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Pietro Lenzini – Il dardo di fuoco
Mostra personale del pittore ed incisore Pietro Lenzini che vive ed opera a Faenza ed è docente di Scenotecnica presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ha svolto attività scenografica, ma si è dedicato in particolare alla pratica incisoria.
Comunicato stampa
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IL DARDO DI FUOCO
Testo di Franco Patruno
La memoria non raccoglie nostalgicamente i residui di un passato che non c'è più. Cioè non piange su se stessa. Se si accede alla riflessione di Agostino, mirabilmente recepita da Paul Ricoeur, è nell'oggi della coscienza vigile che l'autenticità del tempo trascorso si riattualizza. E' una coscienza, mi si perdoni la forzatura, quasi sacramentale. Ed è proiettata sul quel futuro che costruiamo facendo. L'operare autentico degli artisti, ben oltre la loro immediata consapevolezza, è colmo di segni, apprezzamenti, privilegi accordati, forme e colori. Quasi una storia da ripercorrere come un compito. Senza malinconie patologiche, dimenticare è abbandonare all'oblio uno spazio di valori tattili, cromatici e grafici d'inusitata energia propositiva. Nella storia della cultura sono segnate le singole memorie in modo indissolubilmente legato al personale destino e ad un'irripetibile vocazione. Velasquez, Goya, Bernini, Guido Reni ed anche i guizzi magnetici di Magnasco appartengono, coscientemente raggiunti ed accettati come indicazione, a Pietro Lenzini. Non temo d'affermare che un fiume non inutile di conversazioni amicali mi lega al pittore e scenografo faentino, o, come si suol dire, quasi una vita tra quadri ed atmosfere elettive. Non ho mai pensato che la componente barocca sia per lui un approdo che disarmi la modernità: l'amore per le avanguardie, ed anche l'ammiccamento con la "Pop" come disincanto, ha fatto capolino in diverse fasi della sua attività, grafica e pittorica.
Certo, accanto a Luciano de Vita ha appreso ogni malizia nel trasformare l'inedito campo visivo in un proscenio, in un teatro che non si chiude verso un centro univoco, ma s'apre e quasi si spalanca in filamenti senza soluzione di continuità: a confermare che la poetica del Barocco è una costante del sentire che sollecita la memoria al consentire . Non è solo un fatto formale, un godimento, cioè, della mano che sviscera la fibra del segno e della pennellata. Il soggetto per Pietro è un'evocazione unita intimamente al processo formativo, indipendentemente dal rapporto di causa ed effetto, o, più compiutamente, dal fatto "ispiratore", come un tempo si diceva, induttivo o deduttivo. Se Lenzini progetta una sequenza di Angeli, come in una delle rassegne realizzate per Casa Cini, è evidente che il concretizzarsi sinuoso della pennellata si indirizza verso una possibile icona di richiamo agli esseri celesti, che la tradizione barocca ci ha consegnato. Non si può includere nel concetto di "Barocco" l'ampia gamma di espressioni che, dagli esiti manieristici del Cinquecento approdano a tutto il Settecento: è operazione didattica ma scientificamente poco corretta. Dopo il Concilio di Trento, infatti, il richiamo ad una "pietas" che aiuti la personale devozione ha trovato nel Cardinal Paleotti un acuto interprete, come Paolo Prodi ha ampiamente documentato in una pubblicazione, che ha radicalmente mutato quegli orizzonti interpretativi che, soprattutto in alcune accentuazioni di un Illuminismo protratto nei secoli, costituivano una vera e propria censura non poco ideologizzata. Andrea Emiliani, con le determinanti rassegne su Barocci e Reni, ha contribuito a render nota la varietà d'accenti e la ricchezza del rapporto tra sentimento, teologia e pietà. La parentesi storica non è decorativa: Lenzini si muove sul crinale del rivissuto pulsionale, sulla pittura come accensione affettiva e relazionale. La partecipazione è reale, anche se esposta con il cuore di una messa in scena che distanzia, in quanto rappresentazione, stabilendo rapporti intensi tra sguardo e soggetto dipinto. L'unità è dovuta alla sequenza: i primi piani, gli angoli visivi, la fusione di un colore quasi accarezzato con l'epidermide dello sguardo. Il tema della morte, ma meglio ancora del transito, è avvertibile anche negli accenti vitali, quasi a far memoria dell'allusione al ritmo tra pallore d'azzurro e rosso guizzante della ferita. Il tema del martirio come offerta non è negato dalla sofferenza assopita nell'ultimo tremito. Il richiamo, palese, è alla carnagione dei Crocifissi del Reni, tra un platonismo che non teme più il carcere del corpo e l'esultanza di una avvertita possibile resurrezione. La sinuosità sensuale, perché di sensualità è ricolmo tutto il tracciato dei ricordi di Pietro, è scritta in una specifica spiritualità dell'arte che valorizza, intensificandoli, cuore ed intelligenza religiosa. La pietas, cioè, richiama la "devotio moderna" e non la sola popolare lacrima.
Controcorrente? Non direi. Interpretare e far rivivere un contesto è, per Lenzini, un'accettazione del dato che la modernità, fraintesa come dominio della razionalità neopositivista, non rinnega ma recupera l'innegabile linfa di un cristianesimo radicato nelle fibre della storia che stiamo vivendo. Ma la sua pittura non è un proclama d'intenti. Sorridendo, potrei affermare che ogni post modernità, se non vuol essere un puro manifesto propositivo, non ama fare archeologia del passato. La malizia della mano, abile quanto mai, suggerisce anche il sorriso come disincanto. Come nel teatro barocco, quando l'effetto d'illusione s'approssima al vero più di ogni crepuscolare realismo.
Testo di Franco Patruno
La memoria non raccoglie nostalgicamente i residui di un passato che non c'è più. Cioè non piange su se stessa. Se si accede alla riflessione di Agostino, mirabilmente recepita da Paul Ricoeur, è nell'oggi della coscienza vigile che l'autenticità del tempo trascorso si riattualizza. E' una coscienza, mi si perdoni la forzatura, quasi sacramentale. Ed è proiettata sul quel futuro che costruiamo facendo. L'operare autentico degli artisti, ben oltre la loro immediata consapevolezza, è colmo di segni, apprezzamenti, privilegi accordati, forme e colori. Quasi una storia da ripercorrere come un compito. Senza malinconie patologiche, dimenticare è abbandonare all'oblio uno spazio di valori tattili, cromatici e grafici d'inusitata energia propositiva. Nella storia della cultura sono segnate le singole memorie in modo indissolubilmente legato al personale destino e ad un'irripetibile vocazione. Velasquez, Goya, Bernini, Guido Reni ed anche i guizzi magnetici di Magnasco appartengono, coscientemente raggiunti ed accettati come indicazione, a Pietro Lenzini. Non temo d'affermare che un fiume non inutile di conversazioni amicali mi lega al pittore e scenografo faentino, o, come si suol dire, quasi una vita tra quadri ed atmosfere elettive. Non ho mai pensato che la componente barocca sia per lui un approdo che disarmi la modernità: l'amore per le avanguardie, ed anche l'ammiccamento con la "Pop" come disincanto, ha fatto capolino in diverse fasi della sua attività, grafica e pittorica.
Certo, accanto a Luciano de Vita ha appreso ogni malizia nel trasformare l'inedito campo visivo in un proscenio, in un teatro che non si chiude verso un centro univoco, ma s'apre e quasi si spalanca in filamenti senza soluzione di continuità: a confermare che la poetica del Barocco è una costante del sentire che sollecita la memoria al consentire . Non è solo un fatto formale, un godimento, cioè, della mano che sviscera la fibra del segno e della pennellata. Il soggetto per Pietro è un'evocazione unita intimamente al processo formativo, indipendentemente dal rapporto di causa ed effetto, o, più compiutamente, dal fatto "ispiratore", come un tempo si diceva, induttivo o deduttivo. Se Lenzini progetta una sequenza di Angeli, come in una delle rassegne realizzate per Casa Cini, è evidente che il concretizzarsi sinuoso della pennellata si indirizza verso una possibile icona di richiamo agli esseri celesti, che la tradizione barocca ci ha consegnato. Non si può includere nel concetto di "Barocco" l'ampia gamma di espressioni che, dagli esiti manieristici del Cinquecento approdano a tutto il Settecento: è operazione didattica ma scientificamente poco corretta. Dopo il Concilio di Trento, infatti, il richiamo ad una "pietas" che aiuti la personale devozione ha trovato nel Cardinal Paleotti un acuto interprete, come Paolo Prodi ha ampiamente documentato in una pubblicazione, che ha radicalmente mutato quegli orizzonti interpretativi che, soprattutto in alcune accentuazioni di un Illuminismo protratto nei secoli, costituivano una vera e propria censura non poco ideologizzata. Andrea Emiliani, con le determinanti rassegne su Barocci e Reni, ha contribuito a render nota la varietà d'accenti e la ricchezza del rapporto tra sentimento, teologia e pietà. La parentesi storica non è decorativa: Lenzini si muove sul crinale del rivissuto pulsionale, sulla pittura come accensione affettiva e relazionale. La partecipazione è reale, anche se esposta con il cuore di una messa in scena che distanzia, in quanto rappresentazione, stabilendo rapporti intensi tra sguardo e soggetto dipinto. L'unità è dovuta alla sequenza: i primi piani, gli angoli visivi, la fusione di un colore quasi accarezzato con l'epidermide dello sguardo. Il tema della morte, ma meglio ancora del transito, è avvertibile anche negli accenti vitali, quasi a far memoria dell'allusione al ritmo tra pallore d'azzurro e rosso guizzante della ferita. Il tema del martirio come offerta non è negato dalla sofferenza assopita nell'ultimo tremito. Il richiamo, palese, è alla carnagione dei Crocifissi del Reni, tra un platonismo che non teme più il carcere del corpo e l'esultanza di una avvertita possibile resurrezione. La sinuosità sensuale, perché di sensualità è ricolmo tutto il tracciato dei ricordi di Pietro, è scritta in una specifica spiritualità dell'arte che valorizza, intensificandoli, cuore ed intelligenza religiosa. La pietas, cioè, richiama la "devotio moderna" e non la sola popolare lacrima.
Controcorrente? Non direi. Interpretare e far rivivere un contesto è, per Lenzini, un'accettazione del dato che la modernità, fraintesa come dominio della razionalità neopositivista, non rinnega ma recupera l'innegabile linfa di un cristianesimo radicato nelle fibre della storia che stiamo vivendo. Ma la sua pittura non è un proclama d'intenti. Sorridendo, potrei affermare che ogni post modernità, se non vuol essere un puro manifesto propositivo, non ama fare archeologia del passato. La malizia della mano, abile quanto mai, suggerisce anche il sorriso come disincanto. Come nel teatro barocco, quando l'effetto d'illusione s'approssima al vero più di ogni crepuscolare realismo.
15
febbraio 2004
Pietro Lenzini – Il dardo di fuoco
Dal 15 febbraio al 07 marzo 2004
arte contemporanea
Location
GALLERIA DEL CARBONE
Ferrara, Via Del Carbone, 18, (Ferrara)
Ferrara, Via Del Carbone, 18, (Ferrara)
Vernissage
15 Febbraio 2004, ore 17,00