di grandi proporzioni, che “male avrebbero figurato nell’interno”, e di averla “arricchita con una grande vasca, nel centro della quale ho collocato la Galatea di Amleto Cataldi, destinata appunto ad una fontana, e l’ho ornata con vasi e con fiori”.
Il criterio espositivo adottato fu quello della suddivisione per epoca, per scuole e per affinità dei soggetti facendo tuttavia sempre prevalere le ragioni estetiche.
Sono stati oggetto di approfonditi studi la figura di Giuseppe Bottai e la sua politica per le arti, di cui ancora oggi non si può mettere in discussione l’importanza, tuttavia l’avvento di Bottai a Ministro dell’Educazione Nazionale segna pesantemente e a lungo il destino della Galleria Comunale d’Arte Moderna che viene praticamente soppressa in favore della Regia Galleria Nazionale in nome si di una centralizzazione della politica culturale ed artistica – che si andava estendendo a tutti gli aspetti delle arti figurative – ma anche in ragione di una potenziale e pericolosa rivalità tra le due istituzioni.
Non si era affatto tenuto conto di quanto aveva affermato Muñoz al momento della riapertura del 1931 quando sosteneva che “la Galleria Mussolini non verrà a costituire un duplicato di quella Nazionale d’arte moderna (che poi è internazionale) a Valle Giulia ma avrà una fisionomia tutta propria. Limitandosi all’arte italiana, sarà più facile completarne le mancanze, rivolgendo i fondi per gli acquisti a determinati scopi, ciò che non è possibile alla Galleria Nazionale, a meno che non si attui la opportuna proposta di Ugo Ojetti, di riservare la Galleria di Valle Giulia ai soli italiani, e quella di Venezia agli stranieri”.
Con la delibera del 13 maggio 1938 del Governatore di Roma principe Piero Colonna più di trecento opere vengono consegnate alla Galleria Nazionale, ma poichè fortunatamente non venne alienata la proprietà e definito come temporaneo il deposito furono poste le basi per iniziare nel dopoguerra il lungo e complesso cammino per la ricostituzione della Galleria.
Grazie all’impegno dell’allora Assessore alle Antichità e Belle Arti del Comune Paolo Dalla Torre, nel 1952, si ebbe la nuova collocazione della Galleria Comunale d’Arte Moderna negli ultimi due piani di palazzo Braschi avendo lo Stato restituito una parte delle opere in deposito, quelle di interesse locale pur se notevoli. Non senza soddisfazione l’Assessore poteva quindi affermare su “Capitolium” come preludio alla illustrazione del nuovo Museo di Roma e della Galleria: “la nostra Amministrazione, conscia della sua funzione, ha voluto far rivivere la Galleria d’Arte Moderna chiedendo allo Stato la restituzione delle opere che già ne facevano parte e che si trovavano esposte solo parzialmente nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna”. Egli giustifica la scelta della sede in base al fatto che “la Galleria Comunale d’Arte Moderna è stata ora indirizzata decisamente verso le opere degli artisti romani, e dell’ambiente romano che comprende anche italiani e stranieri che non hanno avuto sul suolo di Roma i loro natali, ma per i quali Roma rappresenta la patria d’elezione”.
Carlo Pietrangeli presentando la Galleria completa le dichiarazioni dell’Assessore affermando che questa “ha assunto una fisionomia propria e una funzione non inutile accanto alla sua grande consorella romana alla quale serve di integrazione per la conoscenza delle opere degli artisti che hanno operato nella nostra città, mentre per il Museo di Roma costituisce un prezioso e indispensabile complemento”.
Questa scelta, che ebbe l’indubbio merito di restituire alle istituzioni museali civiche la Galleria, comportò, tuttavia, come ebbe a sottolineare efficacemente Giovanna Bonasegale nella sua ricca ed esaustiva introduzione al primo volume del Catalogo Generale Della Galleria, una linea di sviluppo restrittiva influenzando in modo negativo la successiva politica delle acquisizioni. “Si accentuò così la scissione fra i due aspetti della collezione, da una parte l’arte fino alla IV Quadriennale del 1943, sicuramente rappresentativa del clima artistico nazionale; dall’altra un clima provinciale in cui soltanto sporadicamente e del tutto casualmente potevano coincidere le presenze romane con i movimenti artistici operanti nel resto d’Italia”.
Trascorrono undici anni e la Galleria perde alcuni ambienti della sua sede a Palazzo Braschi: una mostra di una selezione di opere venne allestita al secondo piano del Palazzo delle Esposizioni con la doppia motivazione di valorizzare in un luogo più idoneo la collezione e lasciare spazio agli incrementi del Museo di Roma; in questa occasione vengono restituite altre ventidue opere dalla Galleria Nazionale. Questa situazione provvisoria si chiude nel 1972 quando, per la necessità di far posto alla esposizione della X Quadriennale, le opere conservate al Palazzo delle Esposizioni non trovando più una sede vengono destinate ai magazzini o agli uffici comunali. Nella prima metà degli anni ottanta l’Amministrazione si pose la questione della Galleria con la nomina di una Commissione che avrebbe dovuto dettarne i nuovi indirizzi in vista di una definitiva sistemazione al Palazzo delle Esposizioni; ma dopo un anno di lavoro la Commissione diede le dimissioni per difficoltà insormontabili e nulla fu risolto.
Finalmente, nel 1989, la giunta Comunale deliberò di assegnare gli edifici della ex Birreria Peroni alla Galleria e nel contempo per non negare più a lungo la visibilità delle più importanti e significative opere della collezione fu deciso di dare come sede provvisoria l’ex convento delle Carmelitane Scalze di Via Crispi. In questo spazio, aperto nel 1995 al pubblico, l’ordinamento disposto da Giovanna Bonasegale potè dispiegare, pur se in ambienti limitati, una parte piccola ma fortemente significativa del suo ricco patrimonio ripercorrendo le vicende e i momenti più importanti dell’arte italiana fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento.
Purtroppo a motivo di urgenti lavori di adeguamento funzionale dell’edificio è stato necessario nel 2003 richiudere nuovamente la Galleria.
Essendosi ormai divaricati i ruoli fra il Macro nella ex Birreria Peroni volto alla contemporaneità e la Galleria Comunale d’Arte Moderna di Via Crispi, a questa viene riservato il compito di valorizzare e, se possibile, incrementare il suo ricco patrimonio di opere che consentono una lettura significativa dell’arte a Roma dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli anni cinquanta del secolo scorso.
Con questa mostra, in attesa della riapertura della sede di Via Crispi, si è inteso proporre un percorso nella collezione del Novecento che dia conto, nelle diverse sezioni nella quale è articolata, non solo della alta qualità delle sue opere ma della varietà e della complessità dei movimenti che esse rappresentano.
Dalla Secessione e Divisionismo, frattura inquieta rispetto all’arte ufficiale e accademica, al Classicismo dove domina la grande tela Serenità di Felice Carena del 1925 per la prima volta esposto a Roma, dall’ Aeropittura futurista alla Scuola Romana, nelle diverse declinazioni della Scuola di Via Cavour, del Tonalismo romano e del Realismo magico, la selezione dei dipinti completata da un gruppo di sculture offre uno spaccato suggestivo del vivace ambiente artistico italiano di quegli anni.
Dopo una lunga permanenza nelle casse conservate presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma di Via Francesco Crispi a causa dei lavori di restauro, le opere possono essere finalmente ammirate e l’occasione per fruire di una parte di questa preziosa collezione d’arte è la mostra “La Galleria Comunale d’Arte Moderna. Percorsi del Novecento Romano” che s’inaugura presso gli spazi del Casino dei Principi.
Questi percorsi sul Novecento romano sono tesi a rivisitare la ricchezza e la vivacità dell’ambiente artistico romano del periodo attraverso una selezione di sessantotto opere – sculture e dipinti – rappresentative della cultura e dell’arte italiana della prima metà del Novecento testimoniando gli interessi e lo sviluppo del gusto nella Roma capitale e non solo. La preziosa raccolta della Galleria d’Arte Moderna riflette la felice politica di acquisizioni dell’Amministrazione Comunale iniziata fin dall’ultimo quarto dell’Ottocento e proseguita con continuità lungo il Novecento, permettendo di seguire umori e tendenze dell’arte italiana nella sua storia più recente.
Il patrimonio che era stato inizialmente destinato alla Galleria Caffarelli vanta capolavori di artisti come Giacomo Balla, Giorgio de Chirico, Scipione, Giuseppe Capogrossi, Mario Mafai, Giorgio Morandi, Renato Guttuso, Mario Sironi e ancora Amedeo Bocchi, Enrico Lionne, Camillo Innocenti, Angelo Morbelli, Felice Carena. E, ancora, con questa occasione “tornano nella casa comunale” interessantissime opere di Arturo Dazzi, Arturo Martini, Marino Marini che dal 1938 erano custodite in deposito temporaneo presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
Umberto Croppi
Assessore alle Politiche Culturali e Comunicazione
Spunti di classicismo in alcuni dipinti della Galleria Comunale d’Arte Moderna
Maria Catalano
Gli anni Venti, che vedono l’apertura della Galleria d’Arte Moderna in Palazzo Caffarelli, sono anni decisivi per la storia politica del neonato stato italiano e gravidi di fermenti per la cultura artistica.
Un’ampia storiografia critica – che per la ricchezza di spunti, materiali documentari e opere non cessa di arricchirsi – si è interessata dell’argomento componendo in un mosaico di interventi lo scenario di un periodo, non a torto definito una grande stagione artistica1.
Personaggi di grande levatura intellettuale, promotori e teorici di tendenze innovative – come Margherita Sarfatti e Cipriano Efisio Oppo – contribuiscono in questi anni a catalizzare la produzione artistica, per altri versi e non poco, incoraggiata dal fiorire delle committenze pubbliche e delle occasioni espositive, tra le quali la Biennale Romana istituita nel 1921. Per gli artisti e la critica è il momento del confronto con le novità linguistiche, spesso eversive, dei movimenti di avanguardia che nel decennio precedente, ancora una volta a Parigi, si sono prepotentemente affacciati sulla scena artistica contemporanea.
A Roma, il nuovo ruolo di capitale dello stato laico non diminuisce, anzi accentua, quello di centro delle arti supportato da un lungo e glorioso passato. La città rappresenta motivo di attrazione, nonché occasione di stimolanti incontri, per gli artisti. Scultori e pittori numerosi vi risiedono o vi soggiornano, la eleggono a luogo di studio e di lavoro attirati dalle importanti rassegne espositive che regolarmente si svolgono presso il Palazzo delle Esposizioni. L’entusiasmo della risposta, al nuovo clima culturale della capitale, è inoltre favorita dal mecenatismo privato di un personaggio facoltoso e illuminato come Alfred Wilhelm Strohl e dal vivace clima intellettuale che si respira nei ritrovi cittadini. Nella villa alle pendici del Pincio – denominata in onore del proprietario Villa Strohl-fern – gli artisti trovano straordinarie opportunità di contatti e ideali luoghi di lavoro; nella Terza saletta del Caffè Aragno – ritrovo mondano di una città ancora ottocentesca qual’è la capitale italiana – artisti, critici, letterati amano incontrarsi per continui momenti di crescita e di confronto.
Al di fuori di ogni definizione di scuole, correnti o limiti territoriali, nei circoli letterari e nella produzione artistica comune è il desiderio di ricomporre il rapporto con la tradizione e ciò comporta il confronto con quella cultura classica che nel territorio del paese ha trovato lo splendore della grandezza antica e che costantemente ha informato l’arte dell’età moderna, da Giotto a Canova.
La componente classicista non è secondaria nel Novecento italiano; si respira in tutti i campi delle arti e trova riscontro nei simili intenti della cultura europea all’indomani del primo conflitto. è stato sottolineato come nella pittura torni in auge, a scapito del paesaggio e della natura morta, l’interesse alla figura e con essa il piacere del disegno e della composizione equilibrata. Il museo – come sostiene Giorgio de Chirico autorevole esponente del fermento intellettuale legato alla rivista “Valori Plastici” – diventa, a scapito dell’en plein air, la mèta preferita per l’apprendimento del mestiere, il luogo deputato dell’arte dove studiare le opere dei grandi maestri e carpirne lo spirito.
La produzione pittorica e la condotta etica di Felice Carena, artista dalla cultura composita la cui lunga attività è contrassegnata da un impegno costante allo studio e alla pratica della pittura, costituiscono un importante riferimento per le generazioni che si succedono nella prima metà del Novecento.
Le opere eseguite negli anni Venti, quando dopo la guerra l’artista torna nella quiete dello studio di Anticoli Corrado e – dal 1924 – si stabilisce a Firenze come augusto cattedratico dell’Accademia, lo vedono interprete, e partecipe convinto, di quel classicismo che, come una vena sotterranea, permea molta parte della cultura figurativa italiana. L’esposizione di Serenità (tav. 16) costituisce, in questo contesto, una preziosa occasione per presentare al pubblico romano uno dei capolavori nascosti della collezione, caposaldo della maturità dell’artista.
Alla metà degli anni Venti – 1925 è la data riportata sulla tela e 1926 l’anno della prima esposizione alla Biennale di Venezia – Carena è già affermato e pienamente inserito nell’ambiente della capitale2: espone e lavora in commissione alle mostre della Secessione, nonché alle successive Biennali romane; anima dal 1922 una scuola d’arte e, seppure non da protagonista, è partecipe del lavoro intellettuale di “Valori Plastici”, la rivista di Mario Broglio che – tra il 1918 e il 1922 – dà voce alle istanze di ritorno alla tradizione in un quadro di ampio respiro attento alle novità europee. Proprio in questi anni, con assoluta originalità rispetto alla produzione precedente, Carena si impone all’attenzione dei contemporanei eseguendo tele di grandi dimensioni palesemente ispirate alla tradizione italiana, in particolare del Rinascimento.
Vedremo in realtà come l’artista filtri la lezione del passato in modo complesso e antiaccademico ma innegabilmente, ad una prima visione, il tono che si respira in Serenità è quello delle profane conversazioni di Giorgione: le figure, e le relazioni psicologiche non sempre esplicite che le legano, sono fisicamente inserite nella natura di cui partecipano i ritmi vitali. Spontaneo appare il richiamo al Concerto campestre del Louvre – celebre esecuzione concordemente riferita a Giorgione seppure con l’intervento del giovane Tiziano – dove figure nude e figure vestite, in un sapiente equilibrio di toni, convivono in un paesaggio.
Al richiamo di Giorgione si aggiunge quello di Tiziano nella potente carnalità dei nudi femminili che hanno come unici ornamenti monili al collo e drappi elegantemente panneggiati che mai coprono, ma sempre esaltano, la pienezza delle forme. La composizione larga ed equilibrata, dove gruppi di figure si dispongono su piani paralleli in una potente orchestrazione, rimanda alla grande stagione pittorica del Cinquecento veneto. La figura di Venere, nell’omonimo dipinto di Tiziano della National Gallery of Art di Washington, rivela una straordinaria assonanza con la figura di Carena seduta sotto l’albero e le citazioni potrebbero proseguire denotando uno studio profondo – ma nello stesso tempo curioso, abile e spregiudicato – del passato.
La critica del tempo già intuiva la particolarità del rapporto dell’artista torinese con la tradizione e, a guardar bene, l’atteggiamento evidenziato in Serenità era stato già sperimentato, in altra scala, nelle nature morte del decennio precedente dove il riferimento era stato piuttosto la pittura del Seicento unita alla conoscenza dell’Impressionismo e dei Fauves3.
Seppure in linea con il parallelo movimento del Novecento che vede nei modelli quattrocenteschi, e ancor prima nella pittura giottesca, la radice della tradizione cui ispirarsi per il rinnovamento dell’arte, Carena se ne distacca comprendendo nella sua ricerca anche il passato più recente della “bella pittura”. A contrastare l’opinione di chiusura e di provincialismo alla quale è stata spesso omologata, la cultura romana si apre infatti, dall’inizio del secolo, ai fermenti europei esponendo nelle mostre della Secessione le opere degli impressionisti e della generazione successiva di artisti – Gauguin, Matisse e, più importante di tutti, Cézanne – che creano a Parigi quell’ambiente vitale, e nello stesso tempo complesso, per la nascita delle avanguardie. Seppure discusse dalla critica del tempo, anche le piccole sculture in bronzo di Edgar Degas, che in modo eversivo interpretano la statuaria classica, sono presenti in numero di settantadue alla Biennale Romana del 1923.
In Serenità il riferimento alla pittura francese – iconografico più che stilistico – è costituito dal Déjuner sur l’herbe di Edouard Manet, l’opera rivoluzionaria che, rifiutata al Salon parigino del 1863, apre la grande stagione dell’Impressionismo. La soluzione compositiva delle tre figure sedute sull’erba, lo specchio d’acqua retrostante dove si svolgono ulteriori episodi figurativi, la prospettiva inquadrata da quinte arboree, nonché il realismo della natura morta adagiata su un drappo, possono aver interessato Carena che ripropone gli stessi elementi decantati dal suo personale classicismo.
Ancor più, tuttavia, si colgono i caratteri della famosa serie delle Bagnanti di Cézanne – eseguite tra il 1872 e il 1906 – nello spirito della composizione, nella solidità plastica delle figure costruite per ampie superfici di colore e definite da una potente linea di contorno, nella loro grandezza monumentale e nel ritmo che le unisce al paesaggio. Simile è l’intento di una maniera larga e maestosa che, se nel maestro francese viene tradotta in uno stile sintetico che fonde figure e paesaggio in un risultato lontano dal vero, in Carena diventa classicismo profondamente meditato.
In un recente studio4 Chiara Fabi ha evidenziato come il recupero stilistico della tradizione significhi, nei dipinti degli anni Venti e Trenta, anche il recupero della tecnica pittorica, della preparazione della tela e della stesura del colore secondo metodi e accorgimenti desunti dallo studio delle opere del passato in contrapposizione alle sperimentazioni velleitarie dell’avanguardia. In Serenità la “buona tecnica” degli antichi esalta le trasparenze dell’acqua e i vivaci episodi pittorici in primo piano: i fiori sul drappo a sinistra, il cerbiatto accovacciato, le inflorescenze del prato. La preparazione della tela tuttavia non è omogenea e la trama traspare in più punti; specie i volti delle figure, ma anche le mani e i particolari anatomici, traducono una maniera sintetica e approssimativa mentre le piccole figure di bagnanti in secondo piano diventano semplici tratti di colore puro. La modernità del classicismo di Carena si rivela ancor più nel colore corposo, privo di velature e di compiacimenti chiaroscurali, sottolineato da un segno di contorno a volte angoloso e spesso, un colore “materico” volto piuttosto – al modo di Cézanne – a definire in senso plastico le figure.
Alla collezione della Galleria Comunale appartiene anche un altro dipinto, intitolato Bagnanti5, che si può ragionevolmente considerare un bozzetto della più famosa esecuzione del 1925: medesima nelle due opere è la figura a destra con il braccio levato; simile la concezione del paesaggio e la figura seduta di spalle a sinistra. Ulteriori significativi confronti, per lo spirito della composizione e lo stile pittorico, sono La Quiete del 1922-24 (Roma, coll. Banca d’Italia) e Apostoli del 1926 (Firenze, Galleria d’Arte Moderna).
La novità di tali opere, che costituiscono un corpus unitario nella vasta produzione dell’artista, non poteva passare inosservata ai contemporanei che attribuivano le figure statuarie e la larga composizione dei dipinti di Carena al soggiorno a Firenze e al rinnovato contatto con le opere del Rinascimento. La pienezza dei nudi, che in Serenità emergono da un paesaggio desertico dove il profilo delle colline richiama la rotondità delle forme femminili, la sobrietà delle pose e i particolari delle acconciature, i sottili rimandi cromatici – come tra i rubini al collo della figura seduta e le bacche rosse che le vengono offerte – spingono lo scultore Antonio Maraini, allora segretario generale della Biennale di Venezia, a definire “classica” la sua arte6.
La produzione di Felice Carena, nel panorama artistico italiano alla metà degli anni Venti, ha ripercussioni certe e influenze dirette sull’ambiente a lui più vicino, quello toscano.
A conferma dello stretto legame tra arte e letteratura nei primi decenni del Novecento, la sua posizione non si può non relazionare con il movimento intellettuale che a Firenze trova espressione dal 1924 in Solaria 7. Nel generale intento di rinnovamento e di apertura alle novità europee, gli intellettuali della rivista, pur in assenza di chiari intenti ideologici, dimostrano di ricercare un filo conduttore tra la tradizione e la modernità: congeniali pertanto appaiono le figure solenni e modernamente semplificate di Carena, la loro classica monumentalità.
L’influenza del maestro torinese trova risposta, in particolare, nella nuova generazione di artisti del Novecento Toscano8, movimento formatosi in seno all’atmosfera solariana e del quale Gianni Vagnetti, animatore di un vivace salotto culturale presso lo studio in Piazza Donatello, è uno dei protagonisti. Raffaello Franchi, scrittore e teorico di Solaria, definisce il gruppo, al suo esordio nel 1927, “una fratellanza di artisti plastici, toscani per nascita o per formazione spirituale”9. L’intento che li accomuna è il rinnovamento della cultura italiana ma, privo di forza eversiva, esso si traduce nell’innesto, su una tradizione illustre che non va dimenticata, delle esperienze moderne. In questa ottica va letta l’opera di Gianni Vagnetti, Fidanzati (tav. 19), datata 1930 ed esposta a Roma l’anno successivo in occasione della Quadriennale.
L’impegno figurativo si accompagna, nella produzione dell’artista, alla capacità di narrare episodi quotidiani permeati da una pacata vena sentimentale, caratteri comuni alla pittura toscana del Novecento e distanti dalla più severa teorizzazione stilistica del parallelo movimento milanese.
La pittura di figura di Vagnetti è descrittiva, supportata da un’abile tecnica pittorica, non estranea a sottigliezze di gusto piccolo borghese che hanno spinto Giovanna Uzzani10 ad avvicinarla alla poesia di Aldo Palazzeschi e la critica del tempo a paragonarla alla pittura del Ghirlandaio. Le figure di Vagnetti ne possiedono la classica naturalezza, lontana dalla potenza dei nudi femminili di Carena e vicina, al contrario, al fascino delicato delle donne del tempo e alla dolcezza di un paesaggio amato, quello delle colline toscane. Sono questi gli elementi presenti nell’opera e che, con un nascosto intento campanilistico, spingono Raffaello Franchi a difendere le qualità della pittura toscana in contrapposizione a quella milanese.
Vagnetti dimostra di saper dominare la composizione, di saper conferire risalto plastico e vitalità emotiva alle figure recuperando la tradizione ottocentesca dei Macchiaioli e quella preziosità del colore che in Antonio Mancini ha nei primi decenni del Novecento il massimo rappresentante. Anche se l’artista raggiunge i più alti esiti di equilibrio compositivo e sensibilità cromatica nelle nature morte11, in tutta la produzione degli anni Trenta la stesura pittorica, lontana dalla superficialità visiva dell’Impressionismo, assume una notevole valenza e permea le figure di una distanza vagamente metafisica. è ciò che si avverte in Fidanzati dove, sullo sfondo di un dolce paesaggio collinare, i due personaggi si stagliano vivacemente contro lo steccato verde della panchina. Un colore prezioso, fatto di guizzi improvvisi e luminescenze sapienti, e una tavolozza raffinata servono a descrivere i ricami sulla camicia della promessa sposa, la catena dell’orologio e il fiore all’occhiello del futuro sposo, il bocciolo di rosa che lui le offre, con un risultato lirico lontano dall’astratta e bloccata espressività milanese.
In linea con gli assunti careniani è la poetica di Carlo Socrate, artista attivo a Roma dal 1914. Il Cerro (tav. 20), databile tra il 1925 e il 1926 per le affinità stilistiche con i dipinti del periodo, è esposto, in occasione della mostra degli Amatori e Cultori del 1927, nella sala riservata agli artisti del Novecento Italiano recensiti da Margherita Sarfatti come esponenti di uno “stile modernissimo e classico insieme”12.
L’opera è notata dalla critica che ne riconosce la capacità descrittiva – quasi minuziosa nelle fronde del grande albero – il recupero della tradizione e, nello stesso tempo, la vivacità dell’immagine lontana da accademie13. La maestosa quercia è protagonista del dipinto, unico elemento di un paesaggio che non ammette intrusioni umane o diversioni figurative, protagonista compositivo e cromatico la cui massa di colore efficacemente contralta con i toni pallidi del cielo e con il tocco vivace dei covoni gialli in secondo piano.
Il dipinto appartiene alla maturità di Socrate; rivela un artista dalla cultura vasta e cosmopolita con una profonda conoscenza della pittura europea, sia dei contemporanei sia delle opere del passato. L’amicizia con Picasso e i soggiorni all’estero, l’adesione alle tendenze romane più avanzate del gruppo di Villa Strohl-fern – dove l’artista ha lo studio dal 1917 – e la partecipazione alla Biennale Romana del 1923 con i “neoclassici”, l’invito nel 1926 alla Prima mostra del “Novecento” italiano a Milano, sono gli episodi che delineano la sua fisionomia artistica alla data di esecuzione dell’opera.
Estraneo allo spirito delle avanguardie, Socrate è aperto alle novità europee avendo per modelli la pittura fauve, il post-impressionismo di Gauguin e di Matisse, la tensione formale dei dipinti di Cézanne. Costante è l’intento plastico nelle sue rappresentazioni unito a un forte senso del colore: ancora, come in Carena, appare il riferimento a Cézanne dove però l’artista dei “neoclassici” propende per quei valori di equilibrio compositivo e di coerenza interna del dipinto lontani dalla maniera larga e maestosa del maestro torinese.
La classicità di Socrate è esibita, a volte ostentata, volta a recuperare, nell’opera della Galleria Comunale, la tradizione classica del paesaggio italiano, da Poussin alle vedute del Settecento nonché – precedente vicino – la pittura del grande paesaggista dell’Ottocento, Camille Corot. La chiarezza della veduta, la netta definizione dei volumi, l’armonia compositiva della prima attività dell’artista francese, e in particolare quel sentimento della natura per il quale ebbe fama tra i contemporanei, sembrano rivivere nel dipinto dell’artista italiano.
Anche Leonetta Cecchi Pieraccini, partecipe a Roma del clima d’avanguardia legato alla Secessione, espone insieme a Socrate nelle salette dei “neoclassici” volute da Oppo in occasione della Biennale Romana del 1923. Il naturalismo delle sue figure e la narrazione chiara e pacata, che ben presto la schiera sul fronte romano del classicismo novecentesco, traducono una scelta confermata dalle successive esposizioni, in particolare dalla Biennale del 1925 e dalle mostre del Novecento cui partecipa a Milano nel 1926 e nel 1929.
Federica Pirani in un recente studio ha ben evidenziato il clima culturale che si matura a Roma in occasione delle Biennali ed in particolare i caratteri della nuova generazione di artisti che, seppur non accorpati da una scuola o da un manifesto, denotano simili intenti nel recupero della tradizione. Oltre a Socrate e alla Cecchi Pieraccini, vi sono, per citare alcuni tra i pittori, Nino Bertoletti, Giorgio de Chirico, Antonio Donghi, Gino Severini, Francesco Trombadori. è come se le istanze anticipate dalla rivista “Valori Plastici”, suffragate dalla pubblicazione di saggi teorici sull’argomento, prendessero improvvisamente corpo nelle mostre romane per un ritrovato dialogo con la tradizione, una tradizione intesa come “buona pittura” volta a comprendere anche la più recente produzione dell’Ottocento14.
Appartiene alla prima maturità di Leonetta Cecchi Pieraccini, e al momento – tra il 1925 e il 1930 – di maggior fortuna del classicismo novecentesco, l’opera Nello studio (tav. 18) databile tra il 1926 e il 1929, anno in cui fu esposta alla mostra personale presso la Galleria Valle di Genova15. Il soggetto è inusuale: un adolescente, che si vuole identificare nel figlio Dario, immerso nella lettura. L’ambientazione è apparentemente semplice: un interno domestico; la prospettiva limitata a un angolo della stanza con pochi ma determinanti elementi; i libri non in ordine così da supporne un uso recente; il tappeto del tavolo ravvivato da sobrie righe di colore. Il letto è disfatto, il ragazzo è nudo mentre legge in un’atmosfera sospesa dove elemento dominante diventa l’erma maschile in secondo piano, improbabile arredo della camera di un adolescente.
La particolarità del soggetto è risolta con raro equilibrio compositivo e cromatico: linee ortogonali costruiscono il dipinto e da esse si discostano unicamente il capo chino del ragazzo e, in senso opposto, quello della scultura; l’orchestrazione dei toni, consapevole di una formazione toscana a contatto con i Macchiaioli, è discreta e si accende solo nel contrasto tra il marmo bianco della statua e il corpo abbronzato del ragazzo. L’assoluta fedeltà a un episodio reale diventa nello spazio pittorico della tela situazione irreale, metafisica, dove l’antico gioca un ruolo determinante nel ribaltamento del vero.
è evidente il gusto della citazione erudita e il riferimento – nella statua rappresentata – all’iconografia del diadumenos policleteo, l’atleta colto nel momento successivo alla vittoria noto attraverso numerose copie di età romana, di cui quella dei Musei Vaticani straordinariamente assonante. Il modello classico tuttavia acquista una insospettata umanità: il capo è maggiormente chino quasi a ripetere la posa del ragazzo; il recupero dell’antico, seppure dichiarato, diviene il mezzo per una dimensione attuale dove spazio e tempo perdono valore documentario.
Leonetta Cecchi Pieraccini, come gli artisti del fronte classicista romano, è invitata a esporre in entrambe le mostre milanesi di Novecento, il movimento artistico e intellettuale infaticabilmente sostenuto da Margherita Sarfatti16 che vi vede la risposta alla superficialità dell’Impressionismo e al sentimentalismo romantico, nonché la via per superare le stesse avanguardie.
Nella teorizzazione della Sarfatti, che già nel 1922 trova proseliti proprio in Achille Funi e Mario Sironi17, il recupero della tradizione e il rapporto con la classicità sono invocati per creare uno stile nuovo, “moderno”, lontano da intenti descrittivi e, di contro, fortemente investito di valori morali. La classicità di Novecento è radicale ed eversiva insieme: l’immenso patrimonio iconografico e stilistico delle opere del passato – dal quale è bandita la tradizione ottocentesca – diventa un mondo da esplorare liberamente quale fonte, non di passiva imitazione, ma di creativa espressione. La nuova concezione estetica ha nella pittura canoni di riferimento precisi: privilegia il disegno per conferire contorni netti alle figure e agli oggetti rappresentati; adotta sobrie e unitarie campiture di colore; esalta i volumi con l’uso di un potente chiaroscuro; attribuisce solennità e grandezza morale alle figure inserendole in narrazioni semplici e chiare, lontane da sentimentalismi o compiacimenti descrittivi. è facile intendere come l’intento etico del nuovo stile risulti congeniale – così da diventarne presto ufficiale strumento di comunicazione – ai valori propagandati dal regime politico che in questi anni conquista il potere.
Elena Pontiggia in un recente studio18 ha tuttavia evidenziato come Novecento non abbia costituito per l’arte italiana una contro-avanguardia, bensì un’altra modernità, un rinnovamento, anch’esso di avanguardia, perseguito attraverso ideali e canoni estetici: il recupero dei temi quotidiani, primi tra tutti il lavoro e la famiglia, il recupero delle forme e della tecnica dei “primitivi”, secondo la definizione data all’arte medioevale e quattrocentesca da Carlo Carrà19.
La tela di Mario Sironi, intitolata La famiglia (tav. 17), è un autorevole esempio di questa poetica. Recente, ed accolta dalla critica, è stata la proposta di una sua datazione al 1927 sia per i raffronti stilistici con le opere del periodo sia, in particolare, per i raffronti con alcuni disegni e con le altre versioni documentate del tema20.
La carica eversiva di Sironi, già presente nei paesaggi urbani di poco precedenti, è evidente nel risalto, all’interno della composizione, delle figure: le loro proporzioni sono intenzionalmente maggiorate così come, nei toni scuri del dipinto, esse costituiscono gli unici veri accenti cromatici. La visione antropomorfica, seppure esaltata, non traduce tuttavia lo status positivo dell’Umanesimo ma la solitudine e l’incertezza, nonché la tristezza velata di malinconia, dell’uomo contemporaneo. La solennità dei personaggi – ridotti agli archetipi del nucleo familiare nell’uomo in piedi sulla sinistra, nella donna inginocchiata a destra e nel figlio ancora piccolo – si inserisce in un paesaggio desolato, lontano dalla seppur spoglia dolcezza delle colline di Carena, primordiale nel grigiore dei toni e nella spettralità delle forme, inquietante per la presenza di elementi dissonanti come il ponte a più arcate – forse un acquedotto – in secondo piano. Le figure, in un disegno attentamente calibrato, sono concepite come volumi di colore assimilabili a forme geometriche; ogni accenno emotivo, pittorico o verista viene bandito per creare uno spazio estraneo in un tempo assoluto – passato e presente insieme – dove non esiste movimento. La stesura pittorica è densa e pastosa con larghe zone scure anch’esse definite geometricamente; la tavolozza è povera impostata su toni cupi che rifuggono qualsiasi piacevolezza.
La famiglia – soggetto del dipinto – è anche “lavoro”, altro tema più volte indagato da Sironi in questi anni: i protagonisti traggono la loro nobiltà proprio dall’aspetto quotidiano, dalla fatica che sottintende i loro gesti. Il significato etico che ne deriva, e che nella storia della cultura italiana trova sostegno, è tradotto in uno stile “sintetico”21 erede della trascorsa esperienza futurista ma, nel recupero della tradizione, direttamente legato alla pittura di Giotto e di Masaccio.
Gli anni Venti sono anni decisivi per il percorso artistico di Sironi: l’adesione alla poetica classicista è piena; a Milano, nel comitato direttivo del movimento, condivide i progetti e le attività di Margherita Sarfatti; alla Biennale Romana del 1925 espone nella sala riservata al Novecento ottenendo i favori della critica e anticipando il successo della Quadriennale del 1931; ben presto sarà tra i maggiori esponenti a tradurre i temi e lo stile dell’esperienza pittorica nelle più vaste dimensioni della decorazione murale.
Accanto a Mario Sironi, simile per intenti, attività e percorso, è Achille Funi, artista ferrarese anch’egli protagonista della parabola di Novecento. Negli anni Venti la sua pittura all’interno del movimento è principalmente volta al recupero della tradizione, un recupero inteso in modo meno eversivo ma ugualmente forte e coerente.
Funi svolge la sua attività tra Milano e Ferrara ma, dal 1927 al 1931, soggiorna più volte a Roma recandosi anche a Napoli e a Pompei per ammirare le vestigia dell’antichità. Il dipinto intitolato Il Colosseo (tav. 23), datato 1930 ed esposto l’anno successivo alla Quadriennale22, ottiene il consenso della critica che già apprezzava i paesaggi urbani dell’artista. Tra questi, vicino per concezione e resa stilistica, è Foro Romano eseguito lo stesso anno, anch’esso presente alla Quadriennale e oggi a Ferrara presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea.
Sono gli anni in cui a Roma trova applicazione la “Variante generale” al piano regolatore firmata da Marcello Piacentini23 che, oltre all’espansione della città secondo direttrici precise, rende possibili, uno dopo l’altro, gli sventramenti nel centro storico. L’idea della capitale, alla quale aspira il nuovo regime e della quale il Governatorato si fa interprete, mira al ripristino della grandezza antica, all’isolamento grandioso dei monumenti imperiali e delle loro rovine, obiettivi per i quali appare necessario cancellare quanto “indignitosamente” si è nel corso del tempo venuto a sovrapporre.
Nel sistema dei luoghi, che costituisce il genio della città facendone da sempre – e senza perdere forza di attrazione – mèta di viaggiatori e artisti, il Colosseo e il complesso dei Fori rappresentano i soggetti di maggior richiamo, i luoghi preferiti dove il paesaggio urbano si arricchisce inequivocabilmente di valenza storica. Dal XVI al XIX secolo essi, più di altri, hanno costituito, nel genere della veduta, la testimonianza dell’antico splendore e ancora rappresentano un sito reale e un mito insieme, un luogo di studio e una memoria del passato, una fonte di emozione e di ispirazione inesauribile per dipinti, incisioni e disegni24.
I monumenti antichi rivivono nei dipinti di Funi sia come luogo reale, riconoscibile, sia come visione, accostamento onirico di monumenti, statue e rovine. Esempi ne sono, da una parte il dipinto della Galleria Comunale, dall’altra Roma (Sogno), olio su tavola del 1930 oggi in collezione privata25. Comune in entrambe le concezioni è la componente scenografica che sacrifica la verosimiglianza dell’insieme a vantaggio di una visione intensamente emotiva. La visione di Funi non è contemplativa né esatta, non ammette diversioni figurative o episodi di “capriccio”: in un impianto cromatico straordinariamente vivace, che si accende nella vetustà delle pietre antiche e in una profondità del cielo inusuale per le atmosfere romane, il disegno diventa mezzo di espressione rapido e nervoso, autonomo segno nero che sottolinea i contorni e che, ripetuto insistentemente, anima l’intera superficie del dipinto sostituendosi alla descrizione puntuale delle rovine.
L’immagine grandiosa della classicità imperiale rivive nella larghezza dell’impianto compositivo e nel fermo risalto dei volumi ma dominanti restano la vivacità e l’immediatezza della rappresentazione, caratteri che inducono al paragone con la pittura compendiaria e richiamano gli acquerelli di Turner eseguiti nello stesso luogo un secolo prima. Lontana dalla gravità giottesca dei personaggi sironiani, la rivisitazione dell’antico rivela il sentimento dell’artista; il Colosseo di Achille Funi narra una storia che ha visto avvicendarsi la potenza e la distruzione di un impero ma che mantiene inalterato il suo messaggio di grandiosità. Qualche anno dopo Mafai e Afro nelle celebri Demolizioni, anch’esse appartenenti alla collezione della Galleria Comunale26, comunicheranno con altri toni, ma con partecipazione ugualmente intensa, il messaggio non più trionfalistico legato alla distruzione della città storica in attuazione della politica urbanistica degli anni Trenta.
Non si può non comprendere, nel panorama del classicismo della prima metà del Novecento, la posizione teorica e l’apertura internazionale rappresentata dalle figure di Giorgio de Chirico e di Gino Severini. Le opere esposte si riferiscono ai primi anni Trenta quando entrambi gli artisti risiedono a Parigi, ancora massimo polo di attrazione per l’arte europea.
La figura di de Chirico nell’arte italiana riveste un ruolo che, fin dagli anni Dieci del Novecento, travalica l’attività pittorica: animatore vivace del dibattito intellettuale, teorico acuto e spregiudicato, avanguardista aperto e fecondo in ogni campo di attività, l’artista figura nella schiera dei “neoclassici” presenti alla Biennale Romana del 1923. La giovinezza trascorsa a Vòlos ha spesso indotto la critica a considerare il suo classicismo derivato dall’arte olimpica dei Greci; tuttavia è a Roma che l’artista soggiorna dal 1918 al 1924, anni in cui elabora e sostiene, nelle opere e negli scritti, la riscoperta del Rinascimento, il “ritorno al mestiere”, lo studio delle opere del passato, la cura estenuante della tecnica per la qualità della pittura.
Nel dipinto della Galleria Comunale, il tema dei gladiatori, affrontato sin dagli anni Venti e puntualmente analizzato dalla critica nel confronto tra le varie versioni27, si collega a una classicità romana che non si traduce in rievocazione nostalgica o trionfalistica, in accademismo o compromesso fra tradizione e modernità, bensì in quella che l’artista stesso definisce “ricerca di invenzione e di fantasia”28. I modelli di de Chirico non sono le rovine della Roma imperiale, che su Achille Funi esercitano tanta suggestione, ma i repertori di scultura antica pubblicati in questi anni a Parigi, prontuari sistematici ove attingere figure, pose e composizioni per un libero processo creativo, spontaneo e svincolato dalla ragione.
Per de Chirico – “artista-filosofo” – l’opera riflette un atto “eroico” che eleva l’autore a una dimensione immortale e ne consegna la memoria al futuro. Tale concezione, che in un continuo rinnovamento stilistico e iconografico sottintende la sua attività, rimanda alla filosofia greca, presente in un fiorire di immagini e citazioni negli scritti teorici e letterari, e ancor più al moderno pensiero di Nietzsche e di Shopenhauer, a quella formazione tedesca, cioè, che negli anni giovanili lo aveva reso partecipe della ricca e vivace cultura mitteleuropea a cavallo tra i due secoli. Attraverso la rivelazione artistica, vissuta come necessità interiore, si raggiunge la verità degli oggetti comuni, la realtà altra, metafisica, assoluta e non comunicante con il mondo esterno. In tale contesto il confronto con la cultura classica, che l’artista dimostra di possedere con assoluta padronanza, avviene in modo capriccioso ed estemporaneo: l’antico diventa un linguaggio rievocato in modo superficiale, “assonante” secondo Claudio Crescentini “con la tragedia della serenità del mondo greco”29.
I primi anni Trenta sono gli anni del teatro durante i quali l’artista, in Italia e in Francia, lavora alle scenografie e ai costumi di importanti opere liriche e drammatiche; l’influenza si avverte nella pittura dove una tensione esagerata, al punto di rasentare la finzione, permea le figure sottolineate da un chiaroscuro marcato e da un disegno potente che ha suggerito il richiamo a Michelangelo30.
I caratteri del Combattimento di gladiatori (tav. 22), databile al 1933-1934, si ritrovano in altre opere del periodo come Cavalieri sulla spiaggia, olio su tela del 1934, oggi a Macerata nella collezione di Palazzo Ricci. Simile è la figura di spalle, la tecnica accurata che conferisce tonalità perlacee ed effetti di luce rarefatta alla stesura pittorica, il formato ridotto quasi incompatibile con l’enfasi del soggetto, il risalto intenzionalmente spropositato delle figure all’interno della composizione. L’ambientazione della scena è ridotta a pochi elementi e, nel dipinto della Galleria Comunale, diventa assente così da sospendere nel vuoto la lotta degli eroi e comprimere il groviglio dei corpi sul primo piano. Spazio assente e tempo assoluto, figure fisse e bloccate nei movimenti: come in Sironi, dove però alla gravità morale dei personaggi corrisponde in de Chirico il vuoto, il non-senso delle azioni, la foga inutile dei lottatori, la coscienza della ciclicità degli eventi che priva di libertà le azioni umane.
Sebbene la spiccata personalità di Giorgio de Chirico renda difficile qualsiasi accostamento, la sua posizione nei confronti del classico trova riscontro in un teorico profondo e in un artista composito, anch’egli cultore della perfezione tecnica e aperto alla sperimentazione, come Gino Severini. Il classicismo intellettuale, che per il carattere di “rivelazione” dell’opera d’arte assume in de Chirico una vena di religiosità laica, in Severini diventa ricerca razionale ed equilibrata.
A Parigi, comune patria d’elezione, Severini è fautore del futurismo di Marinetti per poi lasciarsi conquistare dal linguaggio cubista. Già negli anni Venti, tuttavia, esaurite le esperienze avanguardiste e alla luce di un’attività teorica e letteraria di controtendenza, recupera il rapporto con la tradizione: espone nella Biennale Romana del 1923 con i “neoclassici”; adotta un linguaggio scarno e severo, che rimarrà il sostegno di ogni ulteriore esperienza; soggiorna più volte in Italia, attratto dalle numerose occasioni espositive ma ogni volta coltivando e approfondendo la conoscenza dell’antico.
Composizione (tav. 21), databile al 1933, è un mosaico realizzato in Veneto31 – regione di lunga tradizione musiva – da un cartone oggi in collezione privata. è un’opera della maturità eseguita negli anni in cui, con il premio alla Quadriennale del 1935, l’artista ottiene il meritato riconoscimento. Essa non è un esempio isolato: alla personale presso la Galleria della Cometa a Roma, patrocinata da una mecenate raffinata e cosmopolita come la contessa Anna Laetitia Pecci Blunt, nel marzo del 1938 l’artista esporrà quarantacinque mosaici di piccole dimensioni dichiarando in catalogo come essi siano il risultato di dodici anni di esperienze e di osservazioni sugli insigni esempi ravennati e romani32. In omaggio alla capitale Severini cita addirittura i suoi modelli nelle decorazioni di Santa Maria Maggiore, S. Pudenziana e SS. Cosma e Damiano, le chiese che ospitano i maggiori esempi della decorazione musiva paleocristiana.
Nella sua concezione generale, l’opera della Galleria Comunale si può intendere come una dichiarazione di intenti nella volontà dell’artista contemporaneo di ricercare la continuità del proprio mestiere nell’antica tradizione, recuperandone anche la particolarità tecnica. Così è per il mosaico con tessere in pasta vitrea, decorazione parietale praticata in età classica, e ancor prima egizia, che Severini riprende insieme a un repertorio iconografico fatto di oggetti, animali e forme – il grappolo d’uva a chicchi grossi e isolati, la colomba che volge indietro il capo, l’anforetta, la loggetta di gusto veneziano, ma anche la prospettiva rovesciata del piano e l’uso vivace della cromia – derivate dalle decorazioni di Sant’Apollinare Nuovo e di Galla Placidia a Ravenna.
Le citazioni sono precise, ripetute quasi serialmente nei dipinti e nei mosaici di questi anni, ma l’elemento iconografico, privato a ragione del suo contesto, perde ogni valenza iconologica. La composizione, che pur ricerca un’armonia di forme e di toni, acquista un tono surreale accentuato dall’introduzione, in posizione centrale, di una maschera. Anche quest’ultimo elemento è ricorrente nella produzione di Severini – così come nelle nature morte dell’arte italiana della prima metà del Novecento33 – e non ha carattere casuale: nel collegamento al teatro, la maschera, se da una parte è ancora un richiamo all’antico, dall’altra evidenzia la finzione e la dimensione metafisica dell’opera d’arte.
NOTE
1 In merito alcuni dei testi: Gli artisti di Villa Strohl-fern tra Simbolismo e Novecento, a cura di L. Stefanelli Torossi, Roma 1983, catalogo della mostra, Roma 1983; Scuola romana. Pittori fra le due guerre, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco, Roma 1983, catalogo della mostra, Roma 1983; M. Fagiolo dell’Arco, Scuola romana, pittura e scultura a Roma dal 1919 al 1943, Roma 1986; Secessione Romana 1913-1916, a cura di R. Bossaglia-M. Quesada-P. Spadini, Roma 1987, catalogo della mostra, Roma 1987; Scuola romana, a cura di M. Rivosecchi, Milano 1988, catalogo della mostra, Milano 1988; Roma Anni Venti, pittura, scultura, arti applicate, a cura di V. Rivosecchi, Roma 1990, catalogo della mostra, Roma 1990; F. Pirani, Le Biennali Romane, in Il Palazzo delle Esposizioni, a cura di R. Siligato-M.E. Tittoni, Roma 1990-1991, catalogo della mostra, Roma 1990, pp. 183 ss; L’idea del classico1916-1932. Temi classici nell’arte italiana degli anni Venti, a cura di E. Pontiggia-M. Quesada, Milano 1992, catalogo della mostra, Milano 1992; M. Fagiolo dell’Arco, Classicismo pittorico, Metafisica. Valori plastici, Realismo magico e ‘900, Genova 1992; G. Bonasegale, La Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea: centoundici anni di progetti, in I Catalogo generale della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma 1994, pp. 28-33; Le Capitali d’Italia. Torino-Roma 1911-1946, a cura di M. Vescovo-N. Vespignani, Torino 1997-1998, catalogo della mostra, Milano 1997; La Scuola romana. Una collezione privata, a cura di V. Rivosecchi, Milano 2002; G. Bonasegale, Roma tra le due guerre, in Da Balla a Morandi. Capolavori dalla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, a cura di G. Bonasegale- E. Zanella, Gallarate 2005, catalogo della mostra, Roma 2005, pp. 47 ss; Scuola romana. Artisti a Roma tra le due guerre, a cura di F.R. Morelli, Roma 2008-2009, catalogo della mostra, Roma 2008.
2 L’artista è attivo a Roma dal 1906. Nella collezione della Galleria Comunale d’Arte Moderna figurano anche: Banane, 1916, olio su tavola [inv. AM 25]; Natura morta, 1920, olio su tavola [inv. AM 27]; La pergola, 1929, olio su tela [inv. AM 792]; Uomo che dorme, 1938, olio su tela [inv. AM 1237]; Bagnanti, 1925, olio su tavola [inv. AM 431].
3 In merito: S. Gagliardini in G. Bonasegale-E. Zanella, (a cura di), op. cit., 2005, p. 201
4 C. Fabi, Arte e tecnica: un binomio problematico della cultura romana tra le due guerre, in G. Bonasegale-E. Zanella, (a cura di), op. cit., 2005, pp. 69 ss.
5 Acquistato alla Biennale di Venezia del 1926, il dipinto, oggi in deposito presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, è firmato in basso a destra “Felice Carena” e iscritto sul retro “Bozzetto delle bagnanti fatto a Firenze nel 1925. Felice Carena”.
6 A. Maraini, Felice Carena in Biennale Internazionale d’arte di Venezia, catalogo della mostra, Venezia 1926, p. 29. In merito anche: U. Ojetti, Tre quadri di Felice Carena in “Dedalo”, V,1925, pp. 530 ss; A. Maraini, Il pittore Felice Carena in “Dedalo”, VII, 1926, pp. 186 ss.
7 Nelle pagine della rivista mensile di arte e letteratura, edita dal 1925 al 1934, Carena pubblicò in diverse occasioni schizzi e disegni. Direttore e promotore di Solaria era lo scrittore e critico d’arte Raffaello Franchi, fondatore a Firenze nel 1922 del Sindacato di Belle Arti cui fecero capo dal 1925 le annuali Esposizioni di Arte Toscana.
8 Il gruppo agisce in parallelo con il movimento del Novecento di Margherita Sarfatti. La prima mostra collettiva a Firenze è del 1927 e dall’anno successivo luogo di esposizione è la galleria La Bottega d’Arte in Via Roma. In merito: Il Novecento toscano. Opere dal 1923 al 1933, a cura di C. Marsan, Fiesole 1989, catalogo della mostra, Firenze 1989, pp. 51-84; C. Pirovano (a cura di), La Pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, Milano 1991, I, p. 408 ss.
9 La Toscana e il Novecento, a cura di F. Cagianelli-R. Campana, Crespina 2001, catalogo della mostra, Pisa 2001, p. 96.
10 G. Uzzani, La pittura del primo Novecento in Toscana 1900-1945, in C. Pirovano (a cura di), op. cit., 1991, p. 411.
11 Di Gianni Vagnetti in collezione anche: Natura morta 1 (1935), olio su tela [inv. AM 1096]; Natura morta, 1926, olio su tela [inv. AM 433]; Ritrattino di Liliana (1945), olio su cartone [inv. AM 2911]. In merito: G. Bonasegale (a cura di), op. cit., 1994, pp. 462 ss, pp. 590 ss (con bibliografia precedente).
12 M.G. Sarfatti in XCIII Esposizione di Belle Arti della Società degli Amatori e Cultori, Roma 1927, catalogo della mostra, Roma 1927, p. 27.
13 A. Ponente in G. Bonasegale (a cura di), op. cit., 1994, pp. 438 ss, pp. 578 ss (con bibliografia precedente). Di Socrate in collezione anche: Il tacchino, 1923, olio su tela [inv. AM 848].
14 F. Pirani in R. Siligato-M.E. Tittoni, op. cit., 1990-1991, pp. 190-192. Riguardo alla pubblicazione di saggi sul ritorno alla tradizione in Italia e in Europa, vedi anche: C. Pirovano (a cura di), op. cit., 1991, I, p. 490.
15 S. Bonfili in G. Bonasegale-E. Zanella (a cura di), op. cit., 2005, scheda n. 57, pp. 215-216 (con bibliografia precedente). L’opera è indicata anche come L’innamorato (Dario). Di Leonetta Cecchi Pieraccini in collezione anche: Riviera di Ponente 1927, olio su compensato [inv. AM 231]; Fiori ed oggetti (1932-1935), monotipo su carta incollata su tela [inv. AM 1020].
16 Notevole fu il contributo teorico di Margherita Sarfatti al dibattito critico di questi anni. In particolare si veda: M. G. Sarfatti, Storia della pittura moderna, Roma 1930; Da Boccioni a Sironi. Il mondo di Margherita Sarfatti, a cura di E. Pontiggia, Brescia 1997, catalogo della mostra, Milano 1997.
17 La prima mostra del gruppo si tenne a Milano nel 1922 presso la Galleria Pesaro; oltre a Sironi e a Funi, esposero Bucci, Dudreville, Malerba, Marussig e Oppi. L’attività di Novecento si estese ben presto al resto d’Europa con numerose mostre ed eventi. In merito: Il “Novecento” milanese, a cura di E. Pontiggia-N. Colombo-C. Gian Ferrari, Milano 2003, catalogo della mostra, Milano 2003 (con bibliografia precedente); E. Pontiggia (a cura di), Il Novecento italiano, Milano 2003; E. Pontiggia, Modernità e classicità. Il ritorno all’ordine in Europa dal dopoguerra agli anni Trenta, Milano 2008.
18 E. Pontiggia, Il Novecento e il Déco, in Arte in Italia. Déco 1919-1939, a cura di F. Cagianelli-D. Matteoni, Rovigo 2009, catalogo della mostra, Milano 2009, pp. 50 ss.
19 Notevole fu il contributo teorico fornito alla fine degli anni Dieci da Carlo Carrà, dapprima sulla rivista “La Voce” e successivamente, accanto a de Chirico, sulla rivista “Valori Plastici”. Si veda: M. Carrà, Carlo Carrà, tutti gli scritti, Milano 1978. Sul recupero dei temi quotidiani nella cultura artistica di questi anni, si veda: Italia quotidiana. Dipinti e sculture dagli anni Venti agli anni Quaranta della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, a cura di M. Margozzi, Frascati 2003-2004, catalogo della mostra, Roma 2003, pp. 12 ss.
20 M. Rovigatti in G. Bonasegale (a cura di) , op. cit, 1994, pp. 435-438 (con bibliografia precedente). Il dipinto è noto anche come La famiglia del pastore ed è stato datato al 1930. Le analisi condotte durante il restauro negli anni Novanta hanno provato l’esistenza di sette strati di colore così da rendere plausibile almeno un ripensamento dell’artista.
21 Già nel 1924 Margherita Sarfatti, recensendo la Biennale di Venezia, definiva sintetica la maniera di Sironi. Sulla classicità ripensata attraverso lo stile sintetico dei futuristi, vedi: E. Pontiggia, op. cit., 2009, p. 53
22 M. Rovigatti in G. Bonasegale (a cura di), op. cit, 1994, pp. 310-312 (con bibliografia precedente); S. Gagliardini, in G. Bonasegale-E. Zanella (a cura di), op. cit., 2005, scheda n. 65 pp. 220 ss (con bibliografia precedente). Di Funi in collezione anche: Ananas (1956), litografia [inv. AM 4376].
23 In proposito: I. Insolera, Roma moderna, un secolo di storia urbanistica, Torino 1971, pp.122 ss., pp. 136 ss.
24 In proposito: Imago urbis Romae, l’immagine di Roma in età moderna, a cura di C. de Seta, Roma 2005, catalogo della mostra, Milano 2005.
25 Funi 1890-1972. L’artista e Milano, a cura di N. Colombo–E. Pontiggia, Milano 2001, catalogo della mostra, Milano 2001, p. 120.
26 Ci si riferisce alle opere: Mario Mafai, Demolizione di via Giulia, 1936, olio su tela [inv. AM 1127] e Afro, Demolizioni (1939), olio su tela [inv. AM 1356].
27 A. Cambedda in G. Bonasegale (a cura di) , op. cit, 1994, pp. 284 ss (con bibliografia precedente).
28 L’opera fu esposta alla Quadriennale del 1935 e in questa occasione acquistata per le collezioni capitoline. Nel catalogo della mostra l’artista presentava con una estesa introduzione le sue opere (II Quadriennale d’Arte Nazionale, Roma 1935, catalogo della mostra, Roma 1935, p. 93 ss). In merito alla poetica di de Chirico in relazione ai suoi scritti, si veda: G. de Chirico, Il meccanismo del pensiero, critica, polemica, autobiografia, 1911-1943, a cura di M. Fagiolo dell’Arco, Torino 1985; M. Calvesi, La metafisica schiarita. Da de Chirico a Carrà. Da Morandi a Savinio, Milano 1982; Giorgio de Chirico Alberto Savinio Colloquio, a cura di L. Cavadini – S. Pegoraro, Lissone 2007-2008, catalogo della mostra, Milano 2007.
29 Giorgio de Chirico. L’enigma e la gloria, a cura di C. Crescentini-T. Sicoli, Catanzaro 2006, catalogo della mostra, Catanzaro 2006, p. 45.
30 C. Fabi, in G. Bonasegale-E. Zanella (a cura di), op. cit., 2005, p. 208.
31 A. Cambedda in G. Bonasegale (a cura di), op. cit., 1994, pp. 432-434 (con bibliografia precedente). Di Gino Severini in collezione anche: L’Angelo rapitore (1933-1935), olio su tela [inv. AM 1142]; Natura morta (1929), olio su tavola [inv. AM 775].
32Una collezionista e mecenate romana Anna Laetitia Pecci Blunt 1885-1971, a cura di L. Cavazzi, Roma 1992, catalogo della mostra, Roma 1991, p. 102.
33 La maschera e l’artista, a cura di F. Cagianelli-D. Matteoni, Marina di Pietrasanta 2005, catalogo della mostra, Firenze 2005, pp. 55 ss.
Dalla “conquista dell’aria” alla “nostalgia terrestre”.
Esempi di aeropittura nelle collezioni della Galleria Comunale d’Arte Moderna
Federica Pirani
Il mito del volo aereo e l’ebbrezza della visione dell’alto, insieme alla trasfigurazione della realtà visiva dovuta alla velocità della macchina, sono costanti della poetica futurista e ne segnano, altresì, la genesi.
“Noi stiamo per assistere alla nascita del Centauro e presto vedremo volare i primi angeli” scrisse Marinetti nel Manifesto del Futurismo del 1909 e , ancora più esplicitamente, in Uccidiamo il chiaro di luna , raccontò che furono i pazzi e i futuristi con “mantelli turchini rapiti nelle pagode” e con “tele color ocra dei velieri” a fabbricare aeroplani. “Ecco il mio biplano multicellulare a coda direttiva (…) Ho fra i piedi una minuscola mitragliatrice che posso scaricare premendo un bottone d’acciaio (...) E si parte nell’ebbrezza di un’agile evoluzione, con un volo vivace, crepitante, leggiero e cadenzato come un canto di invito a bere e a ballare. Avanti squadroni di flutti! I nostri aeroplani saranno per voi, a volta a volta, bandiere di guerra e amanti appassionate “ .
Se il topos del volo aereo e della sconfitta della gravità avevano trovato nello Zarathustra nicciano un’articolata definizione, fu il movimento futurista che prefigurò compiutamente, per la prima volta, attraverso i manifesti teorici, gli scritti poetici e le opere d’arte, la possibilità di un sostanziale rinnovamento delle capacità psicofisiche e della sensibilità umana per effetto delle grandi scoperte scientifiche, tecnologiche e dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, ben oltre la banalizzazione semplificatrice che ridusse il concetto alla pura equazione futurismo-esaltazione della macchina.
La contingenza storica della guerra segnò un’importante cesura con l’immagine del volo quale straordinaria espressione del mito della velocità e del nuovo rapporto tra uomo e macchina; alla volontà ascensionale intesa come impulso prometeico alla “conquista delle stelle” e alla dominazione dell’esistente, subentrò la percezione dell’innalzamento e della visione dell’alto anche come possibilità di salvezza dalle trincee e dalle macerie del conflitto in atto. Solo occupando l’aria si potrà sfuggire all’abisso e alla morte.
Proprio dalla diretta esperienza del volo aereo e della guerra nacquero numerose raccolte poetiche – da Aereoplani, canti alati di Paolo Buzzi, pubblicato da Marinetti nel 1909 a Le Cap de Bonne-Espérance, che Jean Cocteau dedicò all’amico soldato Roland Garros, alle raccolte Alcools e Calligrammes di Apollinaire – così come molteplici furono i dipinti che ebbero per soggetto “la conquista dell’aria” 1, dai quadri di Picasso intitolati Notre avenir est dans l’air, al celebre Hommage a Blériot di Delaunay, a La conquete de l’air di La Fresnay , alle opere dei vorticisti inglesi e a quelle dei pittori e fotografi statunitensi come Alfred Stiegliz e Georgia O’Keeffe .
In Italia i riferimenti ai nuovi orizzonti aperti dall’aviazione contenuti in numerosi scritti di Marinetti, ad esempio Le monoplane du pape ma anche alcuni brani de Il Manifesto tecnico della letteratura futurista e del poema parolibero Zang Tumb Tuuum, unitamente alle ricerche futuriste sul dinamismo, la velocità e la deformazione aerodinamica degli oggetti e dello spazio, si riflettono in opere pioneristiche ispirate al volo aereo quali Forme-Forze di un’elica (1914) e Prospettiva area (1919) di Enrico Prampolini , Sensazioni atmosferiche e rumori di aeroplano (1917) di Achille Lega , Forze ascensionali (1919) e Primavera umbra (1921) di Gerardo Dottori, Spirale tricolore (1923) di Roberto Marcello Baldessari, ed altre ancora.
Peraltro se la sperimentazione della prima macchina volante si deve all’intuito di due costruttori di biciclette statunitensi, i fratelli Orville e Wilbur Wright, che nel 1903 fecero volare per trentasei metri il primo prototipo di velivolo, dopo qualche anno di raduni e manifestazioni acrobatiche dei nuovi traballanti apparecchi in numerose città italiane, ben presto l’industria e i piloti della penisola si posero all’avanguardia del volo aereo2 contribuendo ad avvalorare l’idea di un’aviazione che primeggiava nel mondo.
Le imprese dei piloti italiani, come Gianni Caproni, così come le azioni eroiche di Francesco Baracca o Gabriele D’Annunzio, impressionarono molti degli artisti futuristi che vollero sperimentare personalmente il volo aereo. Balla, Dottori, Azari, Depero, Tato, Benedetta – per non citarne che alcuni – sorvolarono città e campagne, riformulando e reinventando tramite la diretta esperienza, non solo visiva ma multisensoriale, la propria percezione del mondo e nuovi “stati d’animo”.
Solo verso la fine degli anni Venti, però, le diverse esperienze dei singoli artisti futuristi, precursori e nuovi accoliti, si ritrovarono raccolte sotto un’unica bandiera riconosciuta proprio nel Manifesto dell’Aeropittura.
Dopo la fase “eroica” degli anni Dieci ed alcuni momenti di grande visibilità collettiva e riconoscimento internazionale – ad esempio a seguito della partecipazione all’Exposition des Arts décoratifs 3di Parigi del 1925 o durante la fase costruttivista dell’“Arte meccanica futurista”, ricca di rapporti e scambi con l’avanguardia europea – i futuristi avevano, infatti, intrapreso percorsi individuali segnati, tutt’al più, dal comune itinerario formativo e dall’appartenenza ad uno stile condiviso in ambito regionale, pur partecipando insieme, quale movimento, alle diverse esposizioni pubbliche.
La prima stesura del Manifesto dell’Aeropittura si deve a Mino Somenzi che lo mise a punto nel 1928 in seguito all’esperienza diretta del volo effettuata insieme a Gerardo Dottori4. Il 22 settembre del 1929 Marinetti pubblicò su “La Gazzetta del Popolo”, l’articolo intitolato Prospettive di volo e aereo pittura . Successivamente il testo, cui si aggiunsero le firme di Balla, Benedetta, Depero, Dottori,Fillia, Prampolini, Somenzi e Tato, venne più volte riformulato e comparve come prefazione ai cataloghi delle mostre itineranti che dovevano promuovere l’aeropittura, in Italia e all’estero, la prima delle quali si svolse, nel febbraio del 1931, a Roma, presso la Camerata degli Artisti a Piazza di Spagna.
Nel Manifesto sono riassunte le effimere prospettive visive offerte dal volo aereo sottolineandone il perenne dinamismo e la continua successione di visioni mutevoli; “Tutte le parti del paesaggio appaiono al pittore: schiacciate, artificiali, provvisorie, appena cadute dal cielo” e “ogni aeropittura contiene il doppio dell’aeroplano e della mano del pittore”. Sono poi descritti gli effetti della prospettiva aerea sulla visione: dalla dispersione del punto di vista, alle distorsioni ottiche, alla particolarità delle linee di fuga, agli elementi fluttuanti conseguenti alle virate o taglienti come angoli nel decollo. Il risultato è una “nuova spiritualità plastica extraterrestre“ e il totale affrancamento dal “demone della gravità”. In verità, se l’aeropittura segna senza dubbio una fase di grande espansione territoriale del movimento futurista e una sua costante presenza nelle più importanti esposizioni nazionali, come le Biennali e le Quadriennali, vari ed estremamente articolati furono gli esiti stilistici e poetici. Al di là del minimo comune denominatore della visione aerea, lo stesso Marinetti, presentando il movimento nel catalogo della III Quadriennale romana del 1939, dove i futuristi erano presenti con centoquaranta opere, individuò quattro tendenze principali: “Una aeropittura stratosferica cosmica biochimica (…) lontana da ogni verismo”, cui appartiene, tra gli altri, Prampolini; una “essenziale , mistica, ascensionale (…) che riduce i paesaggi visti dall’alto alla loro essenza e spiritualizza aeroplani e volatori fino a ridurli a puri simboli” per i quali indicò Filllia e Diulgheroff; una terza tendenza definita “trasfiguratrice, lirica, spaziale, (…) che armonizza sistematicamente il paesaggio italiano imbevendolo di appassionate velocità aeree” cui aderiscono Gerardo Dottori e Benedetta; infine un’espressione aeropittorica “sintetica e documentaria (…) con paesaggi e urbanismi visti dall’alto e in velocità”, tipica di Tato e Ambrosi.
La complessa articolazione stilistica della produzione aeropittorica è ben esemplificata nelle opere futuriste presenti nella collezione della Galleria Comunale di Arte Moderna di Roma, diverse delle quali acquistate proprio in occasione della III Quadriennale5.
Il pioneristico dipinto di Benedetta Marinetti, Velocità di Motoscafo, (tav. 24) è databile tra il 1919 e il 19246, anteriormente, quindi, alla stesura del Manifesto dell’Aeropittura. Eppure fu esposto proprio in occasione della prima mostra del gruppo nel 1931, a dimostrazione del riconoscimento da parte dei contemporanei della personale e anticipatrice ricerca della pittrice e scrittrice romana. Si tratta, come scrive la stessa artista “dell’arabesco impresso dalla velocità di un motoscafo nella polpa azzurra del mare”7; attraverso la moltiplicazione degli elementi dinamici e la trasformazione delle onde in un propagarsi di forme triangolari blu, azzurre e gialle sempre più trasparenti e indefinite man mano che si avvicinano all’orizzonte, Benedetta suggerisce, con il tipico cromatismo sintetico, proprio del futurismo romano del secondo decennio, gli effetti dell’ondulata scia del motoscafo: un piccolo triangolo arancione e nero, quasi un suggello di gusto Décò, in una composizione fortemente stilizzata. L’elemento più innovativo è rappresentato, però, dall’incurvarsi della linea dell’orizzonte e dalla sua lieve, ma significativa, inclinazione verso destra, nella stessa direzione del movimento del motoscafo. Sembra, così, che l’intera visione sia ripresa dall’alto di un aereo durante una virata e, del resto, il parallelismo, anche simbolico, tra mare e cielo ma, soprattutto, tra vele e ali, era già stato sperimentato da D’Annunzio in numerose composizioni poetiche, tanto da diventare, nonostante le riserve di Marinetti, un topos ampiamente condiviso.
Passando “dagli scacchi d’oro e dalla maioliche turchine” del mare di Benedetta8 allo spiritualismo cosmico del dipinto di Fillia, Gli amanti – noto anche col titolo Gli innamorati – (tav. 34) sembra di approdare in un altro universo poetico, sebbene entrambi i dipinti siano presenti nelle esposizioni degli anni Trenta sotto la sigla onnicomprensiva dell’Aeropittura. D’altra parte è lo stesso artista piemontese che scrisse a proposito della sua particolare declinazione della visione aerea: “I miei dipinti spezzano nettamente il cerchio della realtà per indicare i misteri della nuova spiritualità. Non ci possiamo trovare né i caratteri dell’aeroplano in volo, né quelli del paesaggio”9. L’opera, databile al 1930, presenta una corposità materica nelle pennellate e spatolate giocate su terrosi toni di grigio e marrone; l’impianto compositivo, astratto e concettuale, colloca le figure dell’uomo e della donna, quasi fossero gli originari Adamo ed Eva, sulla soglia di uno spazio geometrico caratterizzato da una grande apertura quadrata – forse una porta o una finestra – che si affaccia su di un cielo azzurro da cui si intravede un paesaggio metafisico miniaturizzato. Più che esseri umani i protagonisti del dipinto alludono a forme primarie biomorfiche nella quali è annullata la differenziazione sessuale tanto da farle assomigliare, piuttosto, ad una sorta di ermafrodito primordiale. Evidente l’influenza di quella particolare declinazione della ricerca surrealista che da Arp a Ernst, da Masson a Tanguy, finanche ad un certo Picasso, indagò l’incessante metamorfosi e l’ibridazione delle forme viventi insieme alla dimensione spirituale del mondo arcaico e che Fillia ha potuto conoscere direttamente durante i suoi frequenti soggiorni a Parigi.
Come Fillia anche Prampolini interpreta in maniera più creativa e astratta le suggestioni del Manifesto dell’Aeropittura, avvicinandosi sensibilmente alle analoghe ricerche delle avanguardie europee di ambito parasurrealista, da Baumeister agli artisti di “Abstraction-Création”.10
Alla fine degli anni Venti il periodo della sua poetica, caratterizzato da immagini schematizzate secondo campiture uniformi, soggetti meccanici e forme geometriche, in linea col mito della macchina che attraversava i contemporanei movimenti europei, dal cubismo sintetico al costruttivismo, al neoplasticismo, può dirsi concluso e, con ancora maggiore consapevolezza, dalla pubblicazione del Manifesto futurista del 1929, si apre un nuovo capitolo della ricerca che lo stesso artista definisce “Idealismo cosmico”.
Come in numerose opere dei primi anni Trenta anche in Marinaio nello spazio (Marinetti poeta del golfo della Spezia), (tav. 33) acquistato alla II Quadriennale da Giuseppe Bottai, Governatore di Roma, per le raccolte della Galleria Mussolini insieme a centodue opere11, Prampolini inserisce elementi realistici, finanche ironici, nella creazione di immagini fantastiche che alludono a forme antropomorfiche. Si tratta di organismi umani proiettati in una dimensione cosmica e fluttuante (ad esempio L’automa quotidiano del 1930, Abitante della stratosfera del 1931 ), inquadrati da una prospettiva aerea che appiattisce le forme e sovrappone i piani sagomati, a volte polimaterici, secondo i principi poetici espressi nel Manifesto e originalmente reinterpretati dall’artista. “Nel nostro manifesto dell’aeropittura” – scrive Prampolini nel 1931 –“abbiamo enunciato le basi estetiche e tecniche delle nuove possibilità pittoriche intuite e realizzate da alcuni aereopittori futuristi dichiarando, come espressione estrema, che il quadro aeropittorico deve essere policentrico. Padroni assoluti dei principi di espansione di forme-forze nello spazio; di simultaneità di tempo spazio; e della polidimensionalità prospettica; ritengo che per giungere alle alte mete di una nuova spiritualità extraterrestre, dobbiamo superare la trasfigurazione della realtà apparente , anche nella contingenza dei propri sviluppi plastici e lanciarci verso l’equilibrio assoluto dell’infinito ed in esso dar vita alle immagini latenti di un nuovo mondo di realtà cosmiche”.12
La composizione è un omaggio a Marinetti, autore dell’Aeropoema del Golfo di La Spezia, nel quale venivano esaltate la qualità “meccaniche-aviatorie-industriali-militari” del Golfo; peraltro la città era stata negli anni Trenta un centro propulsore dell’avanguardia promosso dallo stesso leader del movimento e dal gruppo futurista ligure-piemontese.13
Tra i primi riconoscimenti ufficiali dell’aeropittura è da annoverare l’acquisto da parte del Governatorato di Roma del trittico di Tato intitolato Sensazione di volo, esposto per la prima volta alla “Mostra del Centenario della Società degli Amatori e Cultori di Belle Arti” del 1929.14 (tavv. 25-27) Guglielmo Sansoni, in arte Tato, anima del gruppo futurista emiliano, si era trasferito a Roma nel 1925 ed ebbe modo, insieme ad altri artisti, di sorvolare la Capitale a bordo di un aereo Caproni15. Non è da escludere, quindi, che i tre dipinti possano rappresentare una sorta di traduzione delle visioni e delle sensazioni vissute dal pittore a bordo dell’aereo. Del resto nel lavoro è ben evidente un intento didascalico quasi a voler mostrare all’osservatore il passaggio da una visione “banalmente” aerea, a volo d’uccello, al policentrismo dinamico tipico della poetica aeropittorica.
Nonostante nel corso degli anni il trittico sia stato smembrato e, a diverse esposizioni, siano stati arbitrariamente esposti le diverse parti come singoli dipinti, l’intento unitario del lavoro risulta evidente; nel primo riquadro è raffigurato un incrocio cittadino: strade, case, abitanti, mezzi di locomozione sono ben identificabili, la pittura appare pastosa e, al di là di una prospettiva fortemente inclinata, la visione risulta piuttosto realista. Nel secondo dipinto l’immagine della città, ripresa del medesimo punto di vista, è resa sinteticamente attraverso la scomposizione geometrica di piani e volumi, scompaiono i particolari, mentre linee dinamiche si intersecano formando delle strutture a mosaico con stesure cromatiche pressoché uniformi. Nella terza inquadratura intervengono tutti gli elementi della poetica futurista enunciati dai manifesti; al centro della composizione è la spirale a vortice disegnata dall’aeroplano in picchiata che frammenta e fa esplodere lo spazio circostante, la velocità moltiplica i punti di vista, fino “ad abbracciare la molteplicità dinamica con la più indispensabile delle sintesi“, fissando “l’immenso dramma visionario e sensibile del volo”.16
Eppure, quale esito paradossale della conquista dell’aria, questa particolare declinazione aeropittorica, di cui Tato fu tra i principali esponenti, trasforma le vedute urbane in un reticolo geometrico, più o meno deformato e dilatato ma, più che aprirsi verso la visione infinita del cielo, il ribaltamento dei piani elimina la linea dell’orizzonte offrendo allo sguardo un’immagine obbligata verso la terra.17
Imponente fu la presenza dei futuristi alla Mostra futurista di Aeropittori e Aeroscultori organizzata da Marinetti all’interno della III Quadriennale del 1939; vi esposero ben quarantasette artisti con centoquaranta opere, tre delle quali entrarono nelle collezioni del Governatorato: Aeropittura di Osvaldo Peruzzi (tav. 28)Vite orizzontali di Tulllio Crali (tav. 31), Sogno di motore di Sante Monachesi (tav. 29). Un’altra opera di Monachesi, A foglia morta su Roma (tav. 30), fu acquistata direttamente dall’artista qualche anno dopo.
Marinetti, presentando l’opera di Osvaldo Peruzzi in occasione della Quadriennale, la inserisce nella corrente aeropittorica “trasfiguratrice, lirica, spaziale” insieme a Dottori e Benedetta. In verità la poetica dell’artista milanese risente piuttosto della sua formazione specificamente tecnica e della cultura tecnologica appresa nell’ambiente familiare. Ingegnere industriale, dedito alla vetreria di famiglia, Peruzzi inizia a dipingere all’inizio degli anni Trenta avvicinandosi alle tematiche aeropittoriche nel 1933-’34. Nel dipinto, intitolato genericamente Aeropittura, ma anche più specificatamente L’uomo aereo e Identificazione uomo-macchina18, le silhouettes della fusoliera , dell’elica, del volto del pilota, delle ali e delle nuvole del cielo, sono disposte su un unico piano e campite con colori freddi, metallici e trasparenti che alludono ai materiali costitutivi. La composizione, pur se conserva la riconoscibilità del soggetto rappresentato, non è formalmente lontana dalle coeve opere di alcuni esponenti della ricerca non-figurativa di ambito lombardo che, proprio nella Quadriennale del 1939 e del 1943, esposero insieme ai futuristi. 19 Peraltro il rapporto tra uomo-macchina, anche come riflessione sull’automazione nell’industria, era ben presente a Peruzzi che nell’inchiesta promossa da Fillia sulla “meccanizzazione della vita” scrisse: “ La macchina, liberando i muscoli dallo sforzo fisico, ha permesso all’uomo di lottare contro importantissimi fattori: tempo spazio, immensificandogli le doti di velocità, dandogli la possibilità di volare, allargando così sensibilità e campo d’azione individuali, esaltando le doti dell’individuo e creando quindi il superamento del lavoro fisico con il lavoro meccanico, per nulla disgregatore della personalità ma esaltatore del livello intellettuale dell’uomo per mezzo della liberazione fisica muscolare”.20
Di tutt’altra atmosfera è il dipinto del pittore di origini dalmate Tullio Crali, Vite orizzontale, acquistato dal Governatorato per Ottocento Lire. Presentando Crali come “il più grande aeropittore del momento fra gli artisti italiani e stranieri” Marinetti ricorda che a Roma, durante la Quadriennale, gli aviatori sostavano a grappoli davanti ai suoi quadri: essi vi riconoscevano ammirati e commossi le loro sensazioni”21; in effetti, proprio in quegli anni, l’artista ebbe l’eccezionale possibilità concessagli dal maggiore dell’aeroporto di Gorizia, – città dove risiedeva – di volare sulle carlinghe degli aerei da caccia “per derubare il cielo di tutti i suoi acrobatismi e scorrere fuori orizzonte”. Alla Quadriennale del 1939, oltre al dipinto acquistato per la Galleria romana, ve ne erano molti altri direttamente ispirati alle acrobazie aeree: Scivolate d’aria, Looping rovesciato, A foglia morta, Giro della morte, Tonneau ma, a differenza, delle sue precedenti ricerche, improntate ad una visione meccanica anche se non rigidamente geometrizzante del volo aereo, nelle opere della fine degli anni Trenta si avverte una nuova drammaticità espressiva.
La manovra acrobatica che porta a compiere un giro completo dell’aereo ad alta velocità, provoca la persistenza delle immagini della superficie statica del terreno – nel caso di Vite orizzontale, i tetti delle case cittadine – sulla retina del pittore–pilota; il continuum spazio temporale annulla, così, la separazione tra cielo e terra mentre l’avvitamento dell’aereo suscita un effetto spiraliforme che culmina in una sorta di gorgo dai colori plumbei. Al di là quindi della precisa descrizione degli effetti visivi dell’acrobazia aerea direttamente vissuta, nel dipinto emerge una “livida cosmogonia” dove il cielo non è più uno spazio mobile e potenzialmente infinito ma “acqua allo stato di ghiaccio”22 e le nuvole, dai toni verdi, grigi e neri incombono sulla città celando allo sguardo l’orizzonte. Più che l’ebbrezza dell’elevazione sembra di assistere alla scoperta de “le gouffre d’en haut” o ad uno “sprofondamento in un tunnel psicanalitico”23.
Ancora differenti gli esiti della ricerca aeropittorica di Sante Monachesi. Profondamente influenzato dagli scritti di Boccioni, tra il 1928 e il 1929, sperimenta strutture “spiraliche” e “diagonali” sia in disegni che in sculture. Nel 1932, insieme a Rolando Bravi, Bruno Tano ed altri, è tra i fondatori del gruppo futurista maceratese, in seguito “Gruppo Boccioni”. All’inizio degli anni Trenta realizza le prime sculture di forme dinamiche cui faranno seguito gli allumini a luce mobile e le pitture astratte che verranno esposte a Parigi nel 1937 e a New York nel 1939. Nello stesso anno partecipa con tre opere alla Quadriennale: Aeropittura di eliche imperiali, Metamorfosi aerea e Sogno di motore, quest’ultima acquistata per le collezioni della Galleria Comunale. Nel dipinto, “un autentico ritratto di macchina aerea”24, come definì Marinetti i lavori di questi anni che hanno per soggetto gli aerei da guerra, trasfigura la forte icasticità e durezza del metallo attraverso una tecnica pittorica vibrante e, “una festosità di tinte (che) rallegra intelligentemente le macchine aeree al punto di dare alle ali, alle carlinghe, alle eliche il fascino di un giardino primaverile”25.
Comperata direttamente dall’artista nel 1942 è, invece, l’opera intitolata A foglia morta su Roma, che era stata esposta alla XXI Biennale di Venezia insieme a quelle di molti altri aeropittori futuristi. La struttura verticale dell’immagine, più che ricordare una vera e propria discesa “a foglia morta” sulla città, sembra una libera composizione di frammenti e scorci urbani che emergono dalle nuvole come apparizioni o ricordi. La simbolica visione del Colosseo visto dall’alto raffigurato nel dipinto, è peraltro un topos della veduta aerea che compare addirittura alle origini della fotografia quando alcuni fotografi e pittori, come Giacomo Caneva e Ippolito Caffi, poterono ritrarre il celebre monumento, quasi un occhio magico posato a terra, durante un viaggio in mongolfiera.
Già dall’analisi stilistica, tuttavia, si evidenzia l’interesse dell’artista verso una pittura d’impasto, dove l’andamento delle pennellate si rapporta con forme e cromie giustapposte suggerendo gli esiti della futura poetica di Monachesi particolarmente incline alle valenze espressioniste e post-cubiste.
La semplice analisi di queste opere, per lo più acquistate in esposizioni pubbliche per le raccolte della Galleria Comunale d’Arte Moderna – allora Galleria Mussolini – è, pur da un punto di vista particolare, emblematica ed esemplare. Come si è visto, la sintesi poetica, che trova nel Manifesto dell’aeropittura, un’efficace elaborazione teorica condivisa da numerosissimi artisti della prima e seconda generazione futurista, rafforza l’identità del movimento e consacra Marinetti come il suo più importante animatore e portavoce; si tratta, però, solo di un sottile velo che permette di avvolgere le diverse espressioni in una unità prima impensabile e in una dimensione collettiva che rafforza i singoli autori nel momento della partecipazione ad importanti esposizioni nazionali e internazionali ma che lascia indubbiamente emergere differenze e sensibilità se non contrapposte certo molto distanti. L’appello di Prampolini a liberarsi definitivamente della “nostalgia terrestre” per approdare ad una visione cosmica, in una costante tensione verso l’ignoto e il soprannaturale, sarà accolto solo da alcuni, così come apparirà discontinuo il legame e lo scambio con le analoghe ricerche “parasurrealiste” in ambito internazionale. Resta naturalmente l’originalità della ricerca di Gerardo Dottori26 che cercò di sintetizzare nel suo misticismo aeropittorico le istanze meccaniche, urbane, industriali – tipiche del Futurismo – alla realtà rurale e alla spiritualizzazione della natura quale espressione, direi antropologica, del suo legame con la terra umbra. Così come il polimaterismo di alcune aeropitture prampoliniane precorre gli esiti di ricerche poetiche dei successivi decenni, le più riuscite visioni aeree, pur fortemente illustrative e a volte didascaliche, prefigurano, per l’essenzialità e l’immediatezza espressiva, il linguaggio pop e quello sintetico e metonimico del fumetto.
Un altro elemento che, partendo dal caso particolare degli acquisti per la Galleria Mussolini, illumina o meglio conferma il rapporto tra il regime e movimento d’avanguardia, è l’esigua presenza futurista in questa, come in molte altre raccolte pubbliche.27
Mentre Marinetti rivendica il ruolo del futurismo quale espressione delle istanze rivoluzionarie del Fascismo, della funzione di guida nell’arte moderna, della superiorità sulla produzione internazionale, il regime non riconoscerà mai nessun “primato” ai futuristi. Piuttosto la politica culturale del Ventennio si caratterizzò, per molto tempo, come una “non scelta” preferendo abilmente accontentare, di volta in volta, i diversi, perfino contrapposti, movimenti che del regime vollero farsi interpreti e propugnatori, sia che questi raccomandassero il ritorno alla sana tradizione, agli archi e alle colonne, al mestiere di pittore, sia che esaltassero il mito della macchina, della velocità e della tecnica. Resta, comunque, un dato significativo, seppur parziale da prendere in considerazione, in relazione a ciò che si è detto: “La Galleria Mussolini, fiore all’occhiello del Governatorato di Roma, cambia completamente volto durante il ventennio fascista, arricchendo le sue collezioni di preziosi capolavori, la maggior parte dei quali acquistati alle Quadriennali: ben trecentocinquantatre opere nelle prime quattro edizioni; di queste, cinque, appartengono al secondo futurismo”28.
Poco prima del secondo conflitto mondiale dall’espressione visiva delle acrobazie aeree si passerà, con l’”aeropittura di guerra” a raffigurare i bombardamenti e il loro esiti; la ricerca artistica si trasformò, così, in pura propaganda e l’aereo, da presenza mitica e angelo meccanico per la “conquista delle stelle”divenne, icasticamente, un efficace strumento di morte e distruzione.
NOTE
1 Nel 1910 l’Accademia di Francia indisse un concorso di poesia intitolato “La conquête de l’air”. Vedi a proposito G.Lista, Apollinaire et la conquête de l’air, in “La Revue des Lettres Modernes”, Paris, n°380-384, décembre 1973, pp. 115-129.
2 Nel corso degli anni Trenta l’Italia deteneva tutti i maggiori record di quota, distanza, velocità nelle varie categorie di aerei . Vedi M.Mondini, L’aereoplano:dalle intuizioni leonardesche sul volo umano al mito della velocità, in catalogo della Mostra Il mito della velocità , a cura di E.Martera, P.Pietrogrande, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 19 febbraio-18 maggio, Giunti, Firenze, 2008, pp. 150-153.
3 Sul successo della presenza futurista all’ Exposition de Arts décoratifs di Parigi, vedi F.Pirani, Tre italiani a Parigi. La partecipazione futurista all’”Exposition des Arts Décoratifs” del 1925, in Il Decò in Italia, catalogo della mostra a cura di F.Benzi, Milano, Electa, 2004, pp. 274-294.
4 Sul documento, inedito fino a pochi anni fa, conservato al MART nell’Archivio del 900 di Rovereto, vedi M.Duranti, Genesi e interpretazioni del Manifesto dell’areopittura, in catalogo della mostra, Futurismo 1909-1944, Arte, architettura, spettacolo, grafica, letteratura, a cura di E. Crispolti, Mazzotta, 2001, pp. 213-219 . Al Manifesto dell’Aeropittura seguì il Manifesto tecnico dell’aeroplastica futurista, firmato da B.Munari, C.Manzoni, G.Furlan, Ricas , Regina, pubblicato su “Sant’Elia” il 1 marzo del 1934 e il Manifesto futurista umbro dell’aeropittura, di Gerardo Dottori, sottoscritto da Meschini, G.Preziosi, A.Bruschetti. Per la bibliografia generale sull’Aeropittura e il Secondo futurismo si rimanda ai testi di E.Crispolti, M.Calvesi, G.Lista, C.Salaris, M.Duranti e ai recenti cataloghi delle mostre realizzate nel 2009 in occasione del Centenario del Futurismo.
5 Sulle opere futuriste della Galleria Comunale d’Arte Moderna e anche sul movimento dell’aereopittura in generale, vedi soprattutto G.Bonasegale, a cura di, Catalogo generale della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, 1995, M.Rovigatti, Il fascismo e la politica delle arti tra modernità e tradizione 1939-1943: Le Quadriennali di guerra, in Catalogo generale della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea , cit. pp.79-136, il catalogo della mostra Da Balla a Morandi. Capolavori dalla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, a cura di G.Bonasegale, E.Zanella, Roma, 2005; G.Bonasegale, L’estetica del volo tra futurismo e aeropittura, In Futurismo.Aviomania.Tecnica e cultura italiana del volo, 1903-1940, catalogo della mostra, a cura di A.M.Andreoli, G.Caprara, E.Fontanella, Roma, 2003, pp.169-174. Nello stesso catalogo vedi inoltre il saggio di C.Salaris, La religione della velocità che fornisce una completa visione sulle diverse declinazioni del mito aereo nell’avanguardia futurista, dalla poesia alla scultura, dal teatro all’architettura. Vedi, inoltre, G.Bonasegale, Il Governatorato di Roma lesina gli acquisti, in I futuristi e le Quadriennali, Milano, 2008, pp. 73-85.
6 M.Rovigatti, scheda dell’opera Velocità di motoscafo, in G.Bonasegale, a cura di, Catalogo generale della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, cit. pp 211-212
7 Benedetta Cappa Marinetti, Sensibilità futurista, in “L’Ambrosiano”, 10 dicembre, 1924. Per le notizie specifiche sui dipinti esposti in occasione di questa mostra così come sulle notizie bio-bibliografiche sugli artisti presenti vedi in questo catalogo Apparati a cura di Stefania Gagliardini.
8 F.T.Marinetti, scrisse a proposito del dipinto della moglie: “un’elasticità che snoda e fa anguillare una scia nel mare napoletano a scacchi d’oro e maioliche turchine del famoso quadro di Benedetta Velocità di motoscafo” in F.T.Marinetti, “Benedetta”, in “L’Impero”, 29 gennaio 1931.
9 Fillia (Luigi Colombo), Spiritualità aerea, in “Oggi e domani”, 4 novembre 1930. Vi si legge, fra l’altro: “Non dobbiamo accontentarci degli aspetti della natura meccanica soltanto per trasformarli:dobbiamo dare, noi artisti, dei nuovi aspetti plastici , in cui l’azione (anche fantastica) della natura meccanica sia dimenticata completamente”. Il testo è ripreso nel 1932 nel “Manifesto dei futuristi torinesi”.
10 Cfr E.Crispolti, Storia e critica del Futurismo, Bari, 1987 in particolare i capitoli I, II, IX.
11 Sugli acquisti per la Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma vedi G.Bonasegale, a cura di , Catalogo generale della Galleria Comunale d’Arte moderna, cit. e G.Bonasegale, Il Governatorato di Roma lesina gli acquisti, in I futuristi e le Quadriennali, cit. e M. Catalano, A Roma: una collezione civica dedicata all’arte moderna e contemporanea, nel catalogo della mostra da Balla a Morandi. Capolavori dalla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, a cura di G.Bonasegale, E.Zanella, cit. pp.55-61 Nelle raccolte della Galleria è presente un altro dipinto di Prampolini, La corrida (tav. 32), acquistato in occasione della I Mostra dell’animale nell’arte svoltasi a Roma nel 1930.
12 E.Prampolini, Aeropittura e superamento terrestre, in “Oggi e Domani”, a.III, n°5, Roma, 30 novembre 1931, p. 5.
13 A partire dal 1933 si svolse, da un’idea di Marinetti, il “Premio di Pittura Golfo di La Spezia” e l’aeropoema fu presentato proprio in occasione del Premio.
14 Vedi la scheda del trittico di M.Rovigatti in, Catalogo generale della Galleria Comunale d’Arte Moderna, a cura di G.Bonasegale, cit., pp. 446-45.0
15 G.Rotiroti, Con Balla e C. in volo su Roma, “L’Impero”, 1 luglio 1928, p. 5.
16 “L’aeropittura.Manifesto futurista” , dal catalogo della Mostra di aeropittura e di scenografia, Galleria Pesaro, Milano, ottobre-novembre, 1931, pubblicato in E.Crispolti, (a cura di) ,Ricostruzione futurista dell’Universo, catalogo della mostra, Torino, 1980, p.493
17 Cfr G.Lista, Gli anni Trenta: l’aeropittura, in catalogo della mostra Futurismo 1909-2009, a cura di G. Lista e A. Masoero, Milano, 2009,pp 237-271.
18 Sul retro del dipinto si legge la scritta “L’uomo aereo”e “Identificazione uomo macchina”.
19 A proposito della presenza nelle sale futuriste alle Quadriennali degli astrattisti milanesi e comaschi vedi E. Crispolti, “Futuristi astrattisti” nella III e IV Quadriennale in I futuristi e le Quadriennali, cit, pp. 42-45.
20 In “Città nuova”, a.III, 30 maggio 1934. Vedi, in particolare, E,Crispolti, Osvaldo Peruzzi un navigatore della modernità, in catalogo della mostra O.Peruzzi. Attraverso e dopo il Futurismo, a cura di E.Crispolti, Livorno, 1998, pp. 9-29.
21 F.T.Marinetti, in catalogo della mostra di Tullio Crali, presso il Circolo degli artisti di Gorizia, riportato N.Bressa, S.Gregorat, Apparati, in catalogo della mostra Crali il volo dei futuristi, a cura di M.Masau Dan, Trieste, 2003, p. 90.
22 Per questa particolare e condivisibile interpretazione di alcune fasi della poetica Crali vedi M.Calvesi, Crali aeropittore, in Crali, il volo dei futuristi, catalogo della mostra, cit. pp. 34-38.
23 Idem.
24 F.T. Marinetti, Sante Monachesi, “Meridiano di Roma”, 8/X/1939.
25 Ibidem.
26 La Galleria Comunale d’Arte Moderna possiede un’importante opera di Gerardo Dottori, La Natività, acquistata in occasione della I Mostra internazionale di Arte Sacra svoltasi al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1930, non esposta in questa occasione.
27 Su questo tema vedi l’intelligente saggio di G. Bonasegale, Il Governatorato di Roma lesina gli acquisti, in I futuristi e le Quadriennali, cit.
28 Idem, p. 82.
* Desidero ringraziare Maria Catalano per la disponibilità mostrata nell’indicarmi il materiale documentario ed archivistico necessario alla stesura di questo scritto.
Percorsi del Novecento romano presenta una selezione di circa settanta dipinti e sculture, importanti testimonianze della cultura e dell’arte italiana della prima metà del Novecento, esposte dal 31 marzo al 4 luglio 2010 al Casino dei Principi di Villa Torlonia. La mostra è curata dalla Galleria Comunale d’Arte Moderna e promossa dall’Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione del Comune di Roma - Sovraintendenza ai Beni Culturali. Organizzazione e servizi museali sono di Zètema Progetto Cultura.
Sono presenti in mostra alcuni capolavori quali Il dubbio (1907) di Giacomo Balla, Ortensie (1911) di Enrico Lionne, Il vestito viola (1923) di Camillo Innocenti, Serenità (1925) di Felice Carena, Il Cardinal Decano (1930) di Scipione, Combattimento di gladiatori (1933-1934) di Giorgio de Chirico, Donne che si spogliano (1934) di Mario Mafai, Palestra (Bagnanti) (1934-1935) di Fausto Pirandello, Marinaio nello spazio (1934) di Enrico Prampolini, La famiglia (1927) di Mario Sironi, Il pastore (1930) di Arturo Martini.
Accanto a queste opere di eccezionale pregio e forza visiva, ne figurano altre mai esposte finora, anch’esse pienamente significative dell’ambiente culturale e artistico romano della prima metà del Novecento.
Attraverso cinque sezioni la mostra conferma ancora una volta il ruolo di grande officina culturale della città di Roma, divenuta capitale dello Stato italiano.
Sezione I – Secessione e Divisionismo: il percorso tocca i momenti più emozionanti dell’arte a Roma nei primi decenni del secolo: accanto agli esiti italiani del post-impressionismo, che in Balla preludono alla rivoluzione futurista, sono presentati, attraverso opere di Amedeo Bocchi, Ferruccio Ferrazzi, Antonio Mancini, alcuni degli episodi più interessanti della Secessione, movimento culturale degli anni Dieci e frattura inquieta rispetto all’arte ufficiale e accademica.
Sezione II – Classicismo: viene esposta, per la prima volta a Roma, la grande tela di Felice Carena, Serenità, opera del 1925 caposaldo dell’attività dell’artista. Vi ruotano intorno, in una vivace contrapposizione, alcune opere del fronte classicista romano, toscano e milanese accanto alle posizioni teoriche espresse dalle opere di Giorgio de Chirico e Gino Severini.
Sezione III – Aeropittura futurista: seppur non interamente, è esposto il nucleo dei dipinti del Secondo Futurismo presente in collezione. Visioni dall’alto, proporzioni distorte, velocità e movimento, cromie dissonanti figurano nelle opere di Tato, Sante Monachesi, Tullio Crali accanto alla componente onirica dei dipinti di Enrico Prampolini.
Sezione IV – Scuola Romana: viene presentata una selezione assolutamente limitata del patrimonio artistico degli anni Trenta presente nella collezione. Le felici acquisizioni capitoline di quel periodo hanno infatti costituito una raccolta di straordinario pregio per l’arte italiana dove accanto alla Scuola di Via Cavour, in questa occasione presentata con alcuni dei capolavori di Scipione e di Mafai, figurano le opere altrettanto importanti del Tonalismo romano, rappresentato da Emanuele Cavalli, Giuseppe Caporossi, Guglielmo Janni, Fausto Pirandello, Roberto Melli, del Realismo Magico con i paesaggi di Antonio Donghi, nonché di altri protagonisti, come Renato Guttuso, Carlo Levi, Giorgio Morandi, del vivacissimo ambiente artistico italiano di quegli anni.
Sezione V – Scultura: il percorso attraversa l’intera mostra interessando, con una selezione ovviamente limitata, la produzione plastica italiana, romana in particolare, dal finire degli anni Dieci al finire degli anni Quaranta. Opere note, come il Busto femminile di Nicola D’Antino, inedite come la Testa di donna di Teresa Berring, mai presentate a Roma come il Busto (Ritratto di giovinetta ) del giovane Ettore Colla, si affiancano ai capolavori di Arturo Dazzi, Marino Marini e Arturo Martini provenienti dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, nuovamente e felicemente proposti nel contesto della collezione originaria.
Cura della mostra e del catalogo: Maria Elisa Tittoni, Maria Catalano, Federica Pirani, Cinzia Virno.
Catalogo: Gangemi Editore. Saggi di Giovanna Bonasegale, Maria Catalano, Federica Pirani, Cinzia Virno.
Artisti a Roma tra Secessione e istanze divisioniste
Cinzia Virno
I dipinti presenti in questa prima parte dell’esposizione appartengono tutti a maestri italiani del Novecento che, nel primo trentennio del secolo si muovono in ambito romano. Il sottile filo conduttore che li unisce, pur nelle sostanziali differenze tematiche e stilistiche è la partecipazione, più o meno attiva, alle istanze secessioniste sia nella loro accezione più vasta e prossima agli originari movimenti mitteleuropei, sia a quel movimento che, nato nel 1912, prende il nome di “ Secessione romana” e alle relative esposizioni che si tengono nella Capitale dal 1913 al 1917.
L’ondata secessionista arriva in Italia nel 1910, quando altrove si va ormai spegnendo, e all’Esposizione Internazionale per il cinquantenario di Roma, del 1911, se ne avverte fortemente l’impatto anche in virtù della partecipazione di artisti quali Klimt, e Franz von Stuck.
Gli intenti del gruppo dei secessionisti romani, sono quelli dichiarati nel breve assunto riportato sul catalogo della Seconda Esposizione, nel 1914, ribadito anche nelle edizioni successive: “La Mostra accoglierà ogni aspirazione ed ogni tecnica purchè nobile e degna: pitture, sculture, disegni, incisioni ed oggetti d’arte decorativa. Secondo le norme del proprio Statuto, la Secessione desidera inoltre incoraggiare particolarmente ogni manifestazione d’arte giovanile, anche la più audace, purchè attraverso la novità si affermi l’intimo senso di persuasione artistica e la sincerità d’intendimenti dell’autore1”.
Di fatto, accanto agli autori più giovani, figurano ancora molti artisti della “vecchia guardia”, in buona parte provenienti dalle fila degli Amatori e Cultori e diversi nomi, anche di rilievo, a volte non romani, ma certamente legati alla tradizione ottocentesca, come Carlandi, Boldini e gli scultori Bistolfi e Troubetzkoy al quale la prima mostra della Secessione dedica una personale con 88 pezzi2.
La maggior parte dei partecipanti alle esposizioni, non mostra, in realtà la volontà di rompere con il passato e le tendenze più innovative, almeno se riferite al panorama romano, riguardano le scelte divisioniste e quelle legate alle istanze simboliste e jugendstil. Le prime introdotte a Roma da Giacomo Balla, fondamentale tramite con la pittura del nord, da Pellizza a Morbelli; le seconde dipendenti direttamente dalle correnti nordeuropee, da Klimt e dal decorativismo dei Nabis.
Il divisionismo, come fenomeno del nord Italia, tema ampiamente indagato da Annie Paule Quinsac3, ha la connotazione di un linguaggio sperimentale, ma in qualche modo autonomo, rispetto ai precedenti e contemporanei esiti raggiunti dagli artisti francesi. Di questi rifiuta in particolare l’assoluto rigore scientifico, comunque subordinato ad una ricerca pittorica vissuta interiormente e mediata dal pensiero, come dimostra quanto Previati scrive nel 1890, al fratello Giuseppe: “…Mi sono persuaso che finora non ero riuscito a mostrare interamente sulla tela le idee che mi passavano per la mente, non perché l’idea io non l’avessi chiara ma per un erroneo criterio del fine che si deve raggiungere con l’arte, il quale fine è puramente e semplicemente l’espressione di queste idee nel modo più efficace e più assomigliante alla propria impressione”4.
Tra i pittori divisionisti del nord, come rileva Aurora Scotti, la personalità di Angelo Morbelli, “è forse quella che ha goduto per tutto il secolo XX di una maggiore linearità se non continuità di fama5”, anche grazie alla scelta di precise tematiche del vero affini alla cultura e alla società settentrionali.
Dal 1890 Morbelli partecipa più volte alle esposizioni degli Amatori e Cultori di Roma e, nel 1913, vi presenta Angolo di giardino (tav. 8). Realizzato con una sapiente tecnica divisionista, che il pittore utilizza sin dall’inizio degli anni Novanta, rappresenta il giardino dell’artista alla Colma di Rosignano nel Monferrato, soggetto a lui particolarmente caro e ripreso anche in un quadro analogo presso la Pinacoteca Provinciale di Bari. Come evidenzia quest’opera, il divisionismo di Morbelli, utilizzato come mezzo per indagare il vero, è concepito come una fitta trama di pennellate sovrapposte che qui, in particolare, delineano il suolo assolato in primo piano e le forme arrotondate degli alberi aprendo la veduta su un orizzonte vasto e indefinito.
Inizialmente vicino a Morbelli e alle ricerche di Pellizza da Volpedo, si colloca Giacomo Balla che, torinese di nascita lascia la città natale per trasferirsi a Roma nel 1895. Le prime opere divisioniste del pittore risalgono al 1897. Se ne rintraccia qualche primo effetto, in opere di derivazione impressionista come Luci di marzo, sebbene non ancora supportato dai principi rigorosi cui si rifarà più avanti6. il soggiorno a Parigi tra il 1900 e i 1901, gli consente di affinarne la tecnica, attraverso la conoscenza della pittura impressionista e dei secessionisti europei presenti all’Esposizione Universale.
Nei primi anni del secolo Balla, affianca a tele e pastelli realizzati con la tecnica divisionista notturni e interni spesso resi attraverso un’inquadratura particolare, assimilabile all’obiettivo fotografico. è in questa fase che si colloca Il dubbio (tav. 3) sorta di “istantanea” dal taglio ravvicinato realizzata dal pittore ad olio su carta. Il volto e il busto della donna ritratta, in equilibrio tra le tenebre ed una luce quasi accecante che la coglie alle spalle, è quello della moglie Elisa. La sua espressione è catturata mentre volge la testa, indirizzando lo sguardo verso lo spettatore con fare ammiccante. Il dipinto è esposto alla mostra degli Amatori e Cultori del 1908 dove Balla presenta anche due opere divisioniste: il trittico a monocromo del Maggio e un cielo notturno: Orione, oltre ad un pastello in bianco e nero che ritrae Lo scultore Enoch Glicenstein. Nell’accezione di una nuova esperienza diretta della visione e della sua resa attraverso la scomposizione della pennellata, è dunque Balla che, a Roma, apre la strada al divisionismo e alle tematiche di natura intimista ad esso connesse.
Nel 1910, com’è noto, l’artista firma il Manifesto dei pittori futuristi con Boccioni, Carrà, Severini e Russolo. Tre anni più tardi, mentre espone alla mostra dei futuristi nel ridotto del Teatro Costanzi, è presente alla Prima mostra della Secessione, non come artista espositore, bensì come membro del Consiglio Direttivo. Per l’occasione realizza anche, ad acquerello i bozzetti per il manifesto della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna), che però non vengono utilizzati, forse, perché come ipotizza Pasqualina Spadini, “troppo originali per l’uso al quale erano destinati7”. Di fatto Balla non espone le sue opere né a questa né alle edizioni successive della Secessione romana.
Distante dalle tematiche divisioniste, estraneo anche alle suggestioni postimpressioniste e nordeuropee è il solitario percorso di Antonio Mancini sebbene nella tecnica pittorica sia da riconoscere uno degli elementi fondamentali del suo fare arte. L’unica mostra secessionista alla quale partecipa è quella del 1914. Vi presenta La cucitrice, realizzata in quello stesso anno ed acquistata per l’occasione, con il fondo Müller, dall’Accademia Nazionale di San Luca. A quella data Mancini è un artista ormai affermato a livello internazionale. Il successo ottenuto all’Esposizione Internazionale del 1911 aveva rafforzato la sua fama, per certi versi più vasta all’Estero che in Italia, soprattutto grazie ai suoi “mecenati” stranieri come il pittore e collezionista olandese Hendrik Wilhelm Mesdag e l’antiquario tedesco Otto Messinger, nonché ai diversi viaggi compiuti in Inghilterra e in Germania nel primo decennio del secolo. Anche nel periodo in cui partecipa alla citata Secessione, Mancini è sotto la protezione di un collezionista straniero. Si tratta dell’industriale di origini francesi Fernand Du Chéne de Vère che gli mette a disposizione la villa Jacobini di Frascati. Qui, legato da un contratto, l’artista risiede, in una sorta di eremo, dal 1911 al 1918.
Mancini non era tra tra le giovani leve cui fa riferimento il regolamento della mostra, e la sua partecipazione ha più che altro il senso di includere anche alcuni pittori italiani di fama conclamata. Inoltre, ai vertici dell’organizzazione, comparivano diversi personaggi a lui strettamente legati, come i suoi collezionisti, Cavalier Ippolito Bondi e ingegner Roberto Almagià, membri del Comitato di patronato, nonché i pittori Camillo Innocenti ed Enrico Lionne, tra i suoi più attenti seguaci, facenti ambedue parte sia del Consiglio Direttivo che della Giuria8. La cucitrice, è appunto esemplificativa di quanto l’artista va realizzando già dalla seconda metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, ovvero lo studio della figura che vuole rendere, come egli stesso definisce, “grande al vero”, nei suoi più attenti rapporti spaziali, compositivi e cromatici. Per questa ragione, com’è noto adotta l’espediente del “doppio reticolo”, consistente nel sovrapporre due griglie di fili, uguali tra loro, una al modello e una alla tela, per poi dipingere focalizzando l’attenzione, riquadro per riquadro. Un simile modo di operare, che lascia spesso tracce evidenti sull’opera, è lontano dalle ricerche divisioniste. L’artista persegue l’unità compositiva e cromatica del soggetto, senza alcun riscontro di carattere scientifico e basandosi esclusivamente sulla sua sensazione visiva. Tale modalità perdura in Mancini fin quasi alla fine della sua vita ed è riscontrabile anche nelle opere degli anni Venti in cui dipinge quasi esclusivamente i membri della sua famiglia. Ne è un esempio Enrica in viola, (tav. 12), ritratto della nipote, a grandezza naturale, realizzato dall’artista intorno al 1920. Recentemente acquisito presso gli eredi del pittore, il dipinto, quasi un monocromo tra il rosso e il violaceo, dalla materia densa e vibrante, è una di quelle sinfonie di colori puri che l’artista predilige e che avrà tanto seguito tra gli artisti più giovani9.
Cogliendone in particolare l’aspetto materico e il vivace cromatismo guardano infatti a Mancini diversi pittori operanti a Roma nella prima metà del Novecento. Oltre ai citati Innocenti e Lionne, anche Armando Spadini, pittore toscano di nascita, che si trasferisce nella capitale nel 1910.
Tutti interessati allo studio dei rapporti tra colore e luce, i primi due insieme ad Arturo Noci, approdano poi ad un divisionismo di matrice borghese e intimista, mentre Spadini, oltre che nel paesaggio, trova nei ritratti di famiglia la sua vena più felice.
La partecipazione di questi artisti, piuttosto vicini in quanto ad intenti pittorici, alle varie edizioni della Secessione romana è molto assidua. Il ruolo più importante è quello assunto da Camillo Innocenti, già adepto dei XXV della Campagna romana, che è tra i primi ad aderire al sodalizio secessionista, all’interno del quale è anche membro del Consiglio direttivo. è lui, fra l’altro, ad assumersi il compito di convogliare le opere di artisti stranieri, specie francesi come Renoir, Cezanne, Matisse, perché siano esposte alle mostre secessioniste10. A quella del 1914, la stessa dove è presente Mancini, ha una sala individuale con 19 pezzi realizzati con tecnica divisionista. Tra questi La sultana, raffinata immagine di donna nuda mollemente adagiata su un giaciglio, che viene acquistata dal Comune di Roma11. Lo scritto di Gabriel Mourey riportato sul catalogo dell’esposizione, ben delinea il carattere della sua pittura: “… Egli ama le combinazioni ardite, le armonie complesse, gli accordi raffinati delle mezze tinte e dei toni; egli eccelle nel notare le sensazioni visuali preziose e impreviste; egli ha delle magnifiche audacie per fissare gli elementi di luce più sottili e più eccezionali e a tradurne la passeggera seduzione12 “. Tuttavia la vena divisionista e con essa la pittura di ricercati ambienti borghesi si andranno nel tempo esaurendo. Il vestito viola (tav. 4), luminoso ritratto di donna seduta in un interno, dipinto nel 1923, è esposto alla Biennale romana in quello stesso anno con opere ormai diverse, ispirate alle terre arabe. Due anni dopo, il suo trasferimento al Cairo, come professore dell’Accademia locale di Belle Arti, decreterà definitivamente la fine di questo percorso, avviando la sua attività verso un lento declino.
Enrico Lionne, forse per la comune formazione napoletana, è quello che di Mancini maggiormente apprezza le audacie cromatiche, a volte le dissonanze, che si rendono evidenti in molte delle sue opere. L’artista, trasferitosi nella capitale nel 1885, dopo una prima esperienza da illustratore si dedica definitivamente alla pittura, divenendo, sullo scorcio del secolo, un deciso sostenitore della tecnica divisionista della quale accoglie i criteri scientifici attraverso lo studio della teoria dei colori di Rood. Presente a tutte le esposizioni della Secessione, nel 1913 e nel 1914, progetta anche le decorazioni rispettivamente, delle Sale 6 e 413.
Dopo un iniziale orientamento verso i soggetti popolari e romani, dipinge nature morte e si sofferma sugli interni borghesi della Belle époque, resi con una pittura gioiosa, libera, vibrante, di vaga ascendenza postimpressionista e Nabis. Spesso ripete soggetti simili con minime varianti, sempre attento ai problemi della luce e del colore, come si riscontra nell’audace natura morta di Ortensie (tav.9) presentata all’esposizione internazionale di Roma nel 1911; quasi un pendant dei due vasi di rose in Fiori d’autunno, esposto alla Terza Secessione. Analoghi confronti possono essere fatti tra Violette (tav. 2) presente con altre 4 opere alla Prima delle mostre secessioniste e L’Attesa, della Galleria Civica d’Arte Moderna Giannoni di Novara14 che, sebbene di sei anni più tarda, ricalca l’impostazione generale della mondana figura femminile con grande cappello, sensualmente adagiata su una poltrona.
Pur partendo da premesse comuni, diversi sono gli intenti e la tecnica adottati da Armando Spadini. Per l’artista toscano la prima mostra della Secessione è anche la prima esposizione ufficiale cui prende parte. Vi presenta, fra l’altro, Figure (La Colazione), realizzato nel 1911, che viene acquistato dal Ministero della pubblica Istruzione per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna 15. All’edizione del ’15 ha una sala individuale con dieci opere. Tra queste Sotto la pergola, acquistata dal Comune di Roma16 e La famiglia.
Queste opere insieme ad altre coeve come Bambini con ventaglio della Galleria Nazionale d’arte moderna e Gruppo di famiglia sotto gli archi17 (tav. 5) sono tutte realizzate tra il 1913 e il 1914 ed hanno per soggetto la famiglia del pittore. Quest’ultima si differenzia dalle altre, soprattutto per l’ambientazione esterna e per il taglio verticale della composizione. Lo scenario è la scala della villa ai Parioli dove l’artista, con la sua famiglia, si era da poco trasferito. Alle immagini familiari ben si adatta la gamma chiara dei colori adottati e la tecnica che sfuma le figure rendendole quasi rarefatte. Difatti la pittura di Spadini, in questi anni, si evolve sempre più verso una disgregazione dei contorni, carattere sottolineato anche da Lancellotti a proposito delle sue opere più recenti presenti all’ultima delle mostre secessioniste: “… son dipinte a toni esaltati nella trasparenza dell’atmosfera e non definiscono la forma con nessun particolare ma solo con la massa del colore.18”
Altro interprete dell’arte a Roma, in questi anni, è Arturo Noci, paesaggista e raffinato pittore intimista, definito da Maurizio Fagiolo dell’Arco “ Divisionista aristocratico19”. Nel 1904, mentre aderisce al nascente gruppo dei XXV della Campagna romana, nella sua opera affiora l’interesse per il ritratto e per il corpo femminile in relazione all’ambiente, orientamento che ne fa uno dei più espliciti artisti della vita moderna. Le sue opere divisioniste si collocano a partire da questo periodo e fino al 1914 anno in cui, insieme a due paesaggi20, presenta alla Secessione, un ritratto femminile in un interno: L’arancio (tav. 11) Lo scenario dell’opera è un ambiente piuttosto scarno. Una poltrona, ed un quadro appeso al muro sono gli unici elementi che descrivono, nella sua essenzialità, una stanza medio borghese. Il soggetto è una donna, ben vestita e pettinata alla moda, che pare essere in posa. Seduta sul bracciolo, guarda verso l’osservatore mentre sbuccia un arancio. Il dipinto è realizzato con una pennellata regolare ed attenta ed una gamma cromatica pacata, volta a sottolineare il momento di solitaria intimità domestica. Dell’opera si conosce anche uno studio della testa, reso con la medesima tecnica, in collezione privata a Roma. Tuttavia la stagione divisionista di Noci a quell’epoca è quasi terminata. Partecipe, oltre che del Consiglio Direttivo, di tutte e quattro le esposizioni secessioniste, già a quella del 1916, con Il Ritratto del conte Greppi, dimostra di aver abbandonato questa tecnica optando poi per un ritorno ad una più realistica pittura di paesaggio.
Ben diversa dai pittori divisionisti che esaltano la mondanità, un po’ superficiale, di certi soggetti, è l’attività del parmense Amedeo Bocchi. A Roma dal 1902 risente del fascino di artisti, come De Carolis e Sartorio e interessandosi al rapporto tra figura e ambiente naturale. Il suo è un realismo“ lirico” non privo di qualche fuggevole richiamo Jugendstil, almeno nelle opere dei primi anni Dieci, come Il Ritratto di signora con cappello nero, 21 dove gli elementi decorativi a rilievo nel fondo, ricoperti di foglia d’argento, rimandano direttamente al decorativismo di Klimt. In questo senso l’artista appare avvicinabile alle tematiche secessioniste, sebbene il suo nome non sia presente in nessuna delle esposizioni romane. Nel 1919, periodo in cui dipinge Nel parco (tav. 1), Bocchi, a Roma, è un personaggio isolato. Opera dalla struttura compositiva e coloristica inedita, per l’arte italiana, questo dipinto, è realizzato a Villa Strohl Fern dove il pittore risiede dal 1905. Dai colori vivi e dissonanti e dal forte impatto emotivo, sembra rievocare, nei toni, l’espressionismo tedesco di Nolde, mentre la luce incombente come un riflettore sulla figura, ricorda la modalità di certe inquadrature cinematografiche, che proprio Sartorio, in quegli anni, andava sperimentando. In seguito l’artista abbandonerà questa strada ritornando, per molti versi, alle originarie istanze decorative a lui derivanti dalla pratica dell’affresco, e avvicinando la sua ricerca a quella di Ferrazzi.
Quest’ultimo pittore, dalla complessa personalità, é avvezzo oltre che all’affresco, alle tecniche più diverse come dimostra anche il recupero dell’antica pratica dell’encausto. Intorno al 1910 realizza opere di grandi dimensioni, di ascendenza simbolista, vagamente dipendenti da Previati e Segantini. Tuttavia non rinuncia mai ad una solida costruzione delle figure di matrice classica. Alla Secessione del 1913 è presente con Genitrice, di chiara derivazione segantiniana. Ma in quello stesso periodo nasce in lui l’attrazione per la pittura di Cezanne e Matisse.
è soprattutto il primo, la cui opera è approfondita dall’artista nel corso del suo viaggio in Svizzera nel 1916, ad essere assunto come punto di riferimento per la sua ricerca pittorica negli anni Dieci.22. è in questa fase che ritroviamo le prime opere dedicate alle “ Sette sale”, tema da lui particolarmente amato e ampiamente trattato negli anni successivi. Si tratta di un soggetto più volte ripreso dal suo studio romano al Colle Oppio. Ma se nelle prime opere il tema è affrontato con spirito, appunto, “cezanniano”, reso attraverso una pennellata libera e una costruzione spaziale quasi geometrica, sulla quale si innesta qualche richiamo all’espressionismo tedesco, ben diverso è il risultato al quale approda negli anni Venti, abbandonato ormai ogni riferimento al divisionismo e alle avanguardie europee. è quanto si rileva in Orti e baracche alle Sette Sale del 1925 (tav. 14), quasi un paesaggio idilliaco nel quale si riaffaccia la componente simbolista, rivisitata attraverso un plasticismo pittorico di matrice classica. Questi elementi, pur nella assoluta distanza del soggetto sono visibili anche in Frammento di composizione (tav. 13) di qualche anno precedente. L’opera, esposta alla Biennale romana del 1923, è il frammento, appunto, di una composizione più grande, La vita gaia, realizzata dall’artista in due versioni. La composizione del dipinto, con le due figure ravvicinate, una delle quali un nudo di spalle, esalta il carattere allegorico, della scena, rafforzato dalla presenza di elementi dalla valenza alchemica quali lo specchio e l’ampolla di vetro; mentre i toni chiari e la pennellata costruttiva, data per ampie campiture, richiamano la pittura italiana del Quattrocento.
Lo stesso iniziale interesse di Ferrazzi per Cezanne e gli impressionisti, nonché per la pittura dei fauve, si riscontra anche in Primo Conti, sebbene con esiti completamente diversi. Artista toscano, eccezionalmente precoce, studia la pittura dei macchiaioli. A soli tredici anni, espone con successo le sue opere a Firenze, dove peraltro entra in contatto con i futuristi: Soffici, Marinetti, Palazzeschi, Papini. Attratto dalle più esplicite audacie cromatiche secessioniste, partecipa, quindicenne, alla Terza mostra della Secessione romana, con La via della ninna a Firenze, Rapporti e una Natura morta23. Lo stile della sua pittura già delineato in questa fase, alterna i riferimenti liberty, simbolisti e futuristi a quelli più esplicitamente espressionisti di matrice fauve.
Da questo momento, e fino alla fine degli anni Venti, il suo intento è quello di esprimere per mezzo dell’arte, il sentimento della modernità attraverso la vivacità dei colori e una pennellata sintetica, quasi asciutta. è in quest’epoca che dipinge Liung – Juk ( Firenze, Palazzo Pitti), l’inusuale ritratto di una governante cinese, vestita in abiti imperiali con il quale, nel 1924, vince il Premio Ussi. L’opera è esposta l’anno successivo alla Terza Biennale romana, dove l’artista ha una personale con otto pezzi, tra cui, oltre a quello citato, La Borghese di Canton (Raccolta Contini Bonacossi) ed un terzo ritratto di donna cinese: Siao Tai Tai 24 (tav. 7). In quest’ultima, analogamente all’altra opera, la donna è ritratta seduta, leggermente di tre quarti, mentre guarda verso l’esterno. Come è stato giustamente rilevato, l’impostazione della figura contempla un impianto verticale – piramidale, riscontrabile anche in altri dipinti del pittore realizzati negli anni Venti25. Anche in questo caso la donna indossa un vistoso abbigliamento cinese e sulla testa porta una sorta di turbante con perle e pietre preziose . Tutti questi elementi, oltre al ventaglio che la cinese tiene in mano, rendono il quadro un tripudio di colore, coraggiosa testimonianza di ricercata modernità venata di esotismo.
Noto al pubblico romano per la sua partecipazione all’Esposizione Internazionale di Roma del 1911, nonché “Cultore” della Società Amatori e Cultori il piemontese Felice Casorati, nel 1913 partecipa alla Prima Secessione romana con il “Gruppo Zanetti Zillia”. Si presenta con un dipinto, Il sogno del melograno26, totalmente divisionista nella tecnica e dalla forte carica simbolica. Difatti, prima di dare avvio alla sua nota fase metafisica, il pittore attraversa un non breve periodo ispirato alle tendenze nordeuropee. Il nutrito gruppo di opere che espone quello stesso anno presso Ca’ Pesaro a Venezia, suscita le critiche di alcuni artisti “capesariani” tra cui Gino Rossi e Arturo Martini, che disapprovano: “le accezioni simboliste e le suggestioni klimtiane27” insite nel suo linguaggio. Tale polemica lo porta ad una fase di graduale revisione critica e ad un cambiamento di direzione a livello tecnico e iconografico. Quando partecipa alla Secessione del 1914, espone 5 xilografie ed ha una sala personale con 13 pezzi tra dipinti e sculture. Tra questi, oltre a quelli di gusto liberty, si affacciano opere dai toni diversi come Scherzo (uova); Scherzo (fiordalisi), Scherzo (Marionette)28.
Temi della sua pittura sono pressocchè costantemente la figura e la natura morta dove gli elementi desunti dal quotidiano subiscono un processo di semplificazione compositiva e di stilizzazione formale. è quanto si osserva in Albergo di provincia (tav. 15) una sinfonia di bianco, nero e grigio, realizzata nel 1927 ed esposta con altre sette opere alla biennale veneziana l’anno successivo. L’opera ben esemplifica il nuovo modo di intendere la natura morta cui Casorati perviene in questi anni. La tecnica di per sé adottata, la tempera su tavola, ha il sapore di una citazione dall’antico. Il vassoio e le ciotole che vi sono poggiate, sono visti dall’alto. La sagoma scura del primo si staglia nettissima, tra il merletto di una tenda e lo schienale di una sedia. L’insolito punto di vista il contatto quasi troppo ravvicinato con gli oggetti del quadro, creano una sorta di intimità con l’osservatore rendendolo partecipe della silenziosa atmosfera dell’opera.
Il carattere evocativo di un soggetto completamente diverso ma altrettanto intrigante è certamente riscontrabile in Scene di vita romana di Umberto Bottazzi (tav. 6). Dipinto nel 1930, è quasi una “Sacra rappresentazione”, un silenzioso raduno di donne eleganti che si svolge in un “salotto” all’aperto, presso la Fontana delle Tartarughe in piazza Mattei. è un’opera di una romanità dichiarata della tarda attività di questo poliedrico artista che, pittore, illustratore, decoratore e architetto, morirà soltanto due anni più tardi.
Dipinta con rara maestria, specie nella cura degli abiti delle figure, rivela la propensione per il decorativismo che caratterizza il percorso di Bottazzi fin dagli esordi. Sua è la decorazione della quinta Sala Internazionale alla Secessione romana del 191329, con motivi d’argento, mentre nel 1914 e 1915 espone rispettivamente due incisioni e delle vetrate nella sezione architettura.
Legato a Grassi e Cambellotti, con i quali, peraltro, fonda la rivista “La casa” che accoglie con entusiasmo le teorie secessioniste, Bottazzi rappresenta uno dei principali interpreti delle correnti decorativiste e liberty strettamente legate ambiente romano30.
Documentato a Roma dal 1899 dove giunge dalla Liguria, è Antonio Discovolo, allievo di Giovanni Fattori e Nino Costa e, tramite quest’ultimo, partecipe negli anni giovanili del cenalo di “In Arte Libertas”. Dopo l’esperienza “naturalista”, si cimenta nel dominio del reale, a contatto con le terre e il mare della sua regione, dando vita ad ariose tele delle quali luce e colore divengono il tema dominante. Partecipa attivamente al clima culturale romano frequentando il cenacolo di artisti che si riuniva al Caffè Aragno, da Balla a Colemann, a Biseo, e prende parte alle Esposizioni degli Amatori e Cultori, esponendo quasi ininterrottamente, dal 1900 al 1910 e, successivamente, nel 1923, 1927 e 1930.
La sua partecipazione a tutte e quattro le edizioni della Secessione romana mette in luce alcuni aspetti della sua esperienza divisionista evidenti in opere come Riposo acquistata dal Comune di Roma alla Secessione del ‘17. Un’esperienza che peraltro aveva già toccato il suo apice negli anni tra il 1902 e il 1907, anche grazie al rapporto diretto con Plinio Nomellini, già ai tempi della Boheme di Torre del Lago, e poi a Roma con Lionne.
Nell’introduzione al catalogo della mostra personale di Discovolo alla Galleria Pesaro nel 1922, Raffaele Calzini traccia della personalità dell’artista, un quadro preciso: “… è un pittore di sensibilità moderna che non disdegna la tecnica e la maniera antica, che passa dal vero all’immaginario, e dalla pittura di paese alla pittura di ritratti sempre con le stesse qualità di disegno e di colore. La monotonia d’intonazione di alcune sue tele è più apparente che reale: ogni quadro sviluppa un motivo, affronta un problema tecnico per risolverlo... A veder raccolta l’opera di Antonio Discovolo, si direbbe che tutta la disperante inquietudine artistica che caratterizza il primo ventennio del nostro secolo non l’ha turbato né corroso: egli è rimasto fedele non al proprio programma; ma al proprio temperamento. Si vede subito ch’egli non ha un programma, ch’egli appartiene a quella schiera di artisti “felici” che operano senza preoccupazioni teoriche e senza fisime rivoluzionarie…”31. L’assenza di inquietudine artistica cui fa riferimento Calzini è esplicitata in un percorso in cui i cambiamenti di natura stilistica, più che tematica, avvengono con gradualità e senza nette prese di posizione. Tuttavia, l’elemento costante del suo fare arte sarà sempre il sentimento della natura che nel tempo si orienta gradualmente, verso un lirismo di vaga ascendenza nordica e bockliniana come si osserva in La ninfa addormentata (tav. 10) opera ormai lontana dall’esperienza divisionista, presente alla citata mostra alla Galleria Pesaro e realizzata nel 1922, quando è ormai da tempo ritornato a dipingere nello stimolante ambiente delle Cinque Terre.
NOTE
1Seconda mostra Internazionale d’arte della “ Secessione”, Roma 1914, Catalogo illustrato, Prima edizione, Roma, Tipografia dell’Unione Editrice, 1914, p. 15.
2 Prima Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione”, Roma 1913, Tipografia dell’Unione, Roma 1913. pp. 59-62.
3 Si veda: A. P. Quinsac, La peinture divisionniste italienne – Origines et premiers développements, / 1880 – 1895, Editions Klincksieck, Paris 1972.
4 Lettera di Gaetano Previati al fratello Giuseppe, 24 settembre 1890, in Archivi del divisionismo / Raccolti e ordinati da Teresa Fiori, saggio introduttivo di F. Bellonzi, Officina Edizioni, Roma 1968, p. 246.
5 A. Scotti, Luce, Colore, realtà e simbolo nella pittura di Morbelli in Angelo Morbelli tra realismo e divisionismo, Fondazione De Fornaris – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino, 7 febbraio – 25 aprile 2001, Edizioni GAM, Torino 2001, p. 11.
6 Si veda la scheda dell’opera di F. Pirani in Divisionismo romano, mostra a cura di L. Stefanelli Torossi, catalogo M. T. Benedetti, presentazione di F. Bellonzi, contributi critici di autori vari, Roma, Galleria Arco Farnese, 20 gennaio – 31 marzo 1989, pp. 58-59 ripr.
7 In Secessione Romana 1913-1916, a cura di R. Bossaglia – M. Quesada – P. Spadini, Roma, Palazzo Venezia 4 – 28 giugno 1987, Roma, Fratelli Palombi Editori, 1987, scheda 3 p. 285
8Seconda mostra Internazionale d’arte “Della Secessione”, 1914, cit. pp. 7, 9, 13.
9 Sulle notizie relative all’opera si veda: C. Virno, La collezione Mancini della Galleria Comunale d’Arte Moderna: qualche riflessione sulla tarda attività dell’artista, in “ Bollettino dei Musei Comunali di Roma, nuova Serie, XV, 2001, pp. 155 – 162 ( in particolare pp. 158-161).
10 P. in In Secessione Romana 1913 – 1916, cit, 1987, p. 296.
11 Lo stesso Comune di Roma acquisterà alla quarta esposizione della Secessione (1916-1917) , un’altra opera di Innocenti: Sogno, rubata nel 1922. Ibidem.
12 G. Mourey, in Seconda mostra Internazionale d’arte “Della Secessione”, 1914, cit., p. 31.
13 Realizzate la prima da Vincenzo Costantini e Gualtiero Gherardi,; la seconda da Edgardo Gambo. Cfr. Prima Esposizione Internazionale d’Arte della” della Secessione”, 1913, cit. p. 33 e Seconda mostra Internazionale d’arte “della Secessione”, 1914, cit., p. 15.
14 Da Segantini a Balla / Un viaggio nella luce, a cura di M. Vescovo, Torino, Palazzo Cavour 3 dicembre 1999 – 27 febbraio 2000, p. 142 n. 53 ripr.
15 Si veda: Galleria Nazionale d’Arte Moderna / Le collezioni / Il XX secolo, a cura di S. Pinto, Mondadori Electa, Milano 2005, p. 81, n. 5.8. v.
16 Si veda G. Tamburri, in I Catalogo Generale della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, a cura di G. Bonasegale, Roma, De Luca, 1994, pp. 442-444. n. 118 ripr.
17 Acquistata presso la Biennale Veneziana del 1926. Ibidem, pp. 444-446, n. 119 ripr.
18 A. Lancellotti, Cronachetta Artistica / La IV Mostra Internazionale della “ Secessione”, in “ Emporium”, vol. XLV, n. 265, gennaio 1917, p. 296 (pp. 298-303).
19 M. Fagiolo, P. Spadini, L. Djokic, Arturo Noci / Dal divisionismo al realismo, Galleria Campo dei Fiori, 7, Roma, Febbraio 1966, p. 15.
20 Si tratta delle opere: Paesaggio (Burano) e Il Cantiere dei Sandoli (Terracina).
21 L’opera, del 1914, attualmente in collezione privata, è una delle più note dell’artista. Si veda: Amedeo Bocchi / La luce della bellezza e della vita vera, a cura di L. Caramel, Parma, 11 marzo – 27 maggio 2007, p. 133 n. 29, tav. 29.
22 Come ricorda Ragghianti, un catalogo del pittore francese, portato nello zaino di soldato, accompagnò il giovane Ferrazzi in Sardegna nel 1917 . Ferruccio Ferrazzi, saggi introduttivi di C. L. Raggianti e J. Recupero, schede a cura di N. Cerroni Ferrazzi, Officina Edizioni, Roma, 1974, p. 20
23 Terza Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione”, Roma 1915, Catalogo Illustrato, terza Edizione, Roma, Tipografia dell’Unione editrice, 1915, p. 19.
24 Si veda dell’opera l’approfondita scheda di T. Zambrotta in: G. Bonasegale, 1994, cit., pp. 263-266, n. 32, ripr.
25 Ibidem.
26 Prima Esposizione Internazionale d’Arte della “ Secessione”, 1913, cit. p. 51, n. 9, tav. XXXV.
27 P. Spadini, in Secessione Romana 1913 – 1916….1987, cit. p. 290.
28 Seconda mostra Internazionale d’arte della” Secessione”, 1914, cit. p. 42.
29Prima Esposizione Internazionale d’Arte della “ Secessione”, 1913, cit. p. 28.
30 Si veda in proposito il fondamentale saggio di Gloria Raimondi al quale si rimanda per eventuali approfondimenti: G. Raimondi, Umberto Bottazzi, artista e architetto romano (1865 – 1932), in “Studi romani”, anno XLVIII, nn. 3-4, Dicembre – Luglio 2000, pp. 408 – 414.
31 R. Calzini, in Mostra individuale del Pittore Antonio Discovolo, Milano, Galleria Pesaro, novembre 1922, pp. 5-6.
Breve storia della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma
Maria Elisa Tittoni
Segnata da solenni inaugurazioni, da lunghe chiusure, da dispersioni delle collezioni e fortunosi recuperi la ormai quasi secolare storia della Galleria comunale d’arte moderna e contemporanea di Roma vede ora con questa mostra una ulteriore riaffermazione della sua importanza e del suo prestigio per la comprensione delle vicende dell’arte a Roma in special modo nei primi cinquanta anni del secolo scorso.
D’altro canto questo era già l’assunto del ruolo assegnato alla Galleria al momento della sua prima inaugurazione nel 1925 nelle luminose sale del Museo Mussolini a Palazzo Caffarelli in Campidoglio dove vennero sistemate le opere moderne “di notevole pregio” acquistate dal Comune a partire dal 1883 nelle diverse esposizioni tenutesi a Roma e, ricorrente destino, disperse nei magazzini o negli uffici.
Acquisti importanti erano stati fatti alle mostre, da quelle della Società degli Amatori e Cultori, all’ Esposizione Internazionale di Belle Arti nel 1911, delle Esposizioni della Secessione romana dal 1913 al 1916 a quelle degli Acquerellisti e delle tre edizioni della Biennale Romana nel 1921 1923 e 1925.
In quella occasione l’allora direttore dei Musei Settimo Bocconi ribadiva nelle pagine di “Capitolium” la necessità che il Comune non dovesse “disinteressarsi alle moderne manifestazioni artistiche” e che “l’opera così degnamente iniziata” dovesse essere “portata a quell’altezza che le tradizioni artistiche del Campidoglio richiedono”.
A questo scopo Bocconi sottolineava l’esigenza per la Galleria di uno sviluppo costante attraverso l’integrazione di “opere di quegli artisti che ora non figurano e che per la loro fama o che per la nuova tendenza che rappresentano non possono mancare in una collezione d’ arte moderna”.
Dopo solo tre anni, nel 1928, la Galleria venne chiusa per riaprire nel 1931 sempre in Campidoglio: alla sua nuova sistemazione provvide Antonio Muñoz. Se nel 1925 la opere erano disposte in sei sale, Muñoz ebbe invece a disposizione dodici sale e una vasta terrazza per il “completo riordinamento della Galleria Mussolini” dalla quale l’anno precedente erano già stati eliminati i 120 acquerelli della “Roma sparita” di Roesler Franz a favore dell’appena costituito Museo di Roma.
Nelle pagine di “Capitolium” Muñoz spiegava le ragioni del riordinamento dovute sia all’acquisizione di trenta opere di Vincenzo Gemito sia agli acquisti intervenuti dopo il 1925 in particolare le settanta opere – fra dipinti e sculture – provenienti dalla Prima Quadriennale d’Arte Nazionale, per i quali il Comune aveva impegnato trecentomila lire.
Una cura minuziosa era stata profusa nell’allestimento degli ambienti e nella la loro illuminazione, infatti egli poteva dichiarare che “il riordinamento è stato fatto con signorilità; in molte sale sono state soppresse le finestre e sostituite con velari, col risultato di guadagnare spazio e di ottenere una illuminazione più adatta; tutte le sale hanno le pareti rivestite di stoffa, e a terra eleganti tappeti; i quadri si presentano con decorose cornici, le sculture su degni basamenti”. Muñoz appare particolarmente fiero della sua decisione di allestire la grande terrazza con le sculture di grandi proporzioni, che “male avrebbero figurato nell’interno”, e di averla “arricchita con una grande vasca, nel centro della quale ho collocato la Galatea di Amleto Cataldi, destinata appunto ad una fontana, e l’ho ornata con vasi e con fiori”.
Il criterio espositivo adottato fu quello della suddivisione per epoca, per scuole e per affinità dei soggetti facendo tuttavia sempre prevalere le ragioni estetiche.
Sono stati oggetto di approfonditi studi la figura di Giuseppe Bottai e la sua politica per le arti, di cui ancora oggi non si può mettere in discussione l’importanza, tuttavia l’avvento di Bottai a Ministro dell’Educazione Nazionale segna pesantemente e a lungo il destino della Galleria Comunale d’Arte Moderna che viene praticamente soppressa in favore della Regia Galleria Nazionale in nome si di una centralizzazione della politica culturale ed artistica – che si andava estendendo a tutti gli aspetti delle arti figurative – ma anche in ragione di una potenziale e pericolosa rivalità tra le due istituzioni.
Non si era affatto tenuto conto di quanto aveva affermato Muñoz al momento della riapertura del 1931 quando sosteneva che “la Galleria Mussolini non verrà a costituire un duplicato di quella Nazionale d’arte moderna (che poi è internazionale) a Valle Giulia ma avrà una fisionomia tutta propria. Limitandosi all’arte italiana, sarà più facile completarne le mancanze, rivolgendo i fondi per gli acquisti a determinati scopi, ciò che non è possibile alla Galleria Nazionale, a meno che non si attui la opportuna proposta di Ugo Ojetti, di riservare la Galleria di Valle Giulia ai soli italiani, e quella di Venezia agli stranieri”.
Con la delibera del 13 maggio 1938 del Governatore di Roma principe Piero Colonna più di trecento opere vengono consegnate alla Galleria Nazionale, ma poichè fortunatamente non venne alienata la proprietà e definito come temporaneo il deposito furono poste le basi per iniziare nel dopoguerra il lungo e complesso cammino per la ricostituzione della Galleria.
Grazie all’impegno dell’allora Assessore alle Antichità e Belle Arti del Comune Paolo Dalla Torre, nel 1952, si ebbe la nuova collocazione della Galleria Comunale d’Arte Moderna negli ultimi due piani di palazzo Braschi avendo lo Stato restituito una parte delle opere in deposito, quelle di interesse locale pur se notevoli. Non senza soddisfazione l’Assessore poteva quindi affermare su “Capitolium” come preludio alla illustrazione del nuovo Museo di Roma e della Galleria: “la nostra Amministrazione, conscia della sua funzione, ha voluto far rivivere la Galleria d’Arte Moderna chiedendo allo Stato la restituzione delle opere che già ne facevano parte e che si trovavano esposte solo parzialmente nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna”. Egli giustifica la scelta della sede in base al fatto che “la Galleria Comunale d’Arte Moderna è stata ora indirizzata decisamente verso le opere degli artisti romani, e dell’ambiente romano che comprende anche italiani e stranieri che non hanno avuto sul suolo di Roma i loro natali, ma per i quali Roma rappresenta la patria d’elezione”.
Carlo Pietrangeli presentando la Galleria completa le dichiarazioni dell’Assessore affermando che questa “ha assunto una fisionomia propria e una funzione non inutile accanto alla sua grande consorella romana alla quale serve di integrazione per la conoscenza delle opere degli artisti che hanno operato nella nostra città, mentre per il Museo di Roma costituisce un prezioso e indispensabile complemento”.
Questa scelta, che ebbe l’indubbio merito di restituire alle istituzioni museali civiche la Galleria, comportò, tuttavia, come ebbe a sottolineare efficacemente Giovanna Bonasegale nella sua ricca ed esaustiva introduzione al primo volume del Catalogo Generale Della Galleria, una linea di sviluppo restrittiva influenzando in modo negativo la successiva politica delle acquisizioni. “Si accentuò così la scissione fra i due aspetti della collezione, da una parte l’arte fino alla IV Quadriennale del 1943, sicuramente rappresentativa del clima artistico nazionale; dall’altra un clima provinciale in cui soltanto sporadicamente e del tutto casualmente potevano coincidere le presenze romane con i movimenti artistici operanti nel resto d’Italia”.
Trascorrono undici anni e la Galleria perde alcuni ambienti della sua sede a Palazzo Braschi: una mostra di una selezione di opere venne allestita al secondo piano del Palazzo delle Esposizioni con la doppia motivazione di valorizzare in un luogo più idoneo la collezione e lasciare spazio agli incrementi del Museo di Roma; in questa occasione vengono restituite altre ventidue opere dalla Galleria Nazionale. Questa situazione provvisoria si chiude nel 1972 quando, per la necessità di far posto alla esposizione della X Quadriennale, le opere conservate al Palazzo delle Esposizioni non trovando più una sede vengono destinate ai magazzini o agli uffici comunali. Nella prima metà degli anni ottanta l’Amministrazione si pose la questione della Galleria con la nomina di una Commissione che avrebbe dovuto dettarne i nuovi indirizzi in vista di una definitiva sistemazione al Palazzo delle Esposizioni; ma dopo un anno di lavoro la Commissione diede le dimissioni per difficoltà insormontabili e nulla fu risolto.
Finalmente, nel 1989, la giunta Comunale deliberò di assegnare gli edifici della ex Birreria Peroni alla Galleria e nel contempo per non negare più a lungo la visibilità delle più importanti e significative opere della collezione fu deciso di dare come sede provvisoria l’ex convento delle Carmelitane Scalze di Via Crispi. In questo spazio, aperto nel 1995 al pubblico, l’ordinamento disposto da Giovanna Bonasegale potè dispiegare, pur se in ambienti limitati, una parte piccola ma fortemente significativa del suo ricco patrimonio ripercorrendo le vicende e i momenti più importanti dell’arte italiana fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento.
Purtroppo a motivo di urgenti lavori di adeguamento funzionale dell’edificio è stato necessario nel 2003 richiudere nuovamente la Galleria.
Essendosi ormai divaricati i ruoli fra il Macro nella ex Birreria Peroni volto alla contemporaneità e la Galleria Comunale d’Arte Moderna di Via Crispi, a questa viene riservato il compito di valorizzare e, se possibile, incrementare il suo ricco patrimonio di opere che consentono una lettura significativa dell’arte a Roma dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli anni cinquanta del secolo scorso.
Con questa mostra, in attesa della riapertura della sede di Via Crispi, si è inteso proporre un percorso nella collezione del Novecento che dia conto, nelle diverse sezioni nella quale è articolata, non solo della alta qualità delle sue opere ma della varietà e della complessità dei movimenti che esse rappresentano.
Dalla Secessione e Divisionismo, frattura inquieta rispetto all’arte ufficiale e accademica, al Classicismo dove domina la grande tela Serenità di Felice Carena del 1925 per la prima volta esposto a Roma, dall’ Aeropittura futurista alla Scuola Romana, nelle diverse declinazioni della Scuola di Via Cavour, del Tonalismo romano e del Realismo magico, la selezione dei dipinti completata da un gruppo di sculture offre uno spaccato suggestivo del vivace ambiente artistico italiano di quegli anni.
Dopo una lunga permanenza nelle casse conservate presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma di Via Francesco Crispi a causa dei lavori di restauro, le opere possono essere finalmente ammirate e l’occasione per fruire di una parte di questa preziosa collezione d’arte è la mostra “La Galleria Comunale d’Arte Moderna. Percorsi del Novecento Romano” che s’inaugura presso gli spazi del Casino dei Principi.
Questi percorsi sul Novecento romano sono tesi a rivisitare la ricchezza e la vivacità dell’ambiente artistico romano del periodo attraverso una selezione di sessantotto opere – sculture e dipinti – rappresentative della cultura e dell’arte italiana della prima metà del Novecento testimoniando gli interessi e lo sviluppo del gusto nella Roma capitale e non solo. La preziosa raccolta della Galleria d’Arte Moderna riflette la felice politica di acquisizioni dell’Amministrazione Comunale iniziata fin dall’ultimo quarto dell’Ottocento e proseguita con continuità lungo il Novecento, permettendo di seguire umori e tendenze dell’arte italiana nella sua storia più recente.
Il patrimonio che era stato inizialmente destinato alla Galleria Caffarelli vanta capolavori di artisti come Giacomo Balla, Giorgio de Chirico, Scipione, Giuseppe Capogrossi, Mario Mafai, Giorgio Morandi, Renato Guttuso, Mario Sironi e ancora Amedeo Bocchi, Enrico Lionne, Camillo Innocenti, Angelo Morbelli, Felice Carena. E, ancora, con questa occasione “tornano nella casa comunale” interessantissime opere di Arturo Dazzi, Arturo Martini, Marino Marini che dal 1938 erano custodite in deposito temporaneo presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
Umberto Croppi
Assessore alle Politiche Culturali e Comunicazione
Spunti di classicismo in alcuni dipinti della Galleria Comunale d’Arte Moderna
Maria Catalano
Gli anni Venti, che vedono l’apertura della Galleria d’Arte Moderna in Palazzo Caffarelli, sono anni decisivi per la storia politica del neonato stato italiano e gravidi di fermenti per la cultura artistica.
Un’ampia storiografia critica – che per la ricchezza di spunti, materiali documentari e opere non cessa di arricchirsi – si è interessata dell’argomento componendo in un mosaico di interventi lo scenario di un periodo, non a torto definito una grande stagione artistica1.
Personaggi di grande levatura intellettuale, promotori e teorici di tendenze innovative – come Margherita Sarfatti e Cipriano Efisio Oppo – contribuiscono in questi anni a catalizzare la produzione artistica, per altri versi e non poco, incoraggiata dal fiorire delle committenze pubbliche e delle occasioni espositive, tra le quali la Biennale Romana istituita nel 1921. Per gli artisti e la critica è il momento del confronto con le novità linguistiche, spesso eversive, dei movimenti di avanguardia che nel decennio precedente, ancora una volta a Parigi, si sono prepotentemente affacciati sulla scena artistica contemporanea.
A Roma, il nuovo ruolo di capitale dello stato laico non diminuisce, anzi accentua, quello di centro delle arti supportato da un lungo e glorioso passato. La città rappresenta motivo di attrazione, nonché occasione di stimolanti incontri, per gli artisti. Scultori e pittori numerosi vi risiedono o vi soggiornano, la eleggono a luogo di studio e di lavoro attirati dalle importanti rassegne espositive che regolarmente si svolgono presso il Palazzo delle Esposizioni. L’entusiasmo della risposta, al nuovo clima culturale della capitale, è inoltre favorita dal mecenatismo privato di un personaggio facoltoso e illuminato come Alfred Wilhelm Strohl e dal vivace clima intellettuale che si respira nei ritrovi cittadini. Nella villa alle pendici del Pincio – denominata in onore del proprietario Villa Strohl-fern – gli artisti trovano straordinarie opportunità di contatti e ideali luoghi di lavoro; nella Terza saletta del Caffè Aragno – ritrovo mondano di una città ancora ottocentesca qual’è la capitale italiana – artisti, critici, letterati amano incontrarsi per continui momenti di crescita e di confronto.
Al di fuori di ogni definizione di scuole, correnti o limiti territoriali, nei circoli letterari e nella produzione artistica comune è il desiderio di ricomporre il rapporto con la tradizione e ciò comporta il confronto con quella cultura classica che nel territorio del paese ha trovato lo splendore della grandezza antica e che costantemente ha informato l’arte dell’età moderna, da Giotto a Canova.
La componente classicista non è secondaria nel Novecento italiano; si respira in tutti i campi delle arti e trova riscontro nei simili intenti della cultura europea all’indomani del primo conflitto. è stato sottolineato come nella pittura torni in auge, a scapito del paesaggio e della natura morta, l’interesse alla figura e con essa il piacere del disegno e della composizione equilibrata. Il museo – come sostiene Giorgio de Chirico autorevole esponente del fermento intellettuale legato alla rivista “Valori Plastici” – diventa, a scapito dell’en plein air, la mèta preferita per l’apprendimento del mestiere, il luogo deputato dell’arte dove studiare le opere dei grandi maestri e carpirne lo spirito.
La produzione pittorica e la condotta etica di Felice Carena, artista dalla cultura composita la cui lunga attività è contrassegnata da un impegno costante allo studio e alla pratica della pittura, costituiscono un importante riferimento per le generazioni che si succedono nella prima metà del Novecento.
Le opere eseguite negli anni Venti, quando dopo la guerra l’artista torna nella quiete dello studio di Anticoli Corrado e – dal 1924 – si stabilisce a Firenze come augusto cattedratico dell’Accademia, lo vedono interprete, e partecipe convinto, di quel classicismo che, come una vena sotterranea, permea molta parte della cultura figurativa italiana. L’esposizione di Serenità (tav. 16) costituisce, in questo contesto, una preziosa occasione per presentare al pubblico romano uno dei capolavori nascosti della collezione, caposaldo della maturità dell’artista.
Alla metà degli anni Venti – 1925 è la data riportata sulla tela e 1926 l’anno della prima esposizione alla Biennale di Venezia – Carena è già affermato e pienamente inserito nell’ambiente della capitale2: espone e lavora in commissione alle mostre della Secessione, nonché alle successive Biennali romane; anima dal 1922 una scuola d’arte e, seppure non da protagonista, è partecipe del lavoro intellettuale di “Valori Plastici”, la rivista di Mario Broglio che – tra il 1918 e il 1922 – dà voce alle istanze di ritorno alla tradizione in un quadro di ampio respiro attento alle novità europee. Proprio in questi anni, con assoluta originalità rispetto alla produzione precedente, Carena si impone all’attenzione dei contemporanei eseguendo tele di grandi dimensioni palesemente ispirate alla tradizione italiana, in particolare del Rinascimento.
Vedremo in realtà come l’artista filtri la lezione del passato in modo complesso e antiaccademico ma innegabilmente, ad una prima visione, il tono che si respira in Serenità è quello delle profane conversazioni di Giorgione: le figure, e le relazioni psicologiche non sempre esplicite che le legano, sono fisicamente inserite nella natura di cui partecipano i ritmi vitali. Spontaneo appare il richiamo al Concerto campestre del Louvre – celebre esecuzione concordemente riferita a Giorgione seppure con l’intervento del giovane Tiziano – dove figure nude e figure vestite, in un sapiente equilibrio di toni, convivono in un paesaggio.
Al richiamo di Giorgione si aggiunge quello di Tiziano nella potente carnalità dei nudi femminili che hanno come unici ornamenti monili al collo e drappi elegantemente panneggiati che mai coprono, ma sempre esaltano, la pienezza delle forme. La composizione larga ed equilibrata, dove gruppi di figure si dispongono su piani paralleli in una potente orchestrazione, rimanda alla grande stagione pittorica del Cinquecento veneto. La figura di Venere, nell’omonimo dipinto di Tiziano della National Gallery of Art di Washington, rivela una straordinaria assonanza con la figura di Carena seduta sotto l’albero e le citazioni potrebbero proseguire denotando uno studio profondo – ma nello stesso tempo curioso, abile e spregiudicato – del passato.
La critica del tempo già intuiva la particolarità del rapporto dell’artista torinese con la tradizione e, a guardar bene, l’atteggiamento evidenziato in Serenità era stato già sperimentato, in altra scala, nelle nature morte del decennio precedente dove il riferimento era stato piuttosto la pittura del Seicento unita alla conoscenza dell’Impressionismo e dei Fauves3.
Seppure in linea con il parallelo movimento del Novecento che vede nei modelli quattrocenteschi, e ancor prima nella pittura giottesca, la radice della tradizione cui ispirarsi per il rinnovamento dell’arte, Carena se ne distacca comprendendo nella sua ricerca anche il passato più recente della “bella pittura”. A contrastare l’opinione di chiusura e di provincialismo alla quale è stata spesso omologata, la cultura romana si apre infatti, dall’inizio del secolo, ai fermenti europei esponendo nelle mostre della Secessione le opere degli impressionisti e della generazione successiva di artisti – Gauguin, Matisse e, più importante di tutti, Cézanne – che creano a Parigi quell’ambiente vitale, e nello stesso tempo complesso, per la nascita delle avanguardie. Seppure discusse dalla critica del tempo, anche le piccole sculture in bronzo di Edgar Degas, che in modo eversivo interpretano la statuaria classica, sono presenti in numero di settantadue alla Biennale Romana del 1923.
In Serenità il riferimento alla pittura francese – iconografico più che stilistico – è costituito dal Déjuner sur l’herbe di Edouard Manet, l’opera rivoluzionaria che, rifiutata al Salon parigino del 1863, apre la grande stagione dell’Impressionismo. La soluzione compositiva delle tre figure sedute sull’erba, lo specchio d’acqua retrostante dove si svolgono ulteriori episodi figurativi, la prospettiva inquadrata da quinte arboree, nonché il realismo della natura morta adagiata su un drappo, possono aver interessato Carena che ripropone gli stessi elementi decantati dal suo personale classicismo.
Ancor più, tuttavia, si colgono i caratteri della famosa serie delle Bagnanti di Cézanne – eseguite tra il 1872 e il 1906 – nello spirito della composizione, nella solidità plastica delle figure costruite per ampie superfici di colore e definite da una potente linea di contorno, nella loro grandezza monumentale e nel ritmo che le unisce al paesaggio. Simile è l’intento di una maniera larga e maestosa che, se nel maestro francese viene tradotta in uno stile sintetico che fonde figure e paesaggio in un risultato lontano dal vero, in Carena diventa classicismo profondamente meditato.
In un recente studio4 Chiara Fabi ha evidenziato come il recupero stilistico della tradizione significhi, nei dipinti degli anni Venti e Trenta, anche il recupero della tecnica pittorica, della preparazione della tela e della stesura del colore secondo metodi e accorgimenti desunti dallo studio delle opere del passato in contrapposizione alle sperimentazioni velleitarie dell’avanguardia. In Serenità la “buona tecnica” degli antichi esalta le trasparenze dell’acqua e i vivaci episodi pittorici in primo piano: i fiori sul drappo a sinistra, il cerbiatto accovacciato, le inflorescenze del prato. La preparazione della tela tuttavia non è omogenea e la trama traspare in più punti; specie i volti delle figure, ma anche le mani e i particolari anatomici, traducono una maniera sintetica e approssimativa mentre le piccole figure di bagnanti in secondo piano diventano semplici tratti di colore puro. La modernità del classicismo di Carena si rivela ancor più nel colore corposo, privo di velature e di compiacimenti chiaroscurali, sottolineato da un segno di contorno a volte angoloso e spesso, un colore “materico” volto piuttosto – al modo di Cézanne – a definire in senso plastico le figure.
Alla collezione della Galleria Comunale appartiene anche un altro dipinto, intitolato Bagnanti5, che si può ragionevolmente considerare un bozzetto della più famosa esecuzione del 1925: medesima nelle due opere è la figura a destra con il braccio levato; simile la concezione del paesaggio e la figura seduta di spalle a sinistra. Ulteriori significativi confronti, per lo spirito della composizione e lo stile pittorico, sono La Quiete del 1922-24 (Roma, coll. Banca d’Italia) e Apostoli del 1926 (Firenze, Galleria d’Arte Moderna).
La novità di tali opere, che costituiscono un corpus unitario nella vasta produzione dell’artista, non poteva passare inosservata ai contemporanei che attribuivano le figure statuarie e la larga composizione dei dipinti di Carena al soggiorno a Firenze e al rinnovato contatto con le opere del Rinascimento. La pienezza dei nudi, che in Serenità emergono da un paesaggio desertico dove il profilo delle colline richiama la rotondità delle forme femminili, la sobrietà delle pose e i particolari delle acconciature, i sottili rimandi cromatici – come tra i rubini al collo della figura seduta e le bacche rosse che le vengono offerte – spingono lo scultore Antonio Maraini, allora segretario generale della Biennale di Venezia, a definire “classica” la sua arte6.
La produzione di Felice Carena, nel panorama artistico italiano alla metà degli anni Venti, ha ripercussioni certe e influenze dirette sull’ambiente a lui più vicino, quello toscano.
A conferma dello stretto legame tra arte e letteratura nei primi decenni del Novecento, la sua posizione non si può non relazionare con il movimento intellettuale che a Firenze trova espressione dal 1924 in Solaria 7. Nel generale intento di rinnovamento e di apertura alle novità europee, gli intellettuali della rivista, pur in assenza di chiari intenti ideologici, dimostrano di ricercare un filo conduttore tra la tradizione e la modernità: congeniali pertanto appaiono le figure solenni e modernamente semplificate di Carena, la loro classica monumentalità.
L’influenza del maestro torinese trova risposta, in particolare, nella nuova generazione di artisti del Novecento Toscano8, movimento formatosi in seno all’atmosfera solariana e del quale Gianni Vagnetti, animatore di un vivace salotto culturale presso lo studio in Piazza Donatello, è uno dei protagonisti. Raffaello Franchi, scrittore e teorico di Solaria, definisce il gruppo, al suo esordio nel 1927, “una fratellanza di artisti plastici, toscani per nascita o per formazione spirituale”9. L’intento che li accomuna è il rinnovamento della cultura italiana ma, privo di forza eversiva, esso si traduce nell’innesto, su una tradizione illustre che non va dimenticata, delle esperienze moderne. In questa ottica va letta l’opera di Gianni Vagnetti, Fidanzati (tav. 19), datata 1930 ed esposta a Roma l’anno successivo in occasione della Quadriennale.
L’impegno figurativo si accompagna, nella produzione dell’artista, alla capacità di narrare episodi quotidiani permeati da una pacata vena sentimentale, caratteri comuni alla pittura toscana del Novecento e distanti dalla più severa teorizzazione stilistica del parallelo movimento milanese.
La pittura di figura di Vagnetti è descrittiva, supportata da un’abile tecnica pittorica, non estranea a sottigliezze di gusto piccolo borghese che hanno spinto Giovanna Uzzani10 ad avvicinarla alla poesia di Aldo Palazzeschi e la critica del tempo a paragonarla alla pittura del Ghirlandaio. Le figure di Vagnetti ne possiedono la classica naturalezza, lontana dalla potenza dei nudi femminili di Carena e vicina, al contrario, al fascino delicato delle donne del tempo e alla dolcezza di un paesaggio amato, quello delle colline toscane. Sono questi gli elementi presenti nell’opera e che, con un nascosto intento campanilistico, spingono Raffaello Franchi a difendere le qualità della pittura toscana in contrapposizione a quella milanese.
Vagnetti dimostra di saper dominare la composizione, di saper conferire risalto plastico e vitalità emotiva alle figure recuperando la tradizione ottocentesca dei Macchiaioli e quella preziosità del colore che in Antonio Mancini ha nei primi decenni del Novecento il massimo rappresentante. Anche se l’artista raggiunge i più alti esiti di equilibrio compositivo e sensibilità cromatica nelle nature morte11, in tutta la produzione degli anni Trenta la stesura pittorica, lontana dalla superficialità visiva dell’Impressionismo, assume una notevole valenza e permea le figure di una distanza vagamente metafisica. è ciò che si avverte in Fidanzati dove, sullo sfondo di un dolce paesaggio collinare, i due personaggi si stagliano vivacemente contro lo steccato verde della panchina. Un colore prezioso, fatto di guizzi improvvisi e luminescenze sapienti, e una tavolozza raffinata servono a descrivere i ricami sulla camicia della promessa sposa, la catena dell’orologio e il fiore all’occhiello del futuro sposo, il bocciolo di rosa che lui le offre, con un risultato lirico lontano dall’astratta e bloccata espressività milanese.
In linea con gli assunti careniani è la poetica di Carlo Socrate, artista attivo a Roma dal 1914. Il Cerro (tav. 20), databile tra il 1925 e il 1926 per le affinità stilistiche con i dipinti del periodo, è esposto, in occasione della mostra degli Amatori e Cultori del 1927, nella sala riservata agli artisti del Novecento Italiano recensiti da Margherita Sarfatti come esponenti di uno “stile modernissimo e classico insieme”12.
L’opera è notata dalla critica che ne riconosce la capacità descrittiva – quasi minuziosa nelle fronde del grande albero – il recupero della tradizione e, nello stesso tempo, la vivacità dell’immagine lontana da accademie13. La maestosa quercia è protagonista del dipinto, unico elemento di un paesaggio che non ammette intrusioni umane o diversioni figurative, protagonista compositivo e cromatico la cui massa di colore efficacemente contralta con i toni pallidi del cielo e con il tocco vivace dei covoni gialli in secondo piano.
Il dipinto appartiene alla maturità di Socrate; rivela un artista dalla cultura vasta e cosmopolita con una profonda conoscenza della pittura europea, sia dei contemporanei sia delle opere del passato. L’amicizia con Picasso e i soggiorni all’estero, l’adesione alle tendenze romane più avanzate del gruppo di Villa Strohl-fern – dove l’artista ha lo studio dal 1917 – e la partecipazione alla Biennale Romana del 1923 con i “neoclassici”, l’invito nel 1926 alla Prima mostra del “Novecento” italiano a Milano, sono gli episodi che delineano la sua fisionomia artistica alla data di esecuzione dell’opera.
Estraneo allo spirito delle avanguardie, Socrate è aperto alle novità europee avendo per modelli la pittura fauve, il post-impressionismo di Gauguin e di Matisse, la tensione formale dei dipinti di Cézanne. Costante è l’intento plastico nelle sue rappresentazioni unito a un forte senso del colore: ancora, come in Carena, appare il riferimento a Cézanne dove però l’artista dei “neoclassici” propende per quei valori di equilibrio compositivo e di coerenza interna del dipinto lontani dalla maniera larga e maestosa del maestro torinese.
La classicità di Socrate è esibita, a volte ostentata, volta a recuperare, nell’opera della Galleria Comunale, la tradizione classica del paesaggio italiano, da Poussin alle vedute del Settecento nonché – precedente vicino – la pittura del grande paesaggista dell’Ottocento, Camille Corot. La chiarezza della veduta, la netta definizione dei volumi, l’armonia compositiva della prima attività dell’artista francese, e in particolare quel sentimento della natura per il quale ebbe fama tra i contemporanei, sembrano rivivere nel dipinto dell’artista italiano.
Anche Leonetta Cecchi Pieraccini, partecipe a Roma del clima d’avanguardia legato alla Secessione, espone insieme a Socrate nelle salette dei “neoclassici” volute da Oppo in occasione della Biennale Romana del 1923. Il naturalismo delle sue figure e la narrazione chiara e pacata, che ben presto la schiera sul fronte romano del classicismo novecentesco, traducono una scelta confermata dalle successive esposizioni, in particolare dalla Biennale del 1925 e dalle mostre del Novecento cui partecipa a Milano nel 1926 e nel 1929.
Federica Pirani in un recente studio ha ben evidenziato il clima culturale che si matura a Roma in occasione delle Biennali ed in particolare i caratteri della nuova generazione di artisti che, seppur non accorpati da una scuola o da un manifesto, denotano simili intenti nel recupero della tradizione. Oltre a Socrate e alla Cecchi Pieraccini, vi sono, per citare alcuni tra i pittori, Nino Bertoletti, Giorgio de Chirico, Antonio Donghi, Gino Severini, Francesco Trombadori. è come se le istanze anticipate dalla rivista “Valori Plastici”, suffragate dalla pubblicazione di saggi teorici sull’argomento, prendessero improvvisamente corpo nelle mostre romane per un ritrovato dialogo con la tradizione, una tradizione intesa come “buona pittura” volta a comprendere anche la più recente produzione dell’Ottocento14.
Appartiene alla prima maturità di Leonetta Cecchi Pieraccini, e al momento – tra il 1925 e il 1930 – di maggior fortuna del classicismo novecentesco, l’opera Nello studio (tav. 18) databile tra il 1926 e il 1929, anno in cui fu esposta alla mostra personale presso la Galleria Valle di Genova15. Il soggetto è inusuale: un adolescente, che si vuole identificare nel figlio Dario, immerso nella lettura. L’ambientazione è apparentemente semplice: un interno domestico; la prospettiva limitata a un angolo della stanza con pochi ma determinanti elementi; i libri non in ordine così da supporne un uso recente; il tappeto del tavolo ravvivato da sobrie righe di colore. Il letto è disfatto, il ragazzo è nudo mentre legge in un’atmosfera sospesa dove elemento dominante diventa l’erma maschile in secondo piano, improbabile arredo della camera di un adolescente.
La particolarità del soggetto è risolta con raro equilibrio compositivo e cromatico: linee ortogonali costruiscono il dipinto e da esse si discostano unicamente il capo chino del ragazzo e, in senso opposto, quello della scultura; l’orchestrazione dei toni, consapevole di una formazione toscana a contatto con i Macchiaioli, è discreta e si accende solo nel contrasto tra il marmo bianco della statua e il corpo abbronzato del ragazzo. L’assoluta fedeltà a un episodio reale diventa nello spazio pittorico della tela situazione irreale, metafisica, dove l’antico gioca un ruolo determinante nel ribaltamento del vero.
è evidente il gusto della citazione erudita e il riferimento – nella statua rappresentata – all’iconografia del diadumenos policleteo, l’atleta colto nel momento successivo alla vittoria noto attraverso numerose copie di età romana, di cui quella dei Musei Vaticani straordinariamente assonante. Il modello classico tuttavia acquista una insospettata umanità: il capo è maggiormente chino quasi a ripetere la posa del ragazzo; il recupero dell’antico, seppure dichiarato, diviene il mezzo per una dimensione attuale dove spazio e tempo perdono valore documentario.
Leonetta Cecchi Pieraccini, come gli artisti del fronte classicista romano, è invitata a esporre in entrambe le mostre milanesi di Novecento, il movimento artistico e intellettuale infaticabilmente sostenuto da Margherita Sarfatti16 che vi vede la risposta alla superficialità dell’Impressionismo e al sentimentalismo romantico, nonché la via per superare le stesse avanguardie.
Nella teorizzazione della Sarfatti, che già nel 1922 trova proseliti proprio in Achille Funi e Mario Sironi17, il recupero della tradizione e il rapporto con la classicità sono invocati per creare uno stile nuovo, “moderno”, lontano da intenti descrittivi e, di contro, fortemente investito di valori morali. La classicità di Novecento è radicale ed eversiva insieme: l’immenso patrimonio iconografico e stilistico delle opere del passato – dal quale è bandita la tradizione ottocentesca – diventa un mondo da esplorare liberamente quale fonte, non di passiva imitazione, ma di creativa espressione. La nuova concezione estetica ha nella pittura canoni di riferimento precisi: privilegia il disegno per conferire contorni netti alle figure e agli oggetti rappresentati; adotta sobrie e unitarie campiture di colore; esalta i volumi con l’uso di un potente chiaroscuro; attribuisce solennità e grandezza morale alle figure inserendole in narrazioni semplici e chiare, lontane da sentimentalismi o compiacimenti descrittivi. è facile intendere come l’intento etico del nuovo stile risulti congeniale – così da diventarne presto ufficiale strumento di comunicazione – ai valori propagandati dal regime politico che in questi anni conquista il potere.
Elena Pontiggia in un recente studio18 ha tuttavia evidenziato come Novecento non abbia costituito per l’arte italiana una contro-avanguardia, bensì un’altra modernità, un rinnovamento, anch’esso di avanguardia, perseguito attraverso ideali e canoni estetici: il recupero dei temi quotidiani, primi tra tutti il lavoro e la famiglia, il recupero delle forme e della tecnica dei “primitivi”, secondo la definizione data all’arte medioevale e quattrocentesca da Carlo Carrà19.
La tela di Mario Sironi, intitolata La famiglia (tav. 17), è un autorevole esempio di questa poetica. Recente, ed accolta dalla critica, è stata la proposta di una sua datazione al 1927 sia per i raffronti stilistici con le opere del periodo sia, in particolare, per i raffronti con alcuni disegni e con le altre versioni documentate del tema20.
La carica eversiva di Sironi, già presente nei paesaggi urbani di poco precedenti, è evidente nel risalto, all’interno della composizione, delle figure: le loro proporzioni sono intenzionalmente maggiorate così come, nei toni scuri del dipinto, esse costituiscono gli unici veri accenti cromatici. La visione antropomorfica, seppure esaltata, non traduce tuttavia lo status positivo dell’Umanesimo ma la solitudine e l’incertezza, nonché la tristezza velata di malinconia, dell’uomo contemporaneo. La solennità dei personaggi – ridotti agli archetipi del nucleo familiare nell’uomo in piedi sulla sinistra, nella donna inginocchiata a destra e nel figlio ancora piccolo – si inserisce in un paesaggio desolato, lontano dalla seppur spoglia dolcezza delle colline di Carena, primordiale nel grigiore dei toni e nella spettralità delle forme, inquietante per la presenza di elementi dissonanti come il ponte a più arcate – forse un acquedotto – in secondo piano. Le figure, in un disegno attentamente calibrato, sono concepite come volumi di colore assimilabili a forme geometriche; ogni accenno emotivo, pittorico o verista viene bandito per creare uno spazio estraneo in un tempo assoluto – passato e presente insieme – dove non esiste movimento. La stesura pittorica è densa e pastosa con larghe zone scure anch’esse definite geometricamente; la tavolozza è povera impostata su toni cupi che rifuggono qualsiasi piacevolezza.
La famiglia – soggetto del dipinto – è anche “lavoro”, altro tema più volte indagato da Sironi in questi anni: i protagonisti traggono la loro nobiltà proprio dall’aspetto quotidiano, dalla fatica che sottintende i loro gesti. Il significato etico che ne deriva, e che nella storia della cultura italiana trova sostegno, è tradotto in uno stile “sintetico”21 erede della trascorsa esperienza futurista ma, nel recupero della tradizione, direttamente legato alla pittura di Giotto e di Masaccio.
Gli anni Venti sono anni decisivi per il percorso artistico di Sironi: l’adesione alla poetica classicista è piena; a Milano, nel comitato direttivo del movimento, condivide i progetti e le attività di Margherita Sarfatti; alla Biennale Romana del 1925 espone nella sala riservata al Novecento ottenendo i favori della critica e anticipando il successo della Quadriennale del 1931; ben presto sarà tra i maggiori esponenti a tradurre i temi e lo stile dell’esperienza pittorica nelle più vaste dimensioni della decorazione murale.
Accanto a Mario Sironi, simile per intenti, attività e percorso, è Achille Funi, artista ferrarese anch’egli protagonista della parabola di Novecento. Negli anni Venti la sua pittura all’interno del movimento è principalmente volta al recupero della tradizione, un recupero inteso in modo meno eversivo ma ugualmente forte e coerente.
Funi svolge la sua attività tra Milano e Ferrara ma, dal 1927 al 1931, soggiorna più volte a Roma recandosi anche a Napoli e a Pompei per ammirare le vestigia dell’antichità. Il dipinto intitolato Il Colosseo (tav. 23), datato 1930 ed esposto l’anno successivo alla Quadriennale22, ottiene il consenso della critica che già apprezzava i paesaggi urbani dell’artista. Tra questi, vicino per concezione e resa stilistica, è Foro Romano eseguito lo stesso anno, anch’esso presente alla Quadriennale e oggi a Ferrara presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea.
Sono gli anni in cui a Roma trova applicazione la “Variante generale” al piano regolatore firmata da Marcello Piacentini23 che, oltre all’espansione della città secondo direttrici precise, rende possibili, uno dopo l’altro, gli sventramenti nel centro storico. L’idea della capitale, alla quale aspira il nuovo regime e della quale il Governatorato si fa interprete, mira al ripristino della grandezza antica, all’isolamento grandioso dei monumenti imperiali e delle loro rovine, obiettivi per i quali appare necessario cancellare quanto “indignitosamente” si è nel corso del tempo venuto a sovrapporre.
Nel sistema dei luoghi, che costituisce il genio della città facendone da sempre – e senza perdere forza di attrazione – mèta di viaggiatori e artisti, il Colosseo e il complesso dei Fori rappresentano i soggetti di maggior richiamo, i luoghi preferiti dove il paesaggio urbano si arricchisce inequivocabilmente di valenza storica. Dal XVI al XIX secolo essi, più di altri, hanno costituito, nel genere della veduta, la testimonianza dell’antico splendore e ancora rappresentano un sito reale e un mito insieme, un luogo di studio e una memoria del passato, una fonte di emozione e di ispirazione inesauribile per dipinti, incisioni e disegni24.
I monumenti antichi rivivono nei dipinti di Funi sia come luogo reale, riconoscibile, sia come visione, accostamento onirico di monumenti, statue e rovine. Esempi ne sono, da una parte il dipinto della Galleria Comunale, dall’altra Roma (Sogno), olio su tavola del 1930 oggi in collezione privata25. Comune in entrambe le concezioni è la componente scenografica che sacrifica la verosimiglianza dell’insieme a vantaggio di una visione intensamente emotiva. La visione di Funi non è contemplativa né esatta, non ammette diversioni figurative o episodi di “capriccio”: in un impianto cromatico straordinariamente vivace, che si accende nella vetustà delle pietre antiche e in una profondità del cielo inusuale per le atmosfere romane, il disegno diventa mezzo di espressione rapido e nervoso, autonomo segno nero che sottolinea i contorni e che, ripetuto insistentemente, anima l’intera superficie del dipinto sostituendosi alla descrizione puntuale delle rovine.
L’immagine grandiosa della classicità imperiale rivive nella larghezza dell’impianto compositivo e nel fermo risalto dei volumi ma dominanti restano la vivacità e l’immediatezza della rappresentazione, caratteri che inducono al paragone con la pittura compendiaria e richiamano gli acquerelli di Turner eseguiti nello stesso luogo un secolo prima. Lontana dalla gravità giottesca dei personaggi sironiani, la rivisitazione dell’antico rivela il sentimento dell’artista; il Colosseo di Achille Funi narra una storia che ha visto avvicendarsi la potenza e la distruzione di un impero ma che mantiene inalterato il suo messaggio di grandiosità. Qualche anno dopo Mafai e Afro nelle celebri Demolizioni, anch’esse appartenenti alla collezione della Galleria Comunale26, comunicheranno con altri toni, ma con partecipazione ugualmente intensa, il messaggio non più trionfalistico legato alla distruzione della città storica in attuazione della politica urbanistica degli anni Trenta.
Non si può non comprendere, nel panorama del classicismo della prima metà del Novecento, la posizione teorica e l’apertura internazionale rappresentata dalle figure di Giorgio de Chirico e di Gino Severini. Le opere esposte si riferiscono ai primi anni Trenta quando entrambi gli artisti risiedono a Parigi, ancora massimo polo di attrazione per l’arte europea.
La figura di de Chirico nell’arte italiana riveste un ruolo che, fin dagli anni Dieci del Novecento, travalica l’attività pittorica: animatore vivace del dibattito intellettuale, teorico acuto e spregiudicato, avanguardista aperto e fecondo in ogni campo di attività, l’artista figura nella schiera dei “neoclassici” presenti alla Biennale Romana del 1923. La giovinezza trascorsa a Vòlos ha spesso indotto la critica a considerare il suo classicismo derivato dall’arte olimpica dei Greci; tuttavia è a Roma che l’artista soggiorna dal 1918 al 1924, anni in cui elabora e sostiene, nelle opere e negli scritti, la riscoperta del Rinascimento, il “ritorno al mestiere”, lo studio delle opere del passato, la cura estenuante della tecnica per la qualità della pittura.
Nel dipinto della Galleria Comunale, il tema dei gladiatori, affrontato sin dagli anni Venti e puntualmente analizzato dalla critica nel confronto tra le varie versioni27, si collega a una classicità romana che non si traduce in rievocazione nostalgica o trionfalistica, in accademismo o compromesso fra tradizione e modernità, bensì in quella che l’artista stesso definisce “ricerca di invenzione e di fantasia”28. I modelli di de Chirico non sono le rovine della Roma imperiale, che su Achille Funi esercitano tanta suggestione, ma i repertori di scultura antica pubblicati in questi anni a Parigi, prontuari sistematici ove attingere figure, pose e composizioni per un libero processo creativo, spontaneo e svincolato dalla ragione.
Per de Chirico – “artista-filosofo” – l’opera riflette un atto “eroico” che eleva l’autore a una dimensione immortale e ne consegna la memoria al futuro. Tale concezione, che in un continuo rinnovamento stilistico e iconografico sottintende la sua attività, rimanda alla filosofia greca, presente in un fiorire di immagini e citazioni negli scritti teorici e letterari, e ancor più al moderno pensiero di Nietzsche e di Shopenhauer, a quella formazione tedesca, cioè, che negli anni giovanili lo aveva reso partecipe della ricca e vivace cultura mitteleuropea a cavallo tra i due secoli. Attraverso la rivelazione artistica, vissuta come necessità interiore, si raggiunge la verità degli oggetti comuni, la realtà altra, metafisica, assoluta e non comunicante con il mondo esterno. In tale contesto il confronto con la cultura classica, che l’artista dimostra di possedere con assoluta padronanza, avviene in modo capriccioso ed estemporaneo: l’antico diventa un linguaggio rievocato in modo superficiale, “assonante” secondo Claudio Crescentini “con la tragedia della serenità del mondo greco”29.
I primi anni Trenta sono gli anni del teatro durante i quali l’artista, in Italia e in Francia, lavora alle scenografie e ai costumi di importanti opere liriche e drammatiche; l’influenza si avverte nella pittura dove una tensione esagerata, al punto di rasentare la finzione, permea le figure sottolineate da un chiaroscuro marcato e da un disegno potente che ha suggerito il richiamo a Michelangelo30.
I caratteri del Combattimento di gladiatori (tav. 22), databile al 1933-1934, si ritrovano in altre opere del periodo come Cavalieri sulla spiaggia, olio su tela del 1934, oggi a Macerata nella collezione di Palazzo Ricci. Simile è la figura di spalle, la tecnica accurata che conferisce tonalità perlacee ed effetti di luce rarefatta alla stesura pittorica, il formato ridotto quasi incompatibile con l’enfasi del soggetto, il risalto intenzionalmente spropositato delle figure all’interno della composizione. L’ambientazione della scena è ridotta a pochi elementi e, nel dipinto della Galleria Comunale, diventa assente così da sospendere nel vuoto la lotta degli eroi e comprimere il groviglio dei corpi sul primo piano. Spazio assente e tempo assoluto, figure fisse e bloccate nei movimenti: come in Sironi, dove però alla gravità morale dei personaggi corrisponde in de Chirico il vuoto, il non-senso delle azioni, la foga inutile dei lottatori, la coscienza della ciclicità degli eventi che priva di libertà le azioni umane.
Sebbene la spiccata personalità di Giorgio de Chirico renda difficile qualsiasi accostamento, la sua posizione nei confronti del classico trova riscontro in un teorico profondo e in un artista composito, anch’egli cultore della perfezione tecnica e aperto alla sperimentazione, come Gino Severini. Il classicismo intellettuale, che per il carattere di “rivelazione” dell’opera d’arte assume in de Chirico una vena di religiosità laica, in Severini diventa ricerca razionale ed equilibrata.
A Parigi, comune patria d’elezione, Severini è fautore del futurismo di Marinetti per poi lasciarsi conquistare dal linguaggio cubista. Già negli anni Venti, tuttavia, esaurite le esperienze avanguardiste e alla luce di un’attività teorica e letteraria di controtendenza, recupera il rapporto con la tradizione: espone nella Biennale Romana del 1923 con i “neoclassici”; adotta un linguaggio scarno e severo, che rimarrà il sostegno di ogni ulteriore esperienza; soggiorna più volte in Italia, attratto dalle numerose occasioni espositive ma ogni volta coltivando e approfondendo la conoscenza dell’antico.
Composizione (tav. 21), databile al 1933, è un mosaico realizzato in Veneto31 – regione di lunga tradizione musiva – da un cartone oggi in collezione privata. è un’opera della maturità eseguita negli anni in cui, con il premio alla Quadriennale del 1935, l’artista ottiene il meritato riconoscimento. Essa non è un esempio isolato: alla personale presso la Galleria della Cometa a Roma, patrocinata da una mecenate raffinata e cosmopolita come la contessa Anna Laetitia Pecci Blunt, nel marzo del 1938 l’artista esporrà quarantacinque mosaici di piccole dimensioni dichiarando in catalogo come essi siano il risultato di dodici anni di esperienze e di osservazioni sugli insigni esempi ravennati e romani32. In omaggio alla capitale Severini cita addirittura i suoi modelli nelle decorazioni di Santa Maria Maggiore, S. Pudenziana e SS. Cosma e Damiano, le chiese che ospitano i maggiori esempi della decorazione musiva paleocristiana.
Nella sua concezione generale, l’opera della Galleria Comunale si può intendere come una dichiarazione di intenti nella volontà dell’artista contemporaneo di ricercare la continuità del proprio mestiere nell’antica tradizione, recuperandone anche la particolarità tecnica. Così è per il mosaico con tessere in pasta vitrea, decorazione parietale praticata in età classica, e ancor prima egizia, che Severini riprende insieme a un repertorio iconografico fatto di oggetti, animali e forme – il grappolo d’uva a chicchi grossi e isolati, la colomba che volge indietro il capo, l’anforetta, la loggetta di gusto veneziano, ma anche la prospettiva rovesciata del piano e l’uso vivace della cromia – derivate dalle decorazioni di Sant’Apollinare Nuovo e di Galla Placidia a Ravenna.
Le citazioni sono precise, ripetute quasi serialmente nei dipinti e nei mosaici di questi anni, ma l’elemento iconografico, privato a ragione del suo contesto, perde ogni valenza iconologica. La composizione, che pur ricerca un’armonia di forme e di toni, acquista un tono surreale accentuato dall’introduzione, in posizione centrale, di una maschera. Anche quest’ultimo elemento è ricorrente nella produzione di Severini – così come nelle nature morte dell’arte italiana della prima metà del Novecento33 – e non ha carattere casuale: nel collegamento al teatro, la maschera, se da una parte è ancora un richiamo all’antico, dall’altra evidenzia la finzione e la dimensione metafisica dell’opera d’arte.
NOTE
1 In merito alcuni dei testi: Gli artisti di Villa Strohl-fern tra Simbolismo e Novecento, a cura di L. Stefanelli Torossi, Roma 1983, catalogo della mostra, Roma 1983; Scuola romana. Pittori fra le due guerre, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco, Roma 1983, catalogo della mostra, Roma 1983; M. Fagiolo dell’Arco, Scuola romana, pittura e scultura a Roma dal 1919 al 1943, Roma 1986; Secessione Romana 1913-1916, a cura di R. Bossaglia-M. Quesada-P. Spadini, Roma 1987, catalogo della mostra, Roma 1987; Scuola romana, a cura di M. Rivosecchi, Milano 1988, catalogo della mostra, Milano 1988; Roma Anni Venti, pittura, scultura, arti applicate, a cura di V. Rivosecchi, Roma 1990, catalogo della mostra, Roma 1990; F. Pirani, Le Biennali Romane, in Il Palazzo delle Esposizioni, a cura di R. Siligato-M.E. Tittoni, Roma 1990-1991, catalogo della mostra, Roma 1990, pp. 183 ss; L’idea del classico1916-1932. Temi classici nell’arte italiana degli anni Venti, a cura di E. Pontiggia-M. Quesada, Milano 1992, catalogo della mostra, Milano 1992; M. Fagiolo dell’Arco, Classicismo pittorico, Metafisica. Valori plastici, Realismo magico e ‘900, Genova 1992; G. Bonasegale, La Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea: centoundici anni di progetti, in I Catalogo generale della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma 1994, pp. 28-33; Le Capitali d’Italia. Torino-Roma 1911-1946, a cura di M. Vescovo-N. Vespignani, Torino 1997-1998, catalogo della mostra, Milano 1997; La Scuola romana. Una collezione privata, a cura di V. Rivosecchi, Milano 2002; G. Bonasegale, Roma tra le due guerre, in Da Balla a Morandi. Capolavori dalla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, a cura di G. Bonasegale- E. Zanella, Gallarate 2005, catalogo della mostra, Roma 2005, pp. 47 ss; Scuola romana. Artisti a Roma tra le due guerre, a cura di F.R. Morelli, Roma 2008-2009, catalogo della mostra, Roma 2008.
2 L’artista è attivo a Roma dal 1906. Nella collezione della Galleria Comunale d’Arte Moderna figurano anche: Banane, 1916, olio su tavola [inv. AM 25]; Natura morta, 1920, olio su tavola [inv. AM 27]; La pergola, 1929, olio su tela [inv. AM 792]; Uomo che dorme, 1938, olio su tela [inv. AM 1237]; Bagnanti, 1925, olio su tavola [inv. AM 431].
3 In merito: S. Gagliardini in G. Bonasegale-E. Zanella, (a cura di), op. cit., 2005, p. 201
4 C. Fabi, Arte e tecnica: un binomio problematico della cultura romana tra le due guerre, in G. Bonasegale-E. Zanella, (a cura di), op. cit., 2005, pp. 69 ss.
5 Acquistato alla Biennale di Venezia del 1926, il dipinto, oggi in deposito presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, è firmato in basso a destra “Felice Carena” e iscritto sul retro “Bozzetto delle bagnanti fatto a Firenze nel 1925. Felice Carena”.
6 A. Maraini, Felice Carena in Biennale Internazionale d’arte di Venezia, catalogo della mostra, Venezia 1926, p. 29. In merito anche: U. Ojetti, Tre quadri di Felice Carena in “Dedalo”, V,1925, pp. 530 ss; A. Maraini, Il pittore Felice Carena in “Dedalo”, VII, 1926, pp. 186 ss.
7 Nelle pagine della rivista mensile di arte e letteratura, edita dal 1925 al 1934, Carena pubblicò in diverse occasioni schizzi e disegni. Direttore e promotore di Solaria era lo scrittore e critico d’arte Raffaello Franchi, fondatore a Firenze nel 1922 del Sindacato di Belle Arti cui fecero capo dal 1925 le annuali Esposizioni di Arte Toscana.
8 Il gruppo agisce in parallelo con il movimento del Novecento di Margherita Sarfatti. La prima mostra collettiva a Firenze è del 1927 e dall’anno successivo luogo di esposizione è la galleria La Bottega d’Arte in Via Roma. In merito: Il Novecento toscano. Opere dal 1923 al 1933, a cura di C. Marsan, Fiesole 1989, catalogo della mostra, Firenze 1989, pp. 51-84; C. Pirovano (a cura di), La Pittura in Italia. Il Novecento/1. 1900-1945, Milano 1991, I, p. 408 ss.
9 La Toscana e il Novecento, a cura di F. Cagianelli-R. Campana, Crespina 2001, catalogo della mostra, Pisa 2001, p. 96.
10 G. Uzzani, La pittura del primo Novecento in Toscana 1900-1945, in C. Pirovano (a cura di), op. cit., 1991, p. 411.
11 Di Gianni Vagnetti in collezione anche: Natura morta 1 (1935), olio su tela [inv. AM 1096]; Natura morta, 1926, olio su tela [inv. AM 433]; Ritrattino di Liliana (1945), olio su cartone [inv. AM 2911]. In merito: G. Bonasegale (a cura di), op. cit., 1994, pp. 462 ss, pp. 590 ss (con bibliografia precedente).
12 M.G. Sarfatti in XCIII Esposizione di Belle Arti della Società degli Amatori e Cultori, Roma 1927, catalogo della mostra, Roma 1927, p. 27.
13 A. Ponente in G. Bonasegale (a cura di), op. cit., 1994, pp. 438 ss, pp. 578 ss (con bibliografia precedente). Di Socrate in collezione anche: Il tacchino, 1923, olio su tela [inv. AM 848].
14 F. Pirani in R. Siligato-M.E. Tittoni, op. cit., 1990-1991, pp. 190-192. Riguardo alla pubblicazione di saggi sul ritorno alla tradizione in Italia e in Europa, vedi anche: C. Pirovano (a cura di), op. cit., 1991, I, p. 490.
15 S. Bonfili in G. Bonasegale-E. Zanella (a cura di), op. cit., 2005, scheda n. 57, pp. 215-216 (con bibliografia precedente). L’opera è indicata anche come L’innamorato (Dario). Di Leonetta Cecchi Pieraccini in collezione anche: Riviera di Ponente 1927, olio su compensato [inv. AM 231]; Fiori ed oggetti (1932-1935), monotipo su carta incollata su tela [inv. AM 1020].
16 Notevole fu il contributo teorico di Margherita Sarfatti al dibattito critico di questi anni. In particolare si veda: M. G. Sarfatti, Storia della pittura moderna, Roma 1930; Da Boccioni a Sironi. Il mondo di Margherita Sarfatti, a cura di E. Pontiggia, Brescia 1997, catalogo della mostra, Milano 1997.
17 La prima mostra del gruppo si tenne a Milano nel 1922 presso la Galleria Pesaro; oltre a Sironi e a Funi, esposero Bucci, Dudreville, Malerba, Marussig e Oppi. L’attività di Novecento si estese ben presto al resto d’Europa con numerose mostre ed eventi. In merito: Il “Novecento” milanese, a cura di E. Pontiggia-N. Colombo-C. Gian Ferrari, Milano 2003, catalogo della mostra, Milano 2003 (con bibliografia precedente); E. Pontiggia (a cura di), Il Novecento italiano, Milano 2003; E. Pontiggia, Modernità e classicità. Il ritorno all’ordine in Europa dal dopoguerra agli anni Trenta, Milano 2008.
18 E. Pontiggia, Il Novecento e il Déco, in Arte in Italia. Déco 1919-1939, a cura di F. Cagianelli-D. Matteoni, Rovigo 2009, catalogo della mostra, Milano 2009, pp. 50 ss.
19 Notevole fu il contributo teorico fornito alla fine degli anni Dieci da Carlo Carrà, dapprima sulla rivista “La Voce” e successivamente, accanto a de Chirico, sulla rivista “Valori Plastici”. Si veda: M. Carrà, Carlo Carrà, tutti gli scritti, Milano 1978. Sul recupero dei temi quotidiani nella cultura artistica di questi anni, si veda: Italia quotidiana. Dipinti e sculture dagli anni Venti agli anni Quaranta della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, a cura di M. Margozzi, Frascati 2003-2004, catalogo della mostra, Roma 2003, pp. 12 ss.
20 M. Rovigatti in G. Bonasegale (a cura di) , op. cit, 1994, pp. 435-438 (con bibliografia precedente). Il dipinto è noto anche come La famiglia del pastore ed è stato datato al 1930. Le analisi condotte durante il restauro negli anni Novanta hanno provato l’esistenza di sette strati di colore così da rendere plausibile almeno un ripensamento dell’artista.
21 Già nel 1924 Margherita Sarfatti, recensendo la Biennale di Venezia, definiva sintetica la maniera di Sironi. Sulla classicità ripensata attraverso lo stile sintetico dei futuristi, vedi: E. Pontiggia, op. cit., 2009, p. 53
22 M. Rovigatti in G. Bonasegale (a cura di), op. cit, 1994, pp. 310-312 (con bibliografia precedente); S. Gagliardini, in G. Bonasegale-E. Zanella (a cura di), op. cit., 2005, scheda n. 65 pp. 220 ss (con bibliografia precedente). Di Funi in collezione anche: Ananas (1956), litografia [inv. AM 4376].
23 In proposito: I. Insolera, Roma moderna, un secolo di storia urbanistica, Torino 1971, pp.122 ss., pp. 136 ss.
24 In proposito: Imago urbis Romae, l’immagine di Roma in età moderna, a cura di C. de Seta, Roma 2005, catalogo della mostra, Milano 2005.
25 Funi 1890-1972. L’artista e Milano, a cura di N. Colombo–E. Pontiggia, Milano 2001, catalogo della mostra, Milano 2001, p. 120.
26 Ci si riferisce alle opere: Mario Mafai, Demolizione di via Giulia, 1936, olio su tela [inv. AM 1127] e Afro, Demolizioni (1939), olio su tela [inv. AM 1356].
27 A. Cambedda in G. Bonasegale (a cura di) , op. cit, 1994, pp. 284 ss (con bibliografia precedente).
28 L’opera fu esposta alla Quadriennale del 1935 e in questa occasione acquistata per le collezioni capitoline. Nel catalogo della mostra l’artista presentava con una estesa introduzione le sue opere (II Quadriennale d’Arte Nazionale, Roma 1935, catalogo della mostra, Roma 1935, p. 93 ss). In merito alla poetica di de Chirico in relazione ai suoi scritti, si veda: G. de Chirico, Il meccanismo del pensiero, critica, polemica, autobiografia, 1911-1943, a cura di M. Fagiolo dell’Arco, Torino 1985; M. Calvesi, La metafisica schiarita. Da de Chirico a Carrà. Da Morandi a Savinio, Milano 1982; Giorgio de Chirico Alberto Savinio Colloquio, a cura di L. Cavadini – S. Pegoraro, Lissone 2007-2008, catalogo della mostra, Milano 2007.
29 Giorgio de Chirico. L’enigma e la gloria, a cura di C. Crescentini-T. Sicoli, Catanzaro 2006, catalogo della mostra, Catanzaro 2006, p. 45.
30 C. Fabi, in G. Bonasegale-E. Zanella (a cura di), op. cit., 2005, p. 208.
31 A. Cambedda in G. Bonasegale (a cura di), op. cit., 1994, pp. 432-434 (con bibliografia precedente). Di Gino Severini in collezione anche: L’Angelo rapitore (1933-1935), olio su tela [inv. AM 1142]; Natura morta (1929), olio su tavola [inv. AM 775].
32Una collezionista e mecenate romana Anna Laetitia Pecci Blunt 1885-1971, a cura di L. Cavazzi, Roma 1992, catalogo della mostra, Roma 1991, p. 102.
33 La maschera e l’artista, a cura di F. Cagianelli-D. Matteoni, Marina di Pietrasanta 2005, catalogo della mostra, Firenze 2005, pp. 55 ss.
Dalla “conquista dell’aria” alla “nostalgia terrestre”.
Esempi di aeropittura nelle collezioni della Galleria Comunale d’Arte Moderna
Federica Pirani
Il mito del volo aereo e l’ebbrezza della visione dell’alto, insieme alla trasfigurazione della realtà visiva dovuta alla velocità della macchina, sono costanti della poetica futurista e ne segnano, altresì, la genesi.
“Noi stiamo per assistere alla nascita del Centauro e presto vedremo volare i primi angeli” scrisse Marinetti nel Manifesto del Futurismo del 1909 e , ancora più esplicitamente, in Uccidiamo il chiaro di luna , raccontò che furono i pazzi e i futuristi con “mantelli turchini rapiti nelle pagode” e con “tele color ocra dei velieri” a fabbricare aeroplani. “Ecco il mio biplano multicellulare a coda direttiva (…) Ho fra i piedi una minuscola mitragliatrice che posso scaricare premendo un bottone d’acciaio (...) E si parte nell’ebbrezza di un’agile evoluzione, con un volo vivace, crepitante, leggiero e cadenzato come un canto di invito a bere e a ballare. Avanti squadroni di flutti! I nostri aeroplani saranno per voi, a volta a volta, bandiere di guerra e amanti appassionate “ .
Se il topos del volo aereo e della sconfitta della gravità avevano trovato nello Zarathustra nicciano un’articolata definizione, fu il movimento futurista che prefigurò compiutamente, per la prima volta, attraverso i manifesti teorici, gli scritti poetici e le opere d’arte, la possibilità di un sostanziale rinnovamento delle capacità psicofisiche e della sensibilità umana per effetto delle grandi scoperte scientifiche, tecnologiche e dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, ben oltre la banalizzazione semplificatrice che ridusse il concetto alla pura equazione futurismo-esaltazione della macchina.
La contingenza storica della guerra segnò un’importante cesura con l’immagine del volo quale straordinaria espressione del mito della velocità e del nuovo rapporto tra uomo e macchina; alla volontà ascensionale intesa come impulso prometeico alla “conquista delle stelle” e alla dominazione dell’esistente, subentrò la percezione dell’innalzamento e della visione dell’alto anche come possibilità di salvezza dalle trincee e dalle macerie del conflitto in atto. Solo occupando l’aria si potrà sfuggire all’abisso e alla morte.
Proprio dalla diretta esperienza del volo aereo e della guerra nacquero numerose raccolte poetiche – da Aereoplani, canti alati di Paolo Buzzi, pubblicato da Marinetti nel 1909 a Le Cap de Bonne-Espérance, che Jean Cocteau dedicò all’amico soldato Roland Garros, alle raccolte Alcools e Calligrammes di Apollinaire – così come molteplici furono i dipinti che ebbero per soggetto “la conquista dell’aria” 1, dai quadri di Picasso intitolati Notre avenir est dans l’air, al celebre Hommage a Blériot di Delaunay, a La conquete de l’air di La Fresnay , alle opere dei vorticisti inglesi e a quelle dei pittori e fotografi statunitensi come Alfred Stiegliz e Georgia O’Keeffe .
In Italia i riferimenti ai nuovi orizzonti aperti dall’aviazione contenuti in numerosi scritti di Marinetti, ad esempio Le monoplane du pape ma anche alcuni brani de Il Manifesto tecnico della letteratura futurista e del poema parolibero Zang Tumb Tuuum, unitamente alle ricerche futuriste sul dinamismo, la velocità e la deformazione aerodinamica degli oggetti e dello spazio, si riflettono in opere pioneristiche ispirate al volo aereo quali Forme-Forze di un’elica (1914) e Prospettiva area (1919) di Enrico Prampolini , Sensazioni atmosferiche e rumori di aeroplano (1917) di Achille Lega , Forze ascensionali (1919) e Primavera umbra (1921) di Gerardo Dottori, Spirale tricolore (1923) di Roberto Marcello Baldessari, ed altre ancora.
Peraltro se la sperimentazione della prima macchina volante si deve all’intuito di due costruttori di biciclette statunitensi, i fratelli Orville e Wilbur Wright, che nel 1903 fecero volare per trentasei metri il primo prototipo di velivolo, dopo qualche anno di raduni e manifestazioni acrobatiche dei nuovi traballanti apparecchi in numerose città italiane, ben presto l’industria e i piloti della penisola si posero all’avanguardia del volo aereo2 contribuendo ad avvalorare l’idea di un’aviazione che primeggiava nel mondo.
Le imprese dei piloti italiani, come Gianni Caproni, così come le azioni eroiche di Francesco Baracca o Gabriele D’Annunzio, impressionarono molti degli artisti futuristi che vollero sperimentare personalmente il volo aereo. Balla, Dottori, Azari, Depero, Tato, Benedetta – per non citarne che alcuni – sorvolarono città e campagne, riformulando e reinventando tramite la diretta esperienza, non solo visiva ma multisensoriale, la propria percezione del mondo e nuovi “stati d’animo”.
Solo verso la fine degli anni Venti, però, le diverse esperienze dei singoli artisti futuristi, precursori e nuovi accoliti, si ritrovarono raccolte sotto un’unica bandiera riconosciuta proprio nel Manifesto dell’Aeropittura.
Dopo la fase “eroica” degli anni Dieci ed alcuni momenti di grande visibilità collettiva e riconoscimento internazionale – ad esempio a seguito della partecipazione all’Exposition des Arts décoratifs 3di Parigi del 1925 o durante la fase costruttivista dell’“Arte meccanica futurista”, ricca di rapporti e scambi con l’avanguardia europea – i futuristi avevano, infatti, intrapreso percorsi individuali segnati, tutt’al più, dal comune itinerario formativo e dall’appartenenza ad uno stile condiviso in ambito regionale, pur partecipando insieme, quale movimento, alle diverse esposizioni pubbliche.
La prima stesura del Manifesto dell’Aeropittura si deve a Mino Somenzi che lo mise a punto nel 1928 in seguito all’esperienza diretta del volo effettuata insieme a Gerardo Dottori4. Il 22 settembre del 1929 Marinetti pubblicò su “La Gazzetta del Popolo”, l’articolo intitolato Prospettive di volo e aereo pittura . Successivamente il testo, cui si aggiunsero le firme di Balla, Benedetta, Depero, Dottori,Fillia, Prampolini, Somenzi e Tato, venne più volte riformulato e comparve come prefazione ai cataloghi delle mostre itineranti che dovevano promuovere l’aeropittura, in Italia e all’estero, la prima delle quali si svolse, nel febbraio del 1931, a Roma, presso la Camerata degli Artisti a Piazza di Spagna.
Nel Manifesto sono riassunte le effimere prospettive visive offerte dal volo aereo sottolineandone il perenne dinamismo e la continua successione di visioni mutevoli; “Tutte le parti del paesaggio appaiono al pittore: schiacciate, artificiali, provvisorie, appena cadute dal cielo” e “ogni aeropittura contiene il doppio dell’aeroplano e della mano del pittore”. Sono poi descritti gli effetti della prospettiva aerea sulla visione: dalla dispersione del punto di vista, alle distorsioni ottiche, alla particolarità delle linee di fuga, agli elementi fluttuanti conseguenti alle virate o taglienti come angoli nel decollo. Il risultato è una “nuova spiritualità plastica extraterrestre“ e il totale affrancamento dal “demone della gravità”. In verità, se l’aeropittura segna senza dubbio una fase di grande espansione territoriale del movimento futurista e una sua costante presenza nelle più importanti esposizioni nazionali, come le Biennali e le Quadriennali, vari ed estremamente articolati furono gli esiti stilistici e poetici. Al di là del minimo comune denominatore della visione aerea, lo stesso Marinetti, presentando il movimento nel catalogo della III Quadriennale romana del 1939, dove i futuristi erano presenti con centoquaranta opere, individuò quattro tendenze principali: “Una aeropittura stratosferica cosmica biochimica (…) lontana da ogni verismo”, cui appartiene, tra gli altri, Prampolini; una “essenziale , mistica, ascensionale (…) che riduce i paesaggi visti dall’alto alla loro essenza e spiritualizza aeroplani e volatori fino a ridurli a puri simboli” per i quali indicò Filllia e Diulgheroff; una terza tendenza definita “trasfiguratrice, lirica, spaziale, (…) che armonizza sistematicamente il paesaggio italiano imbevendolo di appassionate velocità aeree” cui aderiscono Gerardo Dottori e Benedetta; infine un’espressione aeropittorica “sintetica e documentaria (…) con paesaggi e urbanismi visti dall’alto e in velocità”, tipica di Tato e Ambrosi.
La complessa articolazione stilistica della produzione aeropittorica è ben esemplificata nelle opere futuriste presenti nella collezione della Galleria Comunale di Arte Moderna di Roma, diverse delle quali acquistate proprio in occasione della III Quadriennale5.
Il pioneristico dipinto di Benedetta Marinetti, Velocità di Motoscafo, (tav. 24) è databile tra il 1919 e il 19246, anteriormente, quindi, alla stesura del Manifesto dell’Aeropittura. Eppure fu esposto proprio in occasione della prima mostra del gruppo nel 1931, a dimostrazione del riconoscimento da parte dei contemporanei della personale e anticipatrice ricerca della pittrice e scrittrice romana. Si tratta, come scrive la stessa artista “dell’arabesco impresso dalla velocità di un motoscafo nella polpa azzurra del mare”7; attraverso la moltiplicazione degli elementi dinamici e la trasformazione delle onde in un propagarsi di forme triangolari blu, azzurre e gialle sempre più trasparenti e indefinite man mano che si avvicinano all’orizzonte, Benedetta suggerisce, con il tipico cromatismo sintetico, proprio del futurismo romano del secondo decennio, gli effetti dell’ondulata scia del motoscafo: un piccolo triangolo arancione e nero, quasi un suggello di gusto Décò, in una composizione fortemente stilizzata. L’elemento più innovativo è rappresentato, però, dall’incurvarsi della linea dell’orizzonte e dalla sua lieve, ma significativa, inclinazione verso destra, nella stessa direzione del movimento del motoscafo. Sembra, così, che l’intera visione sia ripresa dall’alto di un aereo durante una virata e, del resto, il parallelismo, anche simbolico, tra mare e cielo ma, soprattutto, tra vele e ali, era già stato sperimentato da D’Annunzio in numerose composizioni poetiche, tanto da diventare, nonostante le riserve di Marinetti, un topos ampiamente condiviso.
Passando “dagli scacchi d’oro e dalla maioliche turchine” del mare di Benedetta8 allo spiritualismo cosmico del dipinto di Fillia, Gli amanti – noto anche col titolo Gli innamorati – (tav. 34) sembra di approdare in un altro universo poetico, sebbene entrambi i dipinti siano presenti nelle esposizioni degli anni Trenta sotto la sigla onnicomprensiva dell’Aeropittura. D’altra parte è lo stesso artista piemontese che scrisse a proposito della sua particolare declinazione della visione aerea: “I miei dipinti spezzano nettamente il cerchio della realtà per indicare i misteri della nuova spiritualità. Non ci possiamo trovare né i caratteri dell’aeroplano in volo, né quelli del paesaggio”9. L’opera, databile al 1930, presenta una corposità materica nelle pennellate e spatolate giocate su terrosi toni di grigio e marrone; l’impianto compositivo, astratto e concettuale, colloca le figure dell’uomo e della donna, quasi fossero gli originari Adamo ed Eva, sulla soglia di uno spazio geometrico caratterizzato da una grande apertura quadrata – forse una porta o una finestra – che si affaccia su di un cielo azzurro da cui si intravede un paesaggio metafisico miniaturizzato. Più che esseri umani i protagonisti del dipinto alludono a forme primarie biomorfiche nella quali è annullata la differenziazione sessuale tanto da farle assomigliare, piuttosto, ad una sorta di ermafrodito primordiale. Evidente l’influenza di quella particolare declinazione della ricerca surrealista che da Arp a Ernst, da Masson a Tanguy, finanche ad un certo Picasso, indagò l’incessante metamorfosi e l’ibridazione delle forme viventi insieme alla dimensione spirituale del mondo arcaico e che Fillia ha potuto conoscere direttamente durante i suoi frequenti soggiorni a Parigi.
Come Fillia anche Prampolini interpreta in maniera più creativa e astratta le suggestioni del Manifesto dell’Aeropittura, avvicinandosi sensibilmente alle analoghe ricerche delle avanguardie europee di ambito parasurrealista, da Baumeister agli artisti di “Abstraction-Création”.10
Alla fine degli anni Venti il periodo della sua poetica, caratterizzato da immagini schematizzate secondo campiture uniformi, soggetti meccanici e forme geometriche, in linea col mito della macchina che attraversava i contemporanei movimenti europei, dal cubismo sintetico al costruttivismo, al neoplasticismo, può dirsi concluso e, con ancora maggiore consapevolezza, dalla pubblicazione del Manifesto futurista del 1929, si apre un nuovo capitolo della ricerca che lo stesso artista definisce “Idealismo cosmico”.
Come in numerose opere dei primi anni Trenta anche in Marinaio nello spazio (Marinetti poeta del golfo della Spezia), (tav. 33) acquistato alla II Quadriennale da Giuseppe Bottai, Governatore di Roma, per le raccolte della Galleria Mussolini insieme a centodue opere11, Prampolini inserisce elementi realistici, finanche ironici, nella creazione di immagini fantastiche che alludono a forme antropomorfiche. Si tratta di organismi umani proiettati in una dimensione cosmica e fluttuante (ad esempio L’automa quotidiano del 1930, Abitante della stratosfera del 1931 ), inquadrati da una prospettiva aerea che appiattisce le forme e sovrappone i piani sagomati, a volte polimaterici, secondo i principi poetici espressi nel Manifesto e originalmente reinterpretati dall’artista. “Nel nostro manifesto dell’aeropittura” – scrive Prampolini nel 1931 –“abbiamo enunciato le basi estetiche e tecniche delle nuove possibilità pittoriche intuite e realizzate da alcuni aereopittori futuristi dichiarando, come espressione estrema, che il quadro aeropittorico deve essere policentrico. Padroni assoluti dei principi di espansione di forme-forze nello spazio; di simultaneità di tempo spazio; e della polidimensionalità prospettica; ritengo che per giungere alle alte mete di una nuova spiritualità extraterrestre, dobbiamo superare la trasfigurazione della realtà apparente , anche nella contingenza dei propri sviluppi plastici e lanciarci verso l’equilibrio assoluto dell’infinito ed in esso dar vita alle immagini latenti di un nuovo mondo di realtà cosmiche”.12
La composizione è un omaggio a Marinetti, autore dell’Aeropoema del Golfo di La Spezia, nel quale venivano esaltate la qualità “meccaniche-aviatorie-industriali-militari” del Golfo; peraltro la città era stata negli anni Trenta un centro propulsore dell’avanguardia promosso dallo stesso leader del movimento e dal gruppo futurista ligure-piemontese.13
Tra i primi riconoscimenti ufficiali dell’aeropittura è da annoverare l’acquisto da parte del Governatorato di Roma del trittico di Tato intitolato Sensazione di volo, esposto per la prima volta alla “Mostra del Centenario della Società degli Amatori e Cultori di Belle Arti” del 1929.14 (tavv. 25-27) Guglielmo Sansoni, in arte Tato, anima del gruppo futurista emiliano, si era trasferito a Roma nel 1925 ed ebbe modo, insieme ad altri artisti, di sorvolare la Capitale a bordo di un aereo Caproni15. Non è da escludere, quindi, che i tre dipinti possano rappresentare una sorta di traduzione delle visioni e delle sensazioni vissute dal pittore a bordo dell’aereo. Del resto nel lavoro è ben evidente un intento didascalico quasi a voler mostrare all’osservatore il passaggio da una visione “banalmente” aerea, a volo d’uccello, al policentrismo dinamico tipico della poetica aeropittorica.
Nonostante nel corso degli anni il trittico sia stato smembrato e, a diverse esposizioni, siano stati arbitrariamente esposti le diverse parti come singoli dipinti, l’intento unitario del lavoro risulta evidente; nel primo riquadro è raffigurato un incrocio cittadino: strade, case, abitanti, mezzi di locomozione sono ben identificabili, la pittura appare pastosa e, al di là di una prospettiva fortemente inclinata, la visione risulta piuttosto realista. Nel secondo dipinto l’immagine della città, ripresa del medesimo punto di vista, è resa sinteticamente attraverso la scomposizione geometrica di piani e volumi, scompaiono i particolari, mentre linee dinamiche si intersecano formando delle strutture a mosaico con stesure cromatiche pressoché uniformi. Nella terza inquadratura intervengono tutti gli elementi della poetica futurista enunciati dai manifesti; al centro della composizione è la spirale a vortice disegnata dall’aeroplano in picchiata che frammenta e fa esplodere lo spazio circostante, la velocità moltiplica i punti di vista, fino “ad abbracciare la molteplicità dinamica con la più indispensabile delle sintesi“, fissando “l’immenso dramma visionario e sensibile del volo”.16
Eppure, quale esito paradossale della conquista dell’aria, questa particolare declinazione aeropittorica, di cui Tato fu tra i principali esponenti, trasforma le vedute urbane in un reticolo geometrico, più o meno deformato e dilatato ma, più che aprirsi verso la visione infinita del cielo, il ribaltamento dei piani elimina la linea dell’orizzonte offrendo allo sguardo un’immagine obbligata verso la terra.17
Imponente fu la presenza dei futuristi alla Mostra futurista di Aeropittori e Aeroscultori organizzata da Marinetti all’interno della III Quadriennale del 1939; vi esposero ben quarantasette artisti con centoquaranta opere, tre delle quali entrarono nelle collezioni del Governatorato: Aeropittura di Osvaldo Peruzzi (tav. 28)Vite orizzontali di Tulllio Crali (tav. 31), Sogno di motore di Sante Monachesi (tav. 29). Un’altra opera di Monachesi, A foglia morta su Roma (tav. 30), fu acquistata direttamente dall’artista qualche anno dopo.
Marinetti, presentando l’opera di Osvaldo Peruzzi in occasione della Quadriennale, la inserisce nella corrente aeropittorica “trasfiguratrice, lirica, spaziale” insieme a Dottori e Benedetta. In verità la poetica dell’artista milanese risente piuttosto della sua formazione specificamente tecnica e della cultura tecnologica appresa nell’ambiente familiare. Ingegnere industriale, dedito alla vetreria di famiglia, Peruzzi inizia a dipingere all’inizio degli anni Trenta avvicinandosi alle tematiche aeropittoriche nel 1933-’34. Nel dipinto, intitolato genericamente Aeropittura, ma anche più specificatamente L’uomo aereo e Identificazione uomo-macchina18, le silhouettes della fusoliera , dell’elica, del volto del pilota, delle ali e delle nuvole del cielo, sono disposte su un unico piano e campite con colori freddi, metallici e trasparenti che alludono ai materiali costitutivi. La composizione, pur se conserva la riconoscibilità del soggetto rappresentato, non è formalmente lontana dalle coeve opere di alcuni esponenti della ricerca non-figurativa di ambito lombardo che, proprio nella Quadriennale del 1939 e del 1943, esposero insieme ai futuristi. 19 Peraltro il rapporto tra uomo-macchina, anche come riflessione sull’automazione nell’industria, era ben presente a Peruzzi che nell’inchiesta promossa da Fillia sulla “meccanizzazione della vita” scrisse: “ La macchina, liberando i muscoli dallo sforzo fisico, ha permesso all’uomo di lottare contro importantissimi fattori: tempo spazio, immensificandogli le doti di velocità, dandogli la possibilità di volare, allargando così sensibilità e campo d’azione individuali, esaltando le doti dell’individuo e creando quindi il superamento del lavoro fisico con il lavoro meccanico, per nulla disgregatore della personalità ma esaltatore del livello intellettuale dell’uomo per mezzo della liberazione fisica muscolare”.20
Di tutt’altra atmosfera è il dipinto del pittore di origini dalmate Tullio Crali, Vite orizzontale, acquistato dal Governatorato per Ottocento Lire. Presentando Crali come “il più grande aeropittore del momento fra gli artisti italiani e stranieri” Marinetti ricorda che a Roma, durante la Quadriennale, gli aviatori sostavano a grappoli davanti ai suoi quadri: essi vi riconoscevano ammirati e commossi le loro sensazioni”21; in effetti, proprio in quegli anni, l’artista ebbe l’eccezionale possibilità concessagli dal maggiore dell’aeroporto di Gorizia, – città dove risiedeva – di volare sulle carlinghe degli aerei da caccia “per derubare il cielo di tutti i suoi acrobatismi e scorrere fuori orizzonte”. Alla Quadriennale del 1939, oltre al dipinto acquistato per la Galleria romana, ve ne erano molti altri direttamente ispirati alle acrobazie aeree: Scivolate d’aria, Looping rovesciato, A foglia morta, Giro della morte, Tonneau ma, a differenza, delle sue precedenti ricerche, improntate ad una visione meccanica anche se non rigidamente geometrizzante del volo aereo, nelle opere della fine degli anni Trenta si avverte una nuova drammaticità espressiva.
La manovra acrobatica che porta a compiere un giro completo dell’aereo ad alta velocità, provoca la persistenza delle immagini della superficie statica del terreno – nel caso di Vite orizzontale, i tetti delle case cittadine – sulla retina del pittore–pilota; il continuum spazio temporale annulla, così, la separazione tra cielo e terra mentre l’avvitamento dell’aereo suscita un effetto spiraliforme che culmina in una sorta di gorgo dai colori plumbei. Al di là quindi della precisa descrizione degli effetti visivi dell’acrobazia aerea direttamente vissuta, nel dipinto emerge una “livida cosmogonia” dove il cielo non è più uno spazio mobile e potenzialmente infinito ma “acqua allo stato di ghiaccio”22 e le nuvole, dai toni verdi, grigi e neri incombono sulla città celando allo sguardo l’orizzonte. Più che l’ebbrezza dell’elevazione sembra di assistere alla scoperta de “le gouffre d’en haut” o ad uno “sprofondamento in un tunnel psicanalitico”23.
Ancora differenti gli esiti della ricerca aeropittorica di Sante Monachesi. Profondamente influenzato dagli scritti di Boccioni, tra il 1928 e il 1929, sperimenta strutture “spiraliche” e “diagonali” sia in disegni che in sculture. Nel 1932, insieme a Rolando Bravi, Bruno Tano ed altri, è tra i fondatori del gruppo futurista maceratese, in seguito “Gruppo Boccioni”. All’inizio degli anni Trenta realizza le prime sculture di forme dinamiche cui faranno seguito gli allumini a luce mobile e le pitture astratte che verranno esposte a Parigi nel 1937 e a New York nel 1939. Nello stesso anno partecipa con tre opere alla Quadriennale: Aeropittura di eliche imperiali, Metamorfosi aerea e Sogno di motore, quest’ultima acquistata per le collezioni della Galleria Comunale. Nel dipinto, “un autentico ritratto di macchina aerea”24, come definì Marinetti i lavori di questi anni che hanno per soggetto gli aerei da guerra, trasfigura la forte icasticità e durezza del metallo attraverso una tecnica pittorica vibrante e, “una festosità di tinte (che) rallegra intelligentemente le macchine aeree al punto di dare alle ali, alle carlinghe, alle eliche il fascino di un giardino primaverile”25.
Comperata direttamente dall’artista nel 1942 è, invece, l’opera intitolata A foglia morta su Roma, che era stata esposta alla XXI Biennale di Venezia insieme a quelle di molti altri aeropittori futuristi. La struttura verticale dell’immagine, più che ricordare una vera e propria discesa “a foglia morta” sulla città, sembra una libera composizione di frammenti e scorci urbani che emergono dalle nuvole come apparizioni o ricordi. La simbolica visione del Colosseo visto dall’alto raffigurato nel dipinto, è peraltro un topos della veduta aerea che compare addirittura alle origini della fotografia quando alcuni fotografi e pittori, come Giacomo Caneva e Ippolito Caffi, poterono ritrarre il celebre monumento, quasi un occhio magico posato a terra, durante un viaggio in mongolfiera.
Già dall’analisi stilistica, tuttavia, si evidenzia l’interesse dell’artista verso una pittura d’impasto, dove l’andamento delle pennellate si rapporta con forme e cromie giustapposte suggerendo gli esiti della futura poetica di Monachesi particolarmente incline alle valenze espressioniste e post-cubiste.
La semplice analisi di queste opere, per lo più acquistate in esposizioni pubbliche per le raccolte della Galleria Comunale d’Arte Moderna – allora Galleria Mussolini – è, pur da un punto di vista particolare, emblematica ed esemplare. Come si è visto, la sintesi poetica, che trova nel Manifesto dell’aeropittura, un’efficace elaborazione teorica condivisa da numerosissimi artisti della prima e seconda generazione futurista, rafforza l’identità del movimento e consacra Marinetti come il suo più importante animatore e portavoce; si tratta, però, solo di un sottile velo che permette di avvolgere le diverse espressioni in una unità prima impensabile e in una dimensione collettiva che rafforza i singoli autori nel momento della partecipazione ad importanti esposizioni nazionali e internazionali ma che lascia indubbiamente emergere differenze e sensibilità se non contrapposte certo molto distanti. L’appello di Prampolini a liberarsi definitivamente della “nostalgia terrestre” per approdare ad una visione cosmica, in una costante tensione verso l’ignoto e il soprannaturale, sarà accolto solo da alcuni, così come apparirà discontinuo il legame e lo scambio con le analoghe ricerche “parasurrealiste” in ambito internazionale. Resta naturalmente l’originalità della ricerca di Gerardo Dottori26 che cercò di sintetizzare nel suo misticismo aeropittorico le istanze meccaniche, urbane, industriali – tipiche del Futurismo – alla realtà rurale e alla spiritualizzazione della natura quale espressione, direi antropologica, del suo legame con la terra umbra. Così come il polimaterismo di alcune aeropitture prampoliniane precorre gli esiti di ricerche poetiche dei successivi decenni, le più riuscite visioni aeree, pur fortemente illustrative e a volte didascaliche, prefigurano, per l’essenzialità e l’immediatezza espressiva, il linguaggio pop e quello sintetico e metonimico del fumetto.
Un altro elemento che, partendo dal caso particolare degli acquisti per la Galleria Mussolini, illumina o meglio conferma il rapporto tra il regime e movimento d’avanguardia, è l’esigua presenza futurista in questa, come in molte altre raccolte pubbliche.27
Mentre Marinetti rivendica il ruolo del futurismo quale espressione delle istanze rivoluzionarie del Fascismo, della funzione di guida nell’arte moderna, della superiorità sulla produzione internazionale, il regime non riconoscerà mai nessun “primato” ai futuristi. Piuttosto la politica culturale del Ventennio si caratterizzò, per molto tempo, come una “non scelta” preferendo abilmente accontentare, di volta in volta, i diversi, perfino contrapposti, movimenti che del regime vollero farsi interpreti e propugnatori, sia che questi raccomandassero il ritorno alla sana tradizione, agli archi e alle colonne, al mestiere di pittore, sia che esaltassero il mito della macchina, della velocità e della tecnica. Resta, comunque, un dato significativo, seppur parziale da prendere in considerazione, in relazione a ciò che si è detto: “La Galleria Mussolini, fiore all’occhiello del Governatorato di Roma, cambia completamente volto durante il ventennio fascista, arricchendo le sue collezioni di preziosi capolavori, la maggior parte dei quali acquistati alle Quadriennali: ben trecentocinquantatre opere nelle prime quattro edizioni; di queste, cinque, appartengono al secondo futurismo”28.
Poco prima del secondo conflitto mondiale dall’espressione visiva delle acrobazie aeree si passerà, con l’”aeropittura di guerra” a raffigurare i bombardamenti e il loro esiti; la ricerca artistica si trasformò, così, in pura propaganda e l’aereo, da presenza mitica e angelo meccanico per la “conquista delle stelle”divenne, icasticamente, un efficace strumento di morte e distruzione.
NOTE
1 Nel 1910 l’Accademia di Francia indisse un concorso di poesia intitolato “La conquête de l’air”. Vedi a proposito G.Lista, Apollinaire et la conquête de l’air, in “La Revue des Lettres Modernes”, Paris, n°380-384, décembre 1973, pp. 115-129.
2 Nel corso degli anni Trenta l’Italia deteneva tutti i maggiori record di quota, distanza, velocità nelle varie categorie di aerei . Vedi M.Mondini, L’aereoplano:dalle intuizioni leonardesche sul volo umano al mito della velocità, in catalogo della Mostra Il mito della velocità , a cura di E.Martera, P.Pietrogrande, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 19 febbraio-18 maggio, Giunti, Firenze, 2008, pp. 150-153.
3 Sul successo della presenza futurista all’ Exposition de Arts décoratifs di Parigi, vedi F.Pirani, Tre italiani a Parigi. La partecipazione futurista all’”Exposition des Arts Décoratifs” del 1925, in Il Decò in Italia, catalogo della mostra a cura di F.Benzi, Milano, Electa, 2004, pp. 274-294.
4 Sul documento, inedito fino a pochi anni fa, conservato al MART nell’Archivio del 900 di Rovereto, vedi M.Duranti, Genesi e interpretazioni del Manifesto dell’areopittura, in catalogo della mostra, Futurismo 1909-1944, Arte, architettura, spettacolo, grafica, letteratura, a cura di E. Crispolti, Mazzotta, 2001, pp. 213-219 . Al Manifesto dell’Aeropittura seguì il Manifesto tecnico dell’aeroplastica futurista, firmato da B.Munari, C.Manzoni, G.Furlan, Ricas , Regina, pubblicato su “Sant’Elia” il 1 marzo del 1934 e il Manifesto futurista umbro dell’aeropittura, di Gerardo Dottori, sottoscritto da Meschini, G.Preziosi, A.Bruschetti. Per la bibliografia generale sull’Aeropittura e il Secondo futurismo si rimanda ai testi di E.Crispolti, M.Calvesi, G.Lista, C.Salaris, M.Duranti e ai recenti cataloghi delle mostre realizzate nel 2009 in occasione del Centenario del Futurismo.
5 Sulle opere futuriste della Galleria Comunale d’Arte Moderna e anche sul movimento dell’aereopittura in generale, vedi soprattutto G.Bonasegale, a cura di, Catalogo generale della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, 1995, M.Rovigatti, Il fascismo e la politica delle arti tra modernità e tradizione 1939-1943: Le Quadriennali di guerra, in Catalogo generale della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea , cit. pp.79-136, il catalogo della mostra Da Balla a Morandi. Capolavori dalla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, a cura di G.Bonasegale, E.Zanella, Roma, 2005; G.Bonasegale, L’estetica del volo tra futurismo e aeropittura, In Futurismo.Aviomania.Tecnica e cultura italiana del volo, 1903-1940, catalogo della mostra, a cura di A.M.Andreoli, G.Caprara, E.Fontanella, Roma, 2003, pp.169-174. Nello stesso catalogo vedi inoltre il saggio di C.Salaris, La religione della velocità che fornisce una completa visione sulle diverse declinazioni del mito aereo nell’avanguardia futurista, dalla poesia alla scultura, dal teatro all’architettura. Vedi, inoltre, G.Bonasegale, Il Governatorato di Roma lesina gli acquisti, in I futuristi e le Quadriennali, Milano, 2008, pp. 73-85.
6 M.Rovigatti, scheda dell’opera Velocità di motoscafo, in G.Bonasegale, a cura di, Catalogo generale della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, cit. pp 211-212
7 Benedetta Cappa Marinetti, Sensibilità futurista, in “L’Ambrosiano”, 10 dicembre, 1924. Per le notizie specifiche sui dipinti esposti in occasione di questa mostra così come sulle notizie bio-bibliografiche sugli artisti presenti vedi in questo catalogo Apparati a cura di Stefania Gagliardini.
8 F.T.Marinetti, scrisse a proposito del dipinto della moglie: “un’elasticità che snoda e fa anguillare una scia nel mare napoletano a scacchi d’oro e maioliche turchine del famoso quadro di Benedetta Velocità di motoscafo” in F.T.Marinetti, “Benedetta”, in “L’Impero”, 29 gennaio 1931.
9 Fillia (Luigi Colombo), Spiritualità aerea, in “Oggi e domani”, 4 novembre 1930. Vi si legge, fra l’altro: “Non dobbiamo accontentarci degli aspetti della natura meccanica soltanto per trasformarli:dobbiamo dare, noi artisti, dei nuovi aspetti plastici , in cui l’azione (anche fantastica) della natura meccanica sia dimenticata completamente”. Il testo è ripreso nel 1932 nel “Manifesto dei futuristi torinesi”.
10 Cfr E.Crispolti, Storia e critica del Futurismo, Bari, 1987 in particolare i capitoli I, II, IX.
11 Sugli acquisti per la Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma vedi G.Bonasegale, a cura di , Catalogo generale della Galleria Comunale d’Arte moderna, cit. e G.Bonasegale, Il Governatorato di Roma lesina gli acquisti, in I futuristi e le Quadriennali, cit. e M. Catalano, A Roma: una collezione civica dedicata all’arte moderna e contemporanea, nel catalogo della mostra da Balla a Morandi. Capolavori dalla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, a cura di G.Bonasegale, E.Zanella, cit. pp.55-61 Nelle raccolte della Galleria è presente un altro dipinto di Prampolini, La corrida (tav. 32), acquistato in occasione della I Mostra dell’animale nell’arte svoltasi a Roma nel 1930.
12 E.Prampolini, Aeropittura e superamento terrestre, in “Oggi e Domani”, a.III, n°5, Roma, 30 novembre 1931, p. 5.
13 A partire dal 1933 si svolse, da un’idea di Marinetti, il “Premio di Pittura Golfo di La Spezia” e l’aeropoema fu presentato proprio in occasione del Premio.
14 Vedi la scheda del trittico di M.Rovigatti in, Catalogo generale della Galleria Comunale d’Arte Moderna, a cura di G.Bonasegale, cit., pp. 446-45.0
15 G.Rotiroti, Con Balla e C. in volo su Roma, “L’Impero”, 1 luglio 1928, p. 5.
16 “L’aeropittura.Manifesto futurista” , dal catalogo della Mostra di aeropittura e di scenografia, Galleria Pesaro, Milano, ottobre-novembre, 1931, pubblicato in E.Crispolti, (a cura di) ,Ricostruzione futurista dell’Universo, catalogo della mostra, Torino, 1980, p.493
17 Cfr G.Lista, Gli anni Trenta: l’aeropittura, in catalogo della mostra Futurismo 1909-2009, a cura di G. Lista e A. Masoero, Milano, 2009,pp 237-271.
18 Sul retro del dipinto si legge la scritta “L’uomo aereo”e “Identificazione uomo macchina”.
19 A proposito della presenza nelle sale futuriste alle Quadriennali degli astrattisti milanesi e comaschi vedi E. Crispolti, “Futuristi astrattisti” nella III e IV Quadriennale in I futuristi e le Quadriennali, cit, pp. 42-45.
20 In “Città nuova”, a.III, 30 maggio 1934. Vedi, in particolare, E,Crispolti, Osvaldo Peruzzi un navigatore della modernità, in catalogo della mostra O.Peruzzi. Attraverso e dopo il Futurismo, a cura di E.Crispolti, Livorno, 1998, pp. 9-29.
21 F.T.Marinetti, in catalogo della mostra di Tullio Crali, presso il Circolo degli artisti di Gorizia, riportato N.Bressa, S.Gregorat, Apparati, in catalogo della mostra Crali il volo dei futuristi, a cura di M.Masau Dan, Trieste, 2003, p. 90.
22 Per questa particolare e condivisibile interpretazione di alcune fasi della poetica Crali vedi M.Calvesi, Crali aeropittore, in Crali, il volo dei futuristi, catalogo della mostra, cit. pp. 34-38.
23 Idem.
24 F.T. Marinetti, Sante Monachesi, “Meridiano di Roma”, 8/X/1939.
25 Ibidem.
26 La Galleria Comunale d’Arte Moderna possiede un’importante opera di Gerardo Dottori, La Natività, acquistata in occasione della I Mostra internazionale di Arte Sacra svoltasi al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1930, non esposta in questa occasione.
27 Su questo tema vedi l’intelligente saggio di G. Bonasegale, Il Governatorato di Roma lesina gli acquisti, in I futuristi e le Quadriennali, cit.
28 Idem, p. 82.
* Desidero ringraziare Maria Catalano per la disponibilità mostrata nell’indicarmi il materiale documentario ed archivistico necessario alla stesura di questo scritto.
30
marzo 2010
Percorsi del Novecento romano in 70 opere della Galleria Comunale d’Arte Moderna
Dal 30 marzo al 04 luglio 2010
arte moderna
Location
CASINO DEI PRINCIPI – VILLA TORLONIA
Roma, Via Nomentana, 70, (Roma)
Roma, Via Nomentana, 70, (Roma)
Biglietti
Biglietto unico integrato Casino Nobile, Casina delle Civette, Casino dei Principi con Mostra: € 9,00 intero; € 5,50 ridotto
Orario di apertura
9.00-19.00. Chiuso il lunedì e il 1° maggio; la biglietteria chiude 45 minuti prima Biglietto unico integrato Casino Nobile, Casino dei Principi con Mostra: € 7,00 intero, € 5,00 ridotto: cittadini dell’Unione Europea di età compresa tra i 18 e i 25 anni e, a condizione di reciprocità, anche di paesi Extra Unione Europea; a possessori di Bibliocard, tessera del C.T.S., Metrebus Card annuale; altre
Vernissage
30 Marzo 2010, ore 17 su invito
Editore
GANGEMI
Ufficio stampa
ZETEMA
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