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Pietro Zucca – Senza fissa dimora: il dualismo del vuoto
Senza fissa dimora, installazione di Pietro Zucca dal 21 Settembre a TRAleVOLTE, riunisce un elaborato lavoro concettuale, 7 strutture di icosaedro appese al soffitto, con un insieme di oggetti recuperati dalla città di Roma, creano un dialogo con l’architettura dello spazio che li ospita disegnando
Comunicato stampa
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di Gianmaria Nerli
Diciamo subito che l'arte contemporanea, oggi come oggi, nella sua gran massa di produzioni e ri-produzioni, non se la passa bene. E non è certo un problema di mode o di stili che invecchiano o che anticipano: il problema, come direbbe un salumiere, è di sostanza. Quell'insieme di situazioni che passa per arte contemporanea è ormai comodamente seduto nell'accogliente abisso dell'insignificanza, scivola via nella deriva tristissima dell'incapacità di dire, significare, dare significato alle cose, ri-creare una possibilità di comunicazione. Quanta strada si è fatta da quando Umberto Eco scriveva che «arroccata al limite estremo della comunicabilità, l’avanguardia artistica è l’unica a intrattenere un rapporto di significazione col mondo in cui vive». Oggi, che quasi qualsiasi espressione artistica rivendica la fine di qualsiasi vincolo, ossia libertà assoluta, singolarità totale, e aspira a essere avanguardia o iperavanguardia in primis di se stessa, l'arte contemporanea è letteralmente, e forse anche, per dolce paradosso della storia, ridicolmente, muta. Cioè non dice niente. A voler essere precisi ci si potrebbe tormentare cercando di capire e analizzare perché e come non dice niente, a allora vedremmo senza grosse difficoltà che sono due le grandi tendenze che rallegrano i nostri musei, le nostre fiere, le nostre kermesse biennali triennali quadriennali: la parossistica rincorsa alla concettualizzazione (quasi nessuno ormai vuole usare le mani, noblesse oblige, il lavoro sporco sporca), fino al punto che più che di autoreferenzialità oggi tocca parlare di vero e proprio autismo referenziale (e estetico) per la maggior parte delle esperienze contemporanee; a cui si accompagna un'ipermimetismo che sfiora la demenza, o anche in questo caso l'autismo plastico, estetico, e che più che rappresentarla o sintetizzarla tende a cooptare la realtà, o alcuni suoi insignificanti e irrelati lacerti all'interno delle opere. Insomma il rischio dell'abisso che grava sopra la testa dell'arte contemporanea, la sua trasparentissima afasia, ha le solide e modernissime basi del concetto e del reperto. Rischio praticatissimo, tanto da divenire dai più ambita tomba.
Eppure questo rischio è il punto di partenza per la scommessa di Pietro Zucca. Che non si perde d'animo e i due draghi decide di affrontarli insieme, riunendo un elaboratissimo lavoro concettuale, dotato di tutti i crismi dell'astrazione progettuale, dei calcoli architettonici, delle proporzioni auree (occorre fare attenzione ai numeri, la sua scultura-installazione si compone si 7 strutture, ognuna delle quali è un icosaedro, ossia un poliedro con 20 facce, uno dei solidi platonici tanto amati nel Rinascimento per le irresistibili e trascendenti suggestioni della loro armonia matematica), riunendo queste strutture, si diceva, con un insieme di reperti di realtà, di inserimenti dalla vita reale, di oggetti, lacerti di storia materiale della nostra umanità inverata nella città di Roma (si trovano appesi alle strutture un ombrello, un mattone, un estintore, uno schienale di sedia, un vaso, uno sportello, una ventola, una ruota ecc., lasciati in balia della forza di gravità in una sospensione chissà di sapore platonico, visto che il filosofo associava l'armonia dell'icosaedro alla sospesa fluidità dell'acqua). Oggetti o frammenti di oggetto che si trovano a altezze diverse, dialogano con la ricca architettura dello spazio che ospita la scultura, concorrono a comporre un tragitto, quasi disegnano in filigrana, in questo solidali con le icosaedriche strutture che li sostengono, i vuoti volumi di una città: e qui forse sta la scintilla che accende la scommessa di Zucca e chiude tra solide parentesi il rischio, la capacità di dare vita a un progetto, di voler coniugare alla abusata e retorica libertà dell'arte o di qualsiasi altra cosa, la faticosa solidità del progetto, dell'investimento di senso, del lavoro sporco, della presa di responsabilità sulla realtà, che inevitabilmente accompagna ogni esercizio intellettuale.
E così, la città-progetto che prende forma, più che una scommessa sulla forma e sull'arte, è una scommessa sulla città. Si incontra infatti una sorta di città capovolta, una città sfasata dalla città di cui accoglie come in grembo i reperti, una città senza fissa dimora, una città sospesa, e quasi ancorata a ciò che enigmaticamente tiene sospeso, una città a tutti gli effetti oscura, forse incomprensibile, ma in qualche modo la città che può ambire a esserci contemporanea. «È davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale» – ha scritto Giorgio Agamben –; «contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo sul suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri». Ecco, nella istintiva percezione di questa oscurità, un'oscurità che contorna e accompagna le luci effimere ma accecanti delle infinite offerte di libertà che assediano quotidianamente la civiltà contemporanea, la scommessa si Zucca si scioglie in conflitto, in contraddizione aperta. Da qui nasce il dialogo tra l'agonismo e la dinamicità del progetto e del progettare (come sforzo collettivo) e il sibillino richiamo della libertà, l'inarrestabile appello ad abbattere ogni limite, l'allegra decomposizione che anche l'arte persegue, con grande lusso di mezzi, di non significare più niente, se non per sé, o per qualche proprio insignificante barbaglio.
Ma è in questo nodo che l'opera di Zucca permette di intravedere un lampo di ottimismo, e fa intuire che l'arte contemporanea, fin troppo contemporanea a se stessa e ormai accecata dalle proprie luci, si è attardata a specchiarsi in un mondo, quello degli ultimi postmodernissimi decenni, che ormai non c'è più, ma che ancora è in grado di riverberare i propri bagliori. Al contrario dell'Agelus novus di Benjamin nessun vento la spinge in avanti, anzi, essa stessa si certifica guardiana delle luci, sacerdote di fuochi fatui che già evaporano. Come ogni miraggio che scompare anche questo porterà con sé le proprie macerie, sempre che non trovino posto nel mondo che nell'oscurità di quelle luci va prendendo forma. E chissà che lo spettatore della città di Zucca, il visitatore contemporaneo che intravede la città nascosta nell'ombra, passeggiando tra queste strutture, non senta risuonare dentro di sé le parole scolpite sulla pietra tombale di un famoso pirata: «davanti a te sta la città del passato, quella del futuro cresce alle tue spalle».
Diciamo subito che l'arte contemporanea, oggi come oggi, nella sua gran massa di produzioni e ri-produzioni, non se la passa bene. E non è certo un problema di mode o di stili che invecchiano o che anticipano: il problema, come direbbe un salumiere, è di sostanza. Quell'insieme di situazioni che passa per arte contemporanea è ormai comodamente seduto nell'accogliente abisso dell'insignificanza, scivola via nella deriva tristissima dell'incapacità di dire, significare, dare significato alle cose, ri-creare una possibilità di comunicazione. Quanta strada si è fatta da quando Umberto Eco scriveva che «arroccata al limite estremo della comunicabilità, l’avanguardia artistica è l’unica a intrattenere un rapporto di significazione col mondo in cui vive». Oggi, che quasi qualsiasi espressione artistica rivendica la fine di qualsiasi vincolo, ossia libertà assoluta, singolarità totale, e aspira a essere avanguardia o iperavanguardia in primis di se stessa, l'arte contemporanea è letteralmente, e forse anche, per dolce paradosso della storia, ridicolmente, muta. Cioè non dice niente. A voler essere precisi ci si potrebbe tormentare cercando di capire e analizzare perché e come non dice niente, a allora vedremmo senza grosse difficoltà che sono due le grandi tendenze che rallegrano i nostri musei, le nostre fiere, le nostre kermesse biennali triennali quadriennali: la parossistica rincorsa alla concettualizzazione (quasi nessuno ormai vuole usare le mani, noblesse oblige, il lavoro sporco sporca), fino al punto che più che di autoreferenzialità oggi tocca parlare di vero e proprio autismo referenziale (e estetico) per la maggior parte delle esperienze contemporanee; a cui si accompagna un'ipermimetismo che sfiora la demenza, o anche in questo caso l'autismo plastico, estetico, e che più che rappresentarla o sintetizzarla tende a cooptare la realtà, o alcuni suoi insignificanti e irrelati lacerti all'interno delle opere. Insomma il rischio dell'abisso che grava sopra la testa dell'arte contemporanea, la sua trasparentissima afasia, ha le solide e modernissime basi del concetto e del reperto. Rischio praticatissimo, tanto da divenire dai più ambita tomba.
Eppure questo rischio è il punto di partenza per la scommessa di Pietro Zucca. Che non si perde d'animo e i due draghi decide di affrontarli insieme, riunendo un elaboratissimo lavoro concettuale, dotato di tutti i crismi dell'astrazione progettuale, dei calcoli architettonici, delle proporzioni auree (occorre fare attenzione ai numeri, la sua scultura-installazione si compone si 7 strutture, ognuna delle quali è un icosaedro, ossia un poliedro con 20 facce, uno dei solidi platonici tanto amati nel Rinascimento per le irresistibili e trascendenti suggestioni della loro armonia matematica), riunendo queste strutture, si diceva, con un insieme di reperti di realtà, di inserimenti dalla vita reale, di oggetti, lacerti di storia materiale della nostra umanità inverata nella città di Roma (si trovano appesi alle strutture un ombrello, un mattone, un estintore, uno schienale di sedia, un vaso, uno sportello, una ventola, una ruota ecc., lasciati in balia della forza di gravità in una sospensione chissà di sapore platonico, visto che il filosofo associava l'armonia dell'icosaedro alla sospesa fluidità dell'acqua). Oggetti o frammenti di oggetto che si trovano a altezze diverse, dialogano con la ricca architettura dello spazio che ospita la scultura, concorrono a comporre un tragitto, quasi disegnano in filigrana, in questo solidali con le icosaedriche strutture che li sostengono, i vuoti volumi di una città: e qui forse sta la scintilla che accende la scommessa di Zucca e chiude tra solide parentesi il rischio, la capacità di dare vita a un progetto, di voler coniugare alla abusata e retorica libertà dell'arte o di qualsiasi altra cosa, la faticosa solidità del progetto, dell'investimento di senso, del lavoro sporco, della presa di responsabilità sulla realtà, che inevitabilmente accompagna ogni esercizio intellettuale.
E così, la città-progetto che prende forma, più che una scommessa sulla forma e sull'arte, è una scommessa sulla città. Si incontra infatti una sorta di città capovolta, una città sfasata dalla città di cui accoglie come in grembo i reperti, una città senza fissa dimora, una città sospesa, e quasi ancorata a ciò che enigmaticamente tiene sospeso, una città a tutti gli effetti oscura, forse incomprensibile, ma in qualche modo la città che può ambire a esserci contemporanea. «È davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale» – ha scritto Giorgio Agamben –; «contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo sul suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri». Ecco, nella istintiva percezione di questa oscurità, un'oscurità che contorna e accompagna le luci effimere ma accecanti delle infinite offerte di libertà che assediano quotidianamente la civiltà contemporanea, la scommessa si Zucca si scioglie in conflitto, in contraddizione aperta. Da qui nasce il dialogo tra l'agonismo e la dinamicità del progetto e del progettare (come sforzo collettivo) e il sibillino richiamo della libertà, l'inarrestabile appello ad abbattere ogni limite, l'allegra decomposizione che anche l'arte persegue, con grande lusso di mezzi, di non significare più niente, se non per sé, o per qualche proprio insignificante barbaglio.
Ma è in questo nodo che l'opera di Zucca permette di intravedere un lampo di ottimismo, e fa intuire che l'arte contemporanea, fin troppo contemporanea a se stessa e ormai accecata dalle proprie luci, si è attardata a specchiarsi in un mondo, quello degli ultimi postmodernissimi decenni, che ormai non c'è più, ma che ancora è in grado di riverberare i propri bagliori. Al contrario dell'Agelus novus di Benjamin nessun vento la spinge in avanti, anzi, essa stessa si certifica guardiana delle luci, sacerdote di fuochi fatui che già evaporano. Come ogni miraggio che scompare anche questo porterà con sé le proprie macerie, sempre che non trovino posto nel mondo che nell'oscurità di quelle luci va prendendo forma. E chissà che lo spettatore della città di Zucca, il visitatore contemporaneo che intravede la città nascosta nell'ombra, passeggiando tra queste strutture, non senta risuonare dentro di sé le parole scolpite sulla pietra tombale di un famoso pirata: «davanti a te sta la città del passato, quella del futuro cresce alle tue spalle».
21
settembre 2012
Pietro Zucca – Senza fissa dimora: il dualismo del vuoto
Dal 21 settembre al 26 ottobre 2012
architettura
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
TRALEVOLTE
Roma, Piazza Di Porta San Giovanni, 10, (ROMA)
Roma, Piazza Di Porta San Giovanni, 10, (ROMA)
Orario di apertura
da lunedì a venerdì 17-20
Vernissage
21 Settembre 2012, h 18
Autore
Curatore