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Personal Standard Items
Le opere incluse in questa mostra affrontano, da prospettive diverse, aspetti relazionati con la standardizzazione dei processi di produzione e con l’estetizzazione del mondo. Il punto d’unione tra le opere in mostra è la parodia, usata come strumento di resistenza e di critica delle norme imposte.
Comunicato stampa
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Nonostante la globalizzazione e la standardizzazione dell’esistenza si siano propagate dappertutto con una velocità sconcertante, molti artisti avevano messo in discussione giá da molto tempo questo processo imparabile, non più con rappresentazioni o metafore, bensì lavorando direttamente su oggetti reali e sistemi di produzione avanzati. Oggi non è più ovviabile né la globalizzazione né il suo profeta, il mercato. Il regime del mercato libero, l'integrazione economica forzata e la circolazione ultrarapida del capitale speculativo ha inglobato tutto; i protocolli, gli aspetti legali e le dinamiche di questo fenomeno planetario si stanno stringendo sempre di più senza che ci sia nessuna possibilità di scegliere o di uscire dall’apparato burocratico, che condiziona ogni aspetto della vita.
L’opera d’arte che Boris Groys definisce come biopolitica è quella che prova a “produrre e documentare la vita stessa come un’attività pura attraverso mezzi artistici”[1]. La biopolitica foucoltiana, intesa come tecnica specifica del potere e orientata verso il controllo della vita delle persone, funziona per stimolazione continua più che per sottomissione o disciplina (che comunque rimangono ben presenti). Le forme di visibilità, soprattutto il design, assumono così un protagonismo assoluto nella nostra esistenza, dove tutto si concentra sulla produttività accelerata, oggettivamente quantificabile. In questo contesto, “la produzione di capitale converge sempre più con la produzione e la riproduzione della vita sociale in sé”[2], e non rimane aspetto che stia a salvo dal mercato. Noi stessi siamo un prodotto e per questo siamo obbligati a presentarci continuamente come desiderabili e funzionali, ogni giorno ovunque.
Le opere incluse in questa mostra affrontano, da prospettive diverse, aspetti relazionati con la standardizzazione dei processi di produzione e con l’estetizzazione del mondo e come questi fenomeni influiscano quotidianamente nelle nostre vite: dal controllo biopolitico dell’esistenza, passando dai processi di serializzazione della produzione industriale fino alla standardizzazione del lavoro. Il punto d’unione tra le opere in mostra è la parodia come strumento di resistenza e di critica delle norme imposte.
Andrea Canepa si concentra sui processi di burocratizzazione globalizzata e su come l’adattarsi ad un determinato standard implichi - forzosamente – sottomettersi ad un insieme di regole. Attraverso esercizi di esplorazione formale, le sue opere, non esenti di grande carica simbolica, ci portano a soffermarci sui sistemi di controllo. A life in forms (2017) mostra in ordine cronologico i 10 formulari basici che qualsiasi individuo nel corso della sua vita prima o poi dovrà completare, dall’atto di nascita al certificato di morte. La artista elimina il testo di ciascun formulario lasciandolo così privo di funzionalità. Questi items, oggetti grafici svuotati di significato, ci mostrano strutture reticolari e celle in un esercizio di formalismo geometrico caricaturale e paradossale. L’esistenza burocratizzata si sottomette al registro anatomico-metafisico e al tecnico-politico attraverso un insieme di regolamenti (ospedalieri, scolastici, militari, bancari, statali…). I formulari che l’artista ha raccolto esercitano un controllo minuzioso sul corpo di ciascuno, senza esclusioni, nella sua attività fisica e sociale. Il suo gesto toglie a questi documenti la possibilità di registrare informazioni, e ridurre la complessità di un essere umano a un dato statistico.
IEC60083 unisce undici prese elettriche diverse che la artista ha raccolto in giro per il mondo. Le infrastrutture elettriche appartengono a un altro momento storico, previo alla globailizzazione, quando ogni Stato si organizzò indipendentemente creando i propri sistemi di voltaggi e corrente. Chissà la sua proposata sia eloquente di quello che l’individuo deve attraversare attualmente, in un mondo globalizzato e iperconnesso che obbliga allo spostamento continuo, più o meno forzato. Allo stesso tempo, rappresenta anche una rievocazione dei processi burocratici kafkiani, dai quali deve passare ogni cittadino in transito. Entrambe le opere di Andrea Canepa ci raccontano la complessa rete di doveri che si stabilisce quando un individuo si relaziona col proprio ambiente circostante, e l’obbligo di adattarsi ai processi che regolano la vita in comune.
Il video di Eva Fàbregas indaga i processi di produzione del disegno industriale degli oggetti che ci circondano, attraverso un case-study emblematico che rivoluzionò l’ambiente domestico. The role of unintended consequences (Sofa Compact) (2016) è un’animazione che prende spunto dall’omonimo divano di Charles e Ray Eames, che dal 1954 non si è smesso di produrre e vendere in tutto il mondo. Si tratta del archetipo di una nuova creatività industriale che si allontana dagli stili e la tradizione imitativa “borghese” del passato, per rispondere a nuove necessità di comodità, costi contenuti e facilità di trasporto per arrivare a clienti sparsi in tutto il mondo. È l’inizio di un processo nel quale i produttori diedero maggiore importanza all’estetica invece che alla durabilità, offrendo poi la possibilità di adattare i loro prodotti all’esigenza di qualsiasi consumatore. Usando il disegno come base, si dispiegano un’infinità di varianti che si adattano facilmente a tutti i gusti e case. La colonna sonora del video riproduce l’annuncio originale creato dagli stessi Eames, già perfettamente consapevoli dell’importanza del marketing. Il suono e il ritmo del montaggio danno al video una certa atmosfera di parodia. Le immagini in loop evidenziano come l’omogeneizzazione del mondo attraverso gli oggetti di design si basi sulla distribuzione mondiale continua, e il Sofa Compact appare come un’entità virale che si propaga in “habitats” differenti. La parodia che propone la artista è giustamente usata per enfatizzare la velocità e il cambio irreversibile che incarna simbolicamente questo divano, come prototipo di tanti altri fenomeni del marketing globale.
Fin dalle avanguardie storiche, incluso tra più formali, si promulgò “un orizzonte utopico che mantenne le opere d’arte lontane dall’essere semplici esercizi ornamentali e di decorazione”, come sottolinea la artista-attivista Martha Rosler[3]. Da quel momento in poi la questione si complica e, nell’attuale capitalismo transestetico, nessun oggetto, per quanto banale, sfugge all’intervento del disegno e al suo “trucco” estetico. Ogni prodotto, dal cellulare allo spazzolino da denti, emana tutta una serie di considerazioni che vanno oltre la sua funzione pratica, come l’eleganza, la bellezza e incluso, una personalità evidentemente attrattiva. Niente sfugge dall’essere trasformato in un oggetto di design o decorativo, per sedurre e produrre effetti emozionali che muovono a possederli. Tutto questo lo articola bene la collezione di dildo che presenta Ariadna Parreu nell’opera Softporn (2016). La varietà di forme e colori di questi oggetti, a modo d’arma di seduzione, è sintomatica del capitalismo del iperconsumo che s’appropria anche della sfera più intima. La artista, con una inversione carnevalesca, fa una parodia di questo processo di abbellimento industriale: si appropria di oggetti funzionali ma anche estetizzati, proponendo una collezione di forme attrattive prive della loro funzione originale. Allo stesso tempo questi oggetti sfuggono dai processi di fabbricazione industriale: sono stati realizzati in ceramica plastica con un processo totalmente manuale e artigianale. Tornando alle origini del design, all’artigianato applicato ad un prodotto attuale, Parreu altera la logica di fabbricazione e l’esposizione di questi prodotti allontanandoli dall’immagine propria dell’industria della sessualità, e muovendoli verso un’area diversa del design dove ora sono solo dei “bei giochini”. Parreu toglie così ad oggetti intimi la loro connotazione e li restituisce come oggetti non più di piacere sessuale ma solamente visivo. Allo stesso tempo, evidenzia la necessità di “rifiutare l’idea della separazione assoluta tra l’arte di creazione e l’arte commerciale”[4].
Non si tratta, evidentemente, che le opere d’arte debbano fare concorrenza agli oggetti commerciali, ma bisogna questionare, come forma di resistenza, l’ansietà produttiva che ci circonda e, per lo meno, esserne coscienti dell’estetizzazione che l’accompagna. Finalmente, insieme a queste opere che ci parlano di processi di fabbricazione industriale, di ruoli e funzioni, di controllo sulle diverse variazioni della produzione e dell’individuo, si mostra una serie di disegni, Puestas de sol (2016), realizzati da Fernando García. Sono lavori rituali, che rivelano la lentezza del processo e richiedono l’attenzione tanto dell’esecutore quando dello spettatore.
La ricerca di García lo porta a concentrarsi in materiali di scarto, quello che l’artista incontra, studia e trasforma in un esercizio di ripetizione di forme successive per arrivare, finalmente, al maggior numero di risultati possibili e consenta un grado massimo di libertà creativa. Questo modus operandi apparentemente contraddice le opere qui presentate. Opere realizzate come un esercizio di riflessione sul proprio processo creativo, e che si basano nel portare a termine un lavoro quasi meccanico, intorno ad un sistema di produzione che lascia poco margine al errore, al caso e all’immaginazione. Qui tutto è deciso precedentemente, non è necessario pensare, c’è solo da agire; l’artista semplicemente continua in attesa di quel raggio inaspettato che apra, come un filo verso altre scene, una nuova linea di lavoro. La serie di disegni in mostra é il risultato di una sequenza precisa di ordini che l’artista ha elaborato e che segue scrupolosamente durante l’esecuzione. Replica il modo di lavoro di un esecutore che non prende decisioni, solo esegue nell’attesa di alcune piccole variazioni, quasi impercettibili, che rendono queste opere dei pezzi unici.
Sono dunque ítems, personali ma anche standardizzati, una contraddizione che si spiega grazie alla parodia esplicita presente in tutte le opere in mostra. La parodia, a differenza della finzione, si mantiene a distanza dell’oggetto reale che “attacca”; è talmente realista che crea uno spazio adeguato per la messa in discussione di ciò che ci circonda[5]. L’urgenza sta nello svelare e contrastare il flusso globalizzatore che ci ha inghiottito e convinto che “essere e possedere” è ciò che conta, mentre noi pensavamo che l’importante era “creare e trasformare”[6]. Si tratta dunque di recuperare la volontà di creare e trasformare tante volte quante sia necessario, fino a che gli items smettano di essere numerabili e replicabili, perché quello che è personale non dovrebbe mai essere standard.
[Beatriz Escudero e Francesco Giaveri]
[1] Boris Groys, El arte en la era de la biopolítica: De la obra de arte a la documentación de arte
[2] Michael Hardt y Toni Negri, Imperio
[3] Martha Rosler, ¿Tomar el diner y correr? ¿Puede ‘sobrevivir’ el arte político y de crítica social?
[4] Gilles Lipovetsky y Jean Serroy, La estetización del mundo
[5] Giorgio Agamben, “Parodia”, in Profanazioni
[6] Remedios Zafra, El entusiasmo
L’opera d’arte che Boris Groys definisce come biopolitica è quella che prova a “produrre e documentare la vita stessa come un’attività pura attraverso mezzi artistici”[1]. La biopolitica foucoltiana, intesa come tecnica specifica del potere e orientata verso il controllo della vita delle persone, funziona per stimolazione continua più che per sottomissione o disciplina (che comunque rimangono ben presenti). Le forme di visibilità, soprattutto il design, assumono così un protagonismo assoluto nella nostra esistenza, dove tutto si concentra sulla produttività accelerata, oggettivamente quantificabile. In questo contesto, “la produzione di capitale converge sempre più con la produzione e la riproduzione della vita sociale in sé”[2], e non rimane aspetto che stia a salvo dal mercato. Noi stessi siamo un prodotto e per questo siamo obbligati a presentarci continuamente come desiderabili e funzionali, ogni giorno ovunque.
Le opere incluse in questa mostra affrontano, da prospettive diverse, aspetti relazionati con la standardizzazione dei processi di produzione e con l’estetizzazione del mondo e come questi fenomeni influiscano quotidianamente nelle nostre vite: dal controllo biopolitico dell’esistenza, passando dai processi di serializzazione della produzione industriale fino alla standardizzazione del lavoro. Il punto d’unione tra le opere in mostra è la parodia come strumento di resistenza e di critica delle norme imposte.
Andrea Canepa si concentra sui processi di burocratizzazione globalizzata e su come l’adattarsi ad un determinato standard implichi - forzosamente – sottomettersi ad un insieme di regole. Attraverso esercizi di esplorazione formale, le sue opere, non esenti di grande carica simbolica, ci portano a soffermarci sui sistemi di controllo. A life in forms (2017) mostra in ordine cronologico i 10 formulari basici che qualsiasi individuo nel corso della sua vita prima o poi dovrà completare, dall’atto di nascita al certificato di morte. La artista elimina il testo di ciascun formulario lasciandolo così privo di funzionalità. Questi items, oggetti grafici svuotati di significato, ci mostrano strutture reticolari e celle in un esercizio di formalismo geometrico caricaturale e paradossale. L’esistenza burocratizzata si sottomette al registro anatomico-metafisico e al tecnico-politico attraverso un insieme di regolamenti (ospedalieri, scolastici, militari, bancari, statali…). I formulari che l’artista ha raccolto esercitano un controllo minuzioso sul corpo di ciascuno, senza esclusioni, nella sua attività fisica e sociale. Il suo gesto toglie a questi documenti la possibilità di registrare informazioni, e ridurre la complessità di un essere umano a un dato statistico.
IEC60083 unisce undici prese elettriche diverse che la artista ha raccolto in giro per il mondo. Le infrastrutture elettriche appartengono a un altro momento storico, previo alla globailizzazione, quando ogni Stato si organizzò indipendentemente creando i propri sistemi di voltaggi e corrente. Chissà la sua proposata sia eloquente di quello che l’individuo deve attraversare attualmente, in un mondo globalizzato e iperconnesso che obbliga allo spostamento continuo, più o meno forzato. Allo stesso tempo, rappresenta anche una rievocazione dei processi burocratici kafkiani, dai quali deve passare ogni cittadino in transito. Entrambe le opere di Andrea Canepa ci raccontano la complessa rete di doveri che si stabilisce quando un individuo si relaziona col proprio ambiente circostante, e l’obbligo di adattarsi ai processi che regolano la vita in comune.
Il video di Eva Fàbregas indaga i processi di produzione del disegno industriale degli oggetti che ci circondano, attraverso un case-study emblematico che rivoluzionò l’ambiente domestico. The role of unintended consequences (Sofa Compact) (2016) è un’animazione che prende spunto dall’omonimo divano di Charles e Ray Eames, che dal 1954 non si è smesso di produrre e vendere in tutto il mondo. Si tratta del archetipo di una nuova creatività industriale che si allontana dagli stili e la tradizione imitativa “borghese” del passato, per rispondere a nuove necessità di comodità, costi contenuti e facilità di trasporto per arrivare a clienti sparsi in tutto il mondo. È l’inizio di un processo nel quale i produttori diedero maggiore importanza all’estetica invece che alla durabilità, offrendo poi la possibilità di adattare i loro prodotti all’esigenza di qualsiasi consumatore. Usando il disegno come base, si dispiegano un’infinità di varianti che si adattano facilmente a tutti i gusti e case. La colonna sonora del video riproduce l’annuncio originale creato dagli stessi Eames, già perfettamente consapevoli dell’importanza del marketing. Il suono e il ritmo del montaggio danno al video una certa atmosfera di parodia. Le immagini in loop evidenziano come l’omogeneizzazione del mondo attraverso gli oggetti di design si basi sulla distribuzione mondiale continua, e il Sofa Compact appare come un’entità virale che si propaga in “habitats” differenti. La parodia che propone la artista è giustamente usata per enfatizzare la velocità e il cambio irreversibile che incarna simbolicamente questo divano, come prototipo di tanti altri fenomeni del marketing globale.
Fin dalle avanguardie storiche, incluso tra più formali, si promulgò “un orizzonte utopico che mantenne le opere d’arte lontane dall’essere semplici esercizi ornamentali e di decorazione”, come sottolinea la artista-attivista Martha Rosler[3]. Da quel momento in poi la questione si complica e, nell’attuale capitalismo transestetico, nessun oggetto, per quanto banale, sfugge all’intervento del disegno e al suo “trucco” estetico. Ogni prodotto, dal cellulare allo spazzolino da denti, emana tutta una serie di considerazioni che vanno oltre la sua funzione pratica, come l’eleganza, la bellezza e incluso, una personalità evidentemente attrattiva. Niente sfugge dall’essere trasformato in un oggetto di design o decorativo, per sedurre e produrre effetti emozionali che muovono a possederli. Tutto questo lo articola bene la collezione di dildo che presenta Ariadna Parreu nell’opera Softporn (2016). La varietà di forme e colori di questi oggetti, a modo d’arma di seduzione, è sintomatica del capitalismo del iperconsumo che s’appropria anche della sfera più intima. La artista, con una inversione carnevalesca, fa una parodia di questo processo di abbellimento industriale: si appropria di oggetti funzionali ma anche estetizzati, proponendo una collezione di forme attrattive prive della loro funzione originale. Allo stesso tempo questi oggetti sfuggono dai processi di fabbricazione industriale: sono stati realizzati in ceramica plastica con un processo totalmente manuale e artigianale. Tornando alle origini del design, all’artigianato applicato ad un prodotto attuale, Parreu altera la logica di fabbricazione e l’esposizione di questi prodotti allontanandoli dall’immagine propria dell’industria della sessualità, e muovendoli verso un’area diversa del design dove ora sono solo dei “bei giochini”. Parreu toglie così ad oggetti intimi la loro connotazione e li restituisce come oggetti non più di piacere sessuale ma solamente visivo. Allo stesso tempo, evidenzia la necessità di “rifiutare l’idea della separazione assoluta tra l’arte di creazione e l’arte commerciale”[4].
Non si tratta, evidentemente, che le opere d’arte debbano fare concorrenza agli oggetti commerciali, ma bisogna questionare, come forma di resistenza, l’ansietà produttiva che ci circonda e, per lo meno, esserne coscienti dell’estetizzazione che l’accompagna. Finalmente, insieme a queste opere che ci parlano di processi di fabbricazione industriale, di ruoli e funzioni, di controllo sulle diverse variazioni della produzione e dell’individuo, si mostra una serie di disegni, Puestas de sol (2016), realizzati da Fernando García. Sono lavori rituali, che rivelano la lentezza del processo e richiedono l’attenzione tanto dell’esecutore quando dello spettatore.
La ricerca di García lo porta a concentrarsi in materiali di scarto, quello che l’artista incontra, studia e trasforma in un esercizio di ripetizione di forme successive per arrivare, finalmente, al maggior numero di risultati possibili e consenta un grado massimo di libertà creativa. Questo modus operandi apparentemente contraddice le opere qui presentate. Opere realizzate come un esercizio di riflessione sul proprio processo creativo, e che si basano nel portare a termine un lavoro quasi meccanico, intorno ad un sistema di produzione che lascia poco margine al errore, al caso e all’immaginazione. Qui tutto è deciso precedentemente, non è necessario pensare, c’è solo da agire; l’artista semplicemente continua in attesa di quel raggio inaspettato che apra, come un filo verso altre scene, una nuova linea di lavoro. La serie di disegni in mostra é il risultato di una sequenza precisa di ordini che l’artista ha elaborato e che segue scrupolosamente durante l’esecuzione. Replica il modo di lavoro di un esecutore che non prende decisioni, solo esegue nell’attesa di alcune piccole variazioni, quasi impercettibili, che rendono queste opere dei pezzi unici.
Sono dunque ítems, personali ma anche standardizzati, una contraddizione che si spiega grazie alla parodia esplicita presente in tutte le opere in mostra. La parodia, a differenza della finzione, si mantiene a distanza dell’oggetto reale che “attacca”; è talmente realista che crea uno spazio adeguato per la messa in discussione di ciò che ci circonda[5]. L’urgenza sta nello svelare e contrastare il flusso globalizzatore che ci ha inghiottito e convinto che “essere e possedere” è ciò che conta, mentre noi pensavamo che l’importante era “creare e trasformare”[6]. Si tratta dunque di recuperare la volontà di creare e trasformare tante volte quante sia necessario, fino a che gli items smettano di essere numerabili e replicabili, perché quello che è personale non dovrebbe mai essere standard.
[Beatriz Escudero e Francesco Giaveri]
[1] Boris Groys, El arte en la era de la biopolítica: De la obra de arte a la documentación de arte
[2] Michael Hardt y Toni Negri, Imperio
[3] Martha Rosler, ¿Tomar el diner y correr? ¿Puede ‘sobrevivir’ el arte político y de crítica social?
[4] Gilles Lipovetsky y Jean Serroy, La estetización del mundo
[5] Giorgio Agamben, “Parodia”, in Profanazioni
[6] Remedios Zafra, El entusiasmo
06
luglio 2018
Personal Standard Items
Dal 06 luglio al 31 agosto 2018
arte contemporanea
Location
GALLERIA MACCA
Cagliari, Via Alberto Lamarmora, 136, (Cagliari)
Cagliari, Via Alberto Lamarmora, 136, (Cagliari)
Orario di apertura
LUN, GIO, VEN ore 19-21, o su appuntamento
Vernissage
6 Luglio 2018, ore 19
Autore
Curatore