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Picasso d’Oro
Picasso d’Oro è un progetto espositivo di arte e design ideato in occasione del Salone del Mobile* di Milano. Ovvero una mostra ironica, originale e festosa che veicola allo stesso tempo una sfida molto seria: cogliere i possibili incontri, sovrapposizioni e coincidenze tra due attitudini progettuali prossime e nondimeno differenti, quali appunto l’arte e il design.
Comunicato stampa
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Picasso d'Oro è un progetto espositivo di arte e design ideato in occasione del Salone del Mobile* di Milano. Ovvero una mostra ironica, originale e festosa che veicola allo stesso tempo una sfida molto seria: cogliere i possibili incontri, sovrapposizioni e coincidenze tra due attitudini progettuali prossime e nondimeno differenti, quali appunto l'arte e il design. Se la reciproca distanza circa gli obiettivi perseguiti è indubbia ed evidente, non necessariamente risulta incolmabile per quanto concerne i mezzi utilizzati e le modalità operative, tanto più se una medesima "passione oggettuale" accomuna le creazioni dei designer come degli artisti. Se poi queste vengono selezionate e orchestrate in modo opportuno, le differenze possono ridursi drasticamente e i rispettivi percorsi incrociarsi fin quasi a confondersi. Il risultato complessivo, pur mantenendosi i due comparti del tutto distinti, è un'inopinata collezione di paesaggi emotivi, prima ancora che di prodotti, un organico dispiegarsi di orizzonti ermeneutici, perfino. Accade cioè una sorta di osmosi: se il design sembra trovare eco artistiche e complessità semantiche inaspettate, l'arte può interrogare se stessa e il mondo da una prospettiva decisamente inedita e sperimentale.
Tutto ciò sembra annunciarsi in modo esemplare nel lavoro fotografico di Alessandro Piangiamore, carico di semantiche pertinenti ad ogni lavoro presente in mostra. Una possente grù, leva emblematica dell'antropico, appare in un primo momento sormontata da un suo analogo naturale, un arcobaleno. Il quale tuttavia, una volta ritagliato secondo l'azione calcolata di un progettista-demiurgo, si "cosifica" anch'esso finendo appeso alla sua corda gravitazionale. Di concerto, difficile non cogliere un portato altrettanto poetico in un prodotto di design quale il telo copri-bicicletta di Vano Alto, che il duo ha realizzato cucendo assieme un'intera collezione di pettorine da ciclista, donata loro da un agonista in pensione e relativa a gare particolarmente sentite. Così come è impossibile, di nuovo, non scorgere istanze decorative nella serie di piatti (già tavolozze) sapientemente imbrattati da Luca Bertolo, tutt'altro che spensierati e anzi gravidi di interrogativi. Se Greta Matteucci predilige, come soggetto della sua nuova, imponente scultura, una metafisica fontana senz'acqua come quelle di De Chirico, nella panchina perfettamente funzionale di Andrea Salvetti è possibile scorgere suggestioni primitive che senza soluzione di continuità partono da Constantin Brancusi, passano per Keith Haring e approdano a Jeff Koons. Appartengono invece a un autore Anonimo gli spremiagrumi somiglianti a civette che incredibilmente ricordano certi stilemi comuni a Gino De Dominicis, Marisa Merz e Pietro Roccasalva, ma soprattutto la passione di quest'ultimo per le aranciate continuamente ribadita nei suoi raffinati dipinti, disegni e video. Di converso la rivisitazione, da parte di Flavio Favelli (a breve alla Biennale di Venezia), del design di due loghi celeberrimi, ci restituisce un piccolo oggetto d'affezione degno della madeleine di Proust, mentre evoca l'infanzia di intere generazioni di italiani e addirittura il Piano Marshall. Non meno evocative sono le stampe testuali di Roberto Ago, in grado di generare l'oggetto da contemplare direttamente nell'immaginazione dello spettatore, così come di suscitare un surplus di interpretazione innescato proprio da un dato visivo ridotto a due soli pixel. Alla sapienza tutta compositiva delle celeberrime "One Minute Sculptures" di Erwin Wurm sembra invece alludere la sorprendente sedia di Dum Dum, per nulla temporanea e realizzata reiterando dei comuni attrezzi domestici, mentre suggestioni metropolitane alla J. M. Basquiat affiorano nell'intimità delle nostre case per tramite di Alessandro Ciffo+Dum Dum e della loro provocatoria tovaglia in silicone. Un poco più aulici sono i vasi di cartone sgualcito confezionati per l'occasione da Andrea Gianni, memori sia delle "Brillo box" di Andy Warhol che dei contorni fittili di Amedée Ozenfant e Ben Nicholson, ideali testimoni di un'archeologia del contemporaneo che passa tuttora per anfore e brocche riccamente decorate. Sorprende lo spettatore fin dall'ingresso il lavoro di Giulia Cenci realizzato con dei neon "terminali", sinistra installazione cui è dato di risvegliare i cimiteri minimalisti ma anche di proporsi, in questo nuovo contesto e perfettamente in linea con il portato originario del materiale utilizzato, come una bellissima lampada dis-funzionale, poetica e struggente. Al minimalismo sembrano guardare anche le lampade vere e proprie di Uto Balmoral, ricavate da putrelle d'acciaio ora piegate, ora spezzate, sempre docili. Su una linea ancora diversa, più plastica e compositiva, le sculture astratte di Stanislao Di Giugno ottenute assemblando parti di carrozzerie di auto e motoveicoli, oscillanti tra modus dadaista e atmosfere post-umane ovvero non prive di cupe valenze tutte da decifrare. Molto raffinato anche l'intervento di Attila Faravelli, che presenta delle casse elettro-acustiche incurvate tanto francescane nel materiale utilizzato quanto avveniristiche sul piano performativo, poiché diffondono i suoni nello spazio con progressioni curve prossime alle geometrie futuriste. Autentico crocevia dell'intera mostra, infine, i portariviste d'arte ideati da Michela Alquati a partire da quello che la designer, dopo un attento studio delle produzioni artistiche contemporanee più gettonate, ha ritenuto essere lo stile "maggioritario" veicolato da prestigiose riviste di settore come Mousse e Kaleidoscope. Ponendosi essi stessi come sculture, costituiscono una sagace provocazione degna di un autentico lavoro d'arte, mentre fanno il ritratto a un diffuso manierismo doppiamente tangibile.
Chi saprà aggiudicarsi il fantomatico Picasso d'Oro, qui alla sua prima edizione, un artista o un designer? Al pubblico l'ardua sentenza.
Tutto ciò sembra annunciarsi in modo esemplare nel lavoro fotografico di Alessandro Piangiamore, carico di semantiche pertinenti ad ogni lavoro presente in mostra. Una possente grù, leva emblematica dell'antropico, appare in un primo momento sormontata da un suo analogo naturale, un arcobaleno. Il quale tuttavia, una volta ritagliato secondo l'azione calcolata di un progettista-demiurgo, si "cosifica" anch'esso finendo appeso alla sua corda gravitazionale. Di concerto, difficile non cogliere un portato altrettanto poetico in un prodotto di design quale il telo copri-bicicletta di Vano Alto, che il duo ha realizzato cucendo assieme un'intera collezione di pettorine da ciclista, donata loro da un agonista in pensione e relativa a gare particolarmente sentite. Così come è impossibile, di nuovo, non scorgere istanze decorative nella serie di piatti (già tavolozze) sapientemente imbrattati da Luca Bertolo, tutt'altro che spensierati e anzi gravidi di interrogativi. Se Greta Matteucci predilige, come soggetto della sua nuova, imponente scultura, una metafisica fontana senz'acqua come quelle di De Chirico, nella panchina perfettamente funzionale di Andrea Salvetti è possibile scorgere suggestioni primitive che senza soluzione di continuità partono da Constantin Brancusi, passano per Keith Haring e approdano a Jeff Koons. Appartengono invece a un autore Anonimo gli spremiagrumi somiglianti a civette che incredibilmente ricordano certi stilemi comuni a Gino De Dominicis, Marisa Merz e Pietro Roccasalva, ma soprattutto la passione di quest'ultimo per le aranciate continuamente ribadita nei suoi raffinati dipinti, disegni e video. Di converso la rivisitazione, da parte di Flavio Favelli (a breve alla Biennale di Venezia), del design di due loghi celeberrimi, ci restituisce un piccolo oggetto d'affezione degno della madeleine di Proust, mentre evoca l'infanzia di intere generazioni di italiani e addirittura il Piano Marshall. Non meno evocative sono le stampe testuali di Roberto Ago, in grado di generare l'oggetto da contemplare direttamente nell'immaginazione dello spettatore, così come di suscitare un surplus di interpretazione innescato proprio da un dato visivo ridotto a due soli pixel. Alla sapienza tutta compositiva delle celeberrime "One Minute Sculptures" di Erwin Wurm sembra invece alludere la sorprendente sedia di Dum Dum, per nulla temporanea e realizzata reiterando dei comuni attrezzi domestici, mentre suggestioni metropolitane alla J. M. Basquiat affiorano nell'intimità delle nostre case per tramite di Alessandro Ciffo+Dum Dum e della loro provocatoria tovaglia in silicone. Un poco più aulici sono i vasi di cartone sgualcito confezionati per l'occasione da Andrea Gianni, memori sia delle "Brillo box" di Andy Warhol che dei contorni fittili di Amedée Ozenfant e Ben Nicholson, ideali testimoni di un'archeologia del contemporaneo che passa tuttora per anfore e brocche riccamente decorate. Sorprende lo spettatore fin dall'ingresso il lavoro di Giulia Cenci realizzato con dei neon "terminali", sinistra installazione cui è dato di risvegliare i cimiteri minimalisti ma anche di proporsi, in questo nuovo contesto e perfettamente in linea con il portato originario del materiale utilizzato, come una bellissima lampada dis-funzionale, poetica e struggente. Al minimalismo sembrano guardare anche le lampade vere e proprie di Uto Balmoral, ricavate da putrelle d'acciaio ora piegate, ora spezzate, sempre docili. Su una linea ancora diversa, più plastica e compositiva, le sculture astratte di Stanislao Di Giugno ottenute assemblando parti di carrozzerie di auto e motoveicoli, oscillanti tra modus dadaista e atmosfere post-umane ovvero non prive di cupe valenze tutte da decifrare. Molto raffinato anche l'intervento di Attila Faravelli, che presenta delle casse elettro-acustiche incurvate tanto francescane nel materiale utilizzato quanto avveniristiche sul piano performativo, poiché diffondono i suoni nello spazio con progressioni curve prossime alle geometrie futuriste. Autentico crocevia dell'intera mostra, infine, i portariviste d'arte ideati da Michela Alquati a partire da quello che la designer, dopo un attento studio delle produzioni artistiche contemporanee più gettonate, ha ritenuto essere lo stile "maggioritario" veicolato da prestigiose riviste di settore come Mousse e Kaleidoscope. Ponendosi essi stessi come sculture, costituiscono una sagace provocazione degna di un autentico lavoro d'arte, mentre fanno il ritratto a un diffuso manierismo doppiamente tangibile.
Chi saprà aggiudicarsi il fantomatico Picasso d'Oro, qui alla sua prima edizione, un artista o un designer? Al pubblico l'ardua sentenza.
08
aprile 2013
Picasso d’Oro
Dall'otto al 14 aprile 2013
design
Location
VP93
Milano, Via Padova, 93, (Milano)
Milano, Via Padova, 93, (Milano)
Orario di apertura
dalle 15.00 alle 19.00
Vernissage
8 Aprile 2013, h 18.30
Autore
Curatore