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Pietro De Laurentiis 1920 – 2020
In occasione del centenario della nascita di Pietro De Laurentiis, il Castello Medievale di Roccascalegna ospita un’antologica con oltre quaranta tra bronzi, gessi, ceramiche e disegni. Tre grandi bronzi sono installati tra le vie del paese natale dello scultore.
Comunicato stampa
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Il 17 agosto 2021 presso il Castello Medievale di Roccascalegna (Chieti) si inaugura la mostra Pietro De Laurentiis, 1920 – 2020 (già di fatto fruibile dallo scorso 19 luglio) un’antologia delle opere dello scultore abruzzese a cura di Carlo Severati. L’evento, fortemente voluto dal Comune di Roccascalegna che ha fattivamente contribuito alla sua realizzazione, è stato organizzato in collaborazione con l’Associazione ProLoco di Roccascalegna e l’Associazione Pietro De Laurentiis.
Oltre quaranta tra bronzi, gessi, ceramiche e disegni, sono visibili nelle quattro grandi sale della Rocca longobarda insieme alla documentazione fotografica di alcune opere pubbliche, mentre tre grandi bronzi sono installati tra i vicoli del paese natale dello scultore, cui si aggiunge la monumentale “Arca della Pace” sita nella Piazza Umberto I, a coprire un periodo che va dai primi anni Quaranta agli anni Ottanta del Novecento. Il centenario della nascita di Pietro De Laurentiis (Roccascalegna 13 marzo 1920 – Roma 17 ottobre 1991) è il pretesto per rivisitare e rileggere il percorso di un artista la cui biografia attraversa letteralmente tutto il “secolo breve”.
A scoprirlo, sul finire degli anni Trenta, fu don Ciccio Verlengia, figura di intellettuale eclettico, che girovagava l’Abruzzo ricercando e catalogando beni artistici (a lui è dovuta la costituzione del nucleo fondamentale di quello che ora è il Museo Barbella). Arrivato a Roccascalegna si imbatté in un suo ritratto in gesso, fu così che conobbe un Pietro De Laurentiis ancora diciottenne, timido e taciturno. Lo portò a Chieti dove lo fece esporre all’Interprovinciale d’Arte dell’Abruzzo e del Molise del Trentanove. Fu lì che Cipriano Efisio Oppo (altra figura singolare di intellettuale prima ancora che pittore) lo notò per la sua impronta fortemente realistica scevra da ogni colorismo e lo segnalò agli organizzatori della mostra. Già in quello stadio ancora immaturo infatti, la sua opera aveva un tratto caratteristico, forte e riconoscibile, ispirato dal mondo circostante. Un universo aspro, fatto di personaggi - uomini, donne, animali - descritti con contorni netti e volumi definiti, solcati da profonde spaccature. Arcigni, come la massa sempre incombente della Maiella, dalle pendici erose da profondi canaloni. Spigolosi, dissonanti e asimmetrici come le figure delle abbazie romaniche della sua terra: San Liberatore a Maiella, San Giovanni in Venere a Fossacesia, San Clemente a Casauria.
Questi incontri fortunati lo aprirono al mondo esterno, e soprattutto gli diedero modo di studiare all’Accademia di Belle arti di Roma. È lì che probabilmente la sua vena arcaica e “selvaggia” – diremmo istintivamente strapaesana - si scontra con il mondo della Storia, arricchendosi di suggestioni a volte anche apparentemente contraddittorie tra loro, dalla forte impronta della lezione delle avanguardie dal cubismo (soprattutto) al futurismo, fino alle suggestioni della pittura e dell’architettura metafisica.
Un sincretismo che, all’interno di una serie di tendenze come quelle appunto di un certo recupero del cubismo, gli permette di maturare un suo stile che è già evidente e maturo nella seconda metà degli anni Quaranta, come appare chiaro da opere grafiche quali “I mietitori”.
Gli si farebbe un torto se si limitasse a descrivere la sua carriera artistica evidenziando il suo incontro con personalità come quelle di Luigi Moretti o di Francesco Coccia. Piuttosto con Moretti è il caso di riconoscere che già nei primi anni Cinquanta “è un artista dalla voce potente e soltanto sua; voce che dovrebbe scoppiare per gli altri di colpo.”
Ed è appunto sul finire degli anni Cinquanta che la sua scultura si fa più matura. Da un lato assume una posizione di “resistenza verso l’assalto che preme da ogni parte del gusto non-figurativo fine a se stesso, privo di una qualsiasi visione personale del mondo e della forma,” come nota Mario Diacono. Dall’altro non rinuncia per questo a indagare sul rapporto tra una massa tridimensionale e lo spazio. Perché semplicemente per lui la querelle tra figurativismo e astrattismo è un falso problema: “l’astrattismo e il figurativo, hanno come punto di arrivo la catarsi dell’elemento dal quale sono stati costruiti,” sosteneva in un’intervista degli anni Ottanta, riferendosi a Luigi Moretti, ma in maniera neanche troppo velata a sé stesso.
In questo periodo arriva a costruire una scultura in cui assoluta è la totalitarietà plastica, che dà una scultura come massa, e insieme come grafia. Anche Giulio Carlo Argan, nota che la sua “è una scultura che nasce dall’immagine o dalla visione, lo spazio è uno spazio stranamente bidimensionale, o comunque abnorme e di scarsa profondità, nel quale la forma deve incastrarsi a viva forza, ritagliandosi, frammentandosi, scomponendosi, più che nei suoi volumi, nelle sue parole più semplici, nei suoi etimi plastici originari, quasi compensando così, con lo spazio che scava e ricava in sé, la rarefazione spaziale di cui ha bisogno per esistere.”
Gli anni Sessanta si aprono con la grande commessa dei bronzi per la sede centrale dell’Acea di Roma. Due grandi sculture ancora classificabili all’interno del perimetro del figurativismo, ma che hanno perso qualsiasi tipo di riferimento naturalistico. Anche qui la problematica è evidentemente quella del rapporto tra massa e superficie.
È solo con la metà degli anni Sessanta (soprattutto i grandi gessi bianchi esposti alla Quadriennale di Roma del Sessantacinque, ma anche i bronzetti neri traforati di cui un paio sono esposti in questa occasione) che lo scostamento dal figurativo è completato. Ma tutto sommato, come abbiamo visto, forse quella del rapporto astrattismo / figurativismo è una questione che possiamo relegare alle dispute dell’epoca.
In mostra sono rappresentati anche gli anni Settanta e Ottanta, con sculture che sembrano praticamente opere di grafica e grafiche che mai smettono di essere un modo di pensare alla scultura. E forse questo è il senso di un moto circolare che ci riporta agli esordi. Il rapporto tra massa, materia e superficie. Che siano le fenditure della propria terra, che indichino qual è il problema fondamentale dell’arte plastica, sicuramente è la cifra di della ricerca artistica di Pietro de Laurentiis.
Oltre quaranta tra bronzi, gessi, ceramiche e disegni, sono visibili nelle quattro grandi sale della Rocca longobarda insieme alla documentazione fotografica di alcune opere pubbliche, mentre tre grandi bronzi sono installati tra i vicoli del paese natale dello scultore, cui si aggiunge la monumentale “Arca della Pace” sita nella Piazza Umberto I, a coprire un periodo che va dai primi anni Quaranta agli anni Ottanta del Novecento. Il centenario della nascita di Pietro De Laurentiis (Roccascalegna 13 marzo 1920 – Roma 17 ottobre 1991) è il pretesto per rivisitare e rileggere il percorso di un artista la cui biografia attraversa letteralmente tutto il “secolo breve”.
A scoprirlo, sul finire degli anni Trenta, fu don Ciccio Verlengia, figura di intellettuale eclettico, che girovagava l’Abruzzo ricercando e catalogando beni artistici (a lui è dovuta la costituzione del nucleo fondamentale di quello che ora è il Museo Barbella). Arrivato a Roccascalegna si imbatté in un suo ritratto in gesso, fu così che conobbe un Pietro De Laurentiis ancora diciottenne, timido e taciturno. Lo portò a Chieti dove lo fece esporre all’Interprovinciale d’Arte dell’Abruzzo e del Molise del Trentanove. Fu lì che Cipriano Efisio Oppo (altra figura singolare di intellettuale prima ancora che pittore) lo notò per la sua impronta fortemente realistica scevra da ogni colorismo e lo segnalò agli organizzatori della mostra. Già in quello stadio ancora immaturo infatti, la sua opera aveva un tratto caratteristico, forte e riconoscibile, ispirato dal mondo circostante. Un universo aspro, fatto di personaggi - uomini, donne, animali - descritti con contorni netti e volumi definiti, solcati da profonde spaccature. Arcigni, come la massa sempre incombente della Maiella, dalle pendici erose da profondi canaloni. Spigolosi, dissonanti e asimmetrici come le figure delle abbazie romaniche della sua terra: San Liberatore a Maiella, San Giovanni in Venere a Fossacesia, San Clemente a Casauria.
Questi incontri fortunati lo aprirono al mondo esterno, e soprattutto gli diedero modo di studiare all’Accademia di Belle arti di Roma. È lì che probabilmente la sua vena arcaica e “selvaggia” – diremmo istintivamente strapaesana - si scontra con il mondo della Storia, arricchendosi di suggestioni a volte anche apparentemente contraddittorie tra loro, dalla forte impronta della lezione delle avanguardie dal cubismo (soprattutto) al futurismo, fino alle suggestioni della pittura e dell’architettura metafisica.
Un sincretismo che, all’interno di una serie di tendenze come quelle appunto di un certo recupero del cubismo, gli permette di maturare un suo stile che è già evidente e maturo nella seconda metà degli anni Quaranta, come appare chiaro da opere grafiche quali “I mietitori”.
Gli si farebbe un torto se si limitasse a descrivere la sua carriera artistica evidenziando il suo incontro con personalità come quelle di Luigi Moretti o di Francesco Coccia. Piuttosto con Moretti è il caso di riconoscere che già nei primi anni Cinquanta “è un artista dalla voce potente e soltanto sua; voce che dovrebbe scoppiare per gli altri di colpo.”
Ed è appunto sul finire degli anni Cinquanta che la sua scultura si fa più matura. Da un lato assume una posizione di “resistenza verso l’assalto che preme da ogni parte del gusto non-figurativo fine a se stesso, privo di una qualsiasi visione personale del mondo e della forma,” come nota Mario Diacono. Dall’altro non rinuncia per questo a indagare sul rapporto tra una massa tridimensionale e lo spazio. Perché semplicemente per lui la querelle tra figurativismo e astrattismo è un falso problema: “l’astrattismo e il figurativo, hanno come punto di arrivo la catarsi dell’elemento dal quale sono stati costruiti,” sosteneva in un’intervista degli anni Ottanta, riferendosi a Luigi Moretti, ma in maniera neanche troppo velata a sé stesso.
In questo periodo arriva a costruire una scultura in cui assoluta è la totalitarietà plastica, che dà una scultura come massa, e insieme come grafia. Anche Giulio Carlo Argan, nota che la sua “è una scultura che nasce dall’immagine o dalla visione, lo spazio è uno spazio stranamente bidimensionale, o comunque abnorme e di scarsa profondità, nel quale la forma deve incastrarsi a viva forza, ritagliandosi, frammentandosi, scomponendosi, più che nei suoi volumi, nelle sue parole più semplici, nei suoi etimi plastici originari, quasi compensando così, con lo spazio che scava e ricava in sé, la rarefazione spaziale di cui ha bisogno per esistere.”
Gli anni Sessanta si aprono con la grande commessa dei bronzi per la sede centrale dell’Acea di Roma. Due grandi sculture ancora classificabili all’interno del perimetro del figurativismo, ma che hanno perso qualsiasi tipo di riferimento naturalistico. Anche qui la problematica è evidentemente quella del rapporto tra massa e superficie.
È solo con la metà degli anni Sessanta (soprattutto i grandi gessi bianchi esposti alla Quadriennale di Roma del Sessantacinque, ma anche i bronzetti neri traforati di cui un paio sono esposti in questa occasione) che lo scostamento dal figurativo è completato. Ma tutto sommato, come abbiamo visto, forse quella del rapporto astrattismo / figurativismo è una questione che possiamo relegare alle dispute dell’epoca.
In mostra sono rappresentati anche gli anni Settanta e Ottanta, con sculture che sembrano praticamente opere di grafica e grafiche che mai smettono di essere un modo di pensare alla scultura. E forse questo è il senso di un moto circolare che ci riporta agli esordi. Il rapporto tra massa, materia e superficie. Che siano le fenditure della propria terra, che indichino qual è il problema fondamentale dell’arte plastica, sicuramente è la cifra di della ricerca artistica di Pietro de Laurentiis.
17
agosto 2021
Pietro De Laurentiis 1920 – 2020
Dal 17 agosto al 30 settembre 2021
arte moderna
Location
SEDI VARIE – Roccascalegna
Roccascalegna, (Chieti)
Roccascalegna, (Chieti)
Biglietti
La mostra è gratuita, per i visitatori del Castello Medievale di Roccascalegna.
L'ingresso al Castello è su prenotazione tramite il sito:
https://www.castelloroccascalegna.com/.
Il costo della visita al Castello è di 4 Euro.
Orario di apertura
Dalle 10:00 alle 20:15
Sito web
Autore
Curatore
Allestimento
Produzione organizzazione