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Pino Modica – Impact Effect
La mostra presenta al pubblico le nuove opere realizzate dall’artista nel 2008 sulla base di uno dei fenomeni che meglio si prestano allo studio della forza di penetrazione di proiettili prodotta da armi da fuoco, quali kalashnikov, fucile a pompa e beretta, ormai rese note dai reportage di guerra quanto dalla cronaca nera
Comunicato stampa
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Di sicuro effetto è la personale di Pino Modica (Civitavecchia, 1952) che la Galleria Altri Lavori in Corso inaugura giovedì 15 maggio, alle ore 18.00. La mostra presenta al pubblico le nuove opere realizzate dall’artista nel 2008 sulla base di uno dei fenomeni che meglio si prestano allo studio della forza di penetrazione di proiettili prodotta da armi da fuoco, quali kalashnikov, fucile a pompa e beretta, ormai rese note dai reportage di guerra quanto dalla cronaca nera.
Sviluppando compiutamente una ricerca avviata a suo tempo nei Bersagli, esposti nel 1990 alla Galleria Alice di Roma, Modica conduce la propria indagine non più su un oggetto ma, specificamente, su un materiale di uso comune, il vetro stratificato o visarm, verificandone in diversi modi resistenza e tenacità e, soprattutto, trasformandolo in elemento costitutivo dell’opera, al di là del suo inserimento o meno in un oggetto. Anzi, la lastra di vetro diviene, tout court, l’opera stessa, cristallizzando nelle craquelure e nelle infinite linee di fratturazione subite dalla superficie la violenza d’urto dei colpi. La loro potenza letale, variabile a seconda dei materiali, del diverso comportamento dei singoli proiettili, della loro struttura e della velocità al momento dell'impatto, non può essere rappresentata da un modello matematico generale, ma solo da formule empiriche, riassumibili nell’equazione che dà il titolo alla mostra e che sintetizza il “lavoro” compiuto dal proiettile al momento dell’impatto.
Tra i fondatori del Gruppo di Piombino, presente nella sezione Aperto 90 alla XLIV Biennale di Venezia, dal 1991 Modica sviluppa all’interno di una propria personale attività gli spunti teorici che nel 1984 avevano aggregato le ricerche di Salvatore Falci, Stefano Fontana e Cesare Pietroiusti attorno alle elaborazioni critiche di Domenico Nardone, volte a definire metodi operativi e intenti di una nuova avanguardia interessata a fondare l’esperienza artistica sull’universo delle interrelazioni umane e sul contesto sociale in cui si svolge. Un'Arte Relazionale che nella seconda metà degli anni ’90 è teorizzata a livello internazionale da Nicolas Bourriaud nel saggio Esthétique relationnelle (Les Presses du Réel, Dijon 1998) come modo nuovo di ripensare le figure dell'artista, dell'opera e del pubblico. Sia i “vetri infranti” sia quelli “sparati” nascono infatti da frammenti di realtà quotidiane minime o apparentemente insignificanti, all’interno di una processualità aperta, fondata su una sorta di creatività collettiva e collaborativa guidata dal progetto dell’artista, che mira a spostare l’asse percettivo ed emozionale del pubblico e magari a capovolgerne le convinzioni, dando una visione altra a gesti e azioni ritenuti di nessun conto, tanto più artistico. I primi sono creati in una vetreria, chiamando gli avventori a effettuare di persona le tre prove (con martello, mazza e biglia) richieste alle case fabbricanti per testare il limite massimo di resistenza di vetri antivandalismo e antisfondamento. I secondi in un poligono di tiro, invitando i frequentatori a sperimentare la potenza di armi diverse su vetri antiproiettile.
Le armi utilizzate per realizzare queste opere portano con sé una storia di crimini e di guerre, di mors tua vita mea che i media costantemente attualizzano con nuovi fatti e nuove vittime. Se l’uso del fucile a pompa da parte della polizia risale, infatti, alla metà dell’800 e quello da parte di un esercito regolare alla I Guerra Mondiale, la semiautomatica Beretta, disegnata negli anni Settanta del ’900, è diventata in molti paesi del mondo l’arma ufficiale delle forze dell’ordine e di forze armate, come quella italiana, la Gendarmerie francese e quella statunitense —non ultimi i Marines impegnati nella campagna in Iraq— ed è ormai assurta alla celebrità mediatica con gli action movie americani: dall’inesausto 007 ad Arma letale del 1987 alla saga di Die Hard con Bruce Willis (1988-2007). Un successo tutto particolare ha invece mietuto la mitragliatrice avtomat kalashnikova, dal 1947 arma dell’esercito sovietico. Facile da usare e tanto efficiente da permettere di uccidere senza nessun tipo di addestramento, è da anni reperibile senza difficoltà sul mercato clandestino tanto da comparire oggi nella bandiera del Mozambico e in centinaia di simboli di gruppi politici o di guerriglia, da Al Fatah alle Farc-Ep. Senza dimenticare le sue indimenticabili apparizioni cinematografiche, come la scena del cecchino donna in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick (1987).
La capacità offensiva di queste armi prende ora forma, nei lavori di Modica, di “decorazioni violente”, quanto quelle descritte da Roberto Saviano in Gomorra (Mondatori, Milano 2006), quando parla dei fori perfetti stampati dai kalashnikov sui vetri blindati dei negozi di una Napoli alla Sergio Leone, in cui “sventagliate” date per capriccio o per avvertimento ridisegnano continuamente le dinamiche d’assestamento dei capitali della camorra e la mappa del loro potere sul territorio. Presentando nel 1991 le serie delle Infrangenze, dei Bersagli e delle Finestre, Domenico Nardone sottolinea che «il vetro come materiale subisce una trasformazione di ordine qualitativo» e significativamente chiosa che «un vetro rotto non è soltanto un vetro da cambiare» (Le groupe de Piombino, cat. mostra, Guérigny, Centre d’Art Contemporaine de la Nièvre, 1991). Andando allora in cerca di altro, oltre la percezione fisica di queste “lastre di vetro sparate”, ci si rende conto che attraverso l’inserimento della luce Modica opera una vera e propria palingenesi di questo materiale povero e di produzione industriale, sia nel suo significato manifesto (una lastra di vetro d’utilità pratica) e simbolico (la resistenza alla violenza d’urto degli spari), sia nel senso latente ch’esso sottende (l’idea-immagine contenuta nel vetro come materiale). La rifrazione luminosa fa esplodere i punti d’impatto e i reticoli di frattura, conferendo peso e volume a ciò che per definizione è una superficie amorfa perfettamente trasparente. Disegna aloni stellari attorno a quei buchi, fa di terribili squarci luminescenze siderali in un cielo di velluto nero. Paesaggi cosmici appaiono come per incanto su quei diaframmi, visionari quanto “l’esperanto astrale” concepito, agli albori dell’età contemporanea, da Paul Scheerbart in Architettura di vetro (1914, trad. italiana, Adelphi, Milano 1982), contrapponendo alla sicura intimità borghese della Germania guglielmina uno spazio libero e trasparente, attraversato da onde di luce e aria, nemico del segreto e del possesso, di ogni aura e di ogni privilegio. Un ambiente capace di sviluppare gli organi sensoriali dell’uomo e destinato a trasformare profondamente lui e tutta la sua vita in senso moderno. Quasi preconizzando, però, il lato oscuro di questo materiale, Scheerbart vaticina il possibile pericolo insito nella nuova “civiltà del vetro” [materializzatasi, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, al di qua e al di là dell’Atlantico con architetti come Bruno Taut, Ludwig Mies van der Rohe, Richard Buckminster Fuller, Philip Johnson, Rafael Viñoly, Norman Foster], immaginando un’umanità vetrificata in una massa gelatinosa che avvolge il corpo come un bozzolo o una seconda pelle insensibile a qualsiasi elemento, inattaccabile e impenetrabile come solo può esserlo l’indifferenza fredda della razionalità astratta o quella ottusa della pazzia (Il terrore che viene dal vetro, 1909, pubblicato nel 1928). Una malia che lo stesso Eugenio Montale intuisce in Ossi di seppia (Piero Gobetti editore, Torino 1925), rivelando quell’«aria di vetro/arida» in cui, un mattino, si è trovato a camminare, e che, a distanza di quasi un secolo, Alessandro Baricco celebra nel suo romanzo d’esordio, Castelli di rabbia (Rizzoli, Milano 1991), quando scrive: «magia del vetro… proteggere senza imprigionare…stare in un posto e poter veder ovunque, avere un tetto e vedere il cielo…sentirsi dentro e sentirsi fuori, contemporaneamente…se lei vuole una cosa e però ne ha paura non ha che da mettere un vetro in mezzo…io metto pezzi di mondo sotto vetro perché quello è un modo di salvarsi…si rifugiano i desideri, lì dentro…al riparo dalla paura…una tana meravigliosa e trasparente».
Forse per questo, solo dopo che l’impassibilità inespressiva di questo solido amorfo si è definitivamente frantumata contro un’aggressività che non accetta più di essere ignorata o annullata, Modica interviene con l’energia della luce a donare a questo materiale una nuova possibilità di vita. La consapevolezza di questa operazione è testimoniata proprio dalla presenza, nelle ultime opere, della cornice, a ratificare la capacità acquista dal vetro non solo di rappresentare, artisticamente, la violenza che domina la nostra civiltà, ma anche di proporre una diversa immagine di questo mondo o, meglio, di rendere visibile uno spostamento fra reale e possibile, tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, solo perché un giorno immaginato dall’uomo. francesca franco
Sviluppando compiutamente una ricerca avviata a suo tempo nei Bersagli, esposti nel 1990 alla Galleria Alice di Roma, Modica conduce la propria indagine non più su un oggetto ma, specificamente, su un materiale di uso comune, il vetro stratificato o visarm, verificandone in diversi modi resistenza e tenacità e, soprattutto, trasformandolo in elemento costitutivo dell’opera, al di là del suo inserimento o meno in un oggetto. Anzi, la lastra di vetro diviene, tout court, l’opera stessa, cristallizzando nelle craquelure e nelle infinite linee di fratturazione subite dalla superficie la violenza d’urto dei colpi. La loro potenza letale, variabile a seconda dei materiali, del diverso comportamento dei singoli proiettili, della loro struttura e della velocità al momento dell'impatto, non può essere rappresentata da un modello matematico generale, ma solo da formule empiriche, riassumibili nell’equazione che dà il titolo alla mostra e che sintetizza il “lavoro” compiuto dal proiettile al momento dell’impatto.
Tra i fondatori del Gruppo di Piombino, presente nella sezione Aperto 90 alla XLIV Biennale di Venezia, dal 1991 Modica sviluppa all’interno di una propria personale attività gli spunti teorici che nel 1984 avevano aggregato le ricerche di Salvatore Falci, Stefano Fontana e Cesare Pietroiusti attorno alle elaborazioni critiche di Domenico Nardone, volte a definire metodi operativi e intenti di una nuova avanguardia interessata a fondare l’esperienza artistica sull’universo delle interrelazioni umane e sul contesto sociale in cui si svolge. Un'Arte Relazionale che nella seconda metà degli anni ’90 è teorizzata a livello internazionale da Nicolas Bourriaud nel saggio Esthétique relationnelle (Les Presses du Réel, Dijon 1998) come modo nuovo di ripensare le figure dell'artista, dell'opera e del pubblico. Sia i “vetri infranti” sia quelli “sparati” nascono infatti da frammenti di realtà quotidiane minime o apparentemente insignificanti, all’interno di una processualità aperta, fondata su una sorta di creatività collettiva e collaborativa guidata dal progetto dell’artista, che mira a spostare l’asse percettivo ed emozionale del pubblico e magari a capovolgerne le convinzioni, dando una visione altra a gesti e azioni ritenuti di nessun conto, tanto più artistico. I primi sono creati in una vetreria, chiamando gli avventori a effettuare di persona le tre prove (con martello, mazza e biglia) richieste alle case fabbricanti per testare il limite massimo di resistenza di vetri antivandalismo e antisfondamento. I secondi in un poligono di tiro, invitando i frequentatori a sperimentare la potenza di armi diverse su vetri antiproiettile.
Le armi utilizzate per realizzare queste opere portano con sé una storia di crimini e di guerre, di mors tua vita mea che i media costantemente attualizzano con nuovi fatti e nuove vittime. Se l’uso del fucile a pompa da parte della polizia risale, infatti, alla metà dell’800 e quello da parte di un esercito regolare alla I Guerra Mondiale, la semiautomatica Beretta, disegnata negli anni Settanta del ’900, è diventata in molti paesi del mondo l’arma ufficiale delle forze dell’ordine e di forze armate, come quella italiana, la Gendarmerie francese e quella statunitense —non ultimi i Marines impegnati nella campagna in Iraq— ed è ormai assurta alla celebrità mediatica con gli action movie americani: dall’inesausto 007 ad Arma letale del 1987 alla saga di Die Hard con Bruce Willis (1988-2007). Un successo tutto particolare ha invece mietuto la mitragliatrice avtomat kalashnikova, dal 1947 arma dell’esercito sovietico. Facile da usare e tanto efficiente da permettere di uccidere senza nessun tipo di addestramento, è da anni reperibile senza difficoltà sul mercato clandestino tanto da comparire oggi nella bandiera del Mozambico e in centinaia di simboli di gruppi politici o di guerriglia, da Al Fatah alle Farc-Ep. Senza dimenticare le sue indimenticabili apparizioni cinematografiche, come la scena del cecchino donna in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick (1987).
La capacità offensiva di queste armi prende ora forma, nei lavori di Modica, di “decorazioni violente”, quanto quelle descritte da Roberto Saviano in Gomorra (Mondatori, Milano 2006), quando parla dei fori perfetti stampati dai kalashnikov sui vetri blindati dei negozi di una Napoli alla Sergio Leone, in cui “sventagliate” date per capriccio o per avvertimento ridisegnano continuamente le dinamiche d’assestamento dei capitali della camorra e la mappa del loro potere sul territorio. Presentando nel 1991 le serie delle Infrangenze, dei Bersagli e delle Finestre, Domenico Nardone sottolinea che «il vetro come materiale subisce una trasformazione di ordine qualitativo» e significativamente chiosa che «un vetro rotto non è soltanto un vetro da cambiare» (Le groupe de Piombino, cat. mostra, Guérigny, Centre d’Art Contemporaine de la Nièvre, 1991). Andando allora in cerca di altro, oltre la percezione fisica di queste “lastre di vetro sparate”, ci si rende conto che attraverso l’inserimento della luce Modica opera una vera e propria palingenesi di questo materiale povero e di produzione industriale, sia nel suo significato manifesto (una lastra di vetro d’utilità pratica) e simbolico (la resistenza alla violenza d’urto degli spari), sia nel senso latente ch’esso sottende (l’idea-immagine contenuta nel vetro come materiale). La rifrazione luminosa fa esplodere i punti d’impatto e i reticoli di frattura, conferendo peso e volume a ciò che per definizione è una superficie amorfa perfettamente trasparente. Disegna aloni stellari attorno a quei buchi, fa di terribili squarci luminescenze siderali in un cielo di velluto nero. Paesaggi cosmici appaiono come per incanto su quei diaframmi, visionari quanto “l’esperanto astrale” concepito, agli albori dell’età contemporanea, da Paul Scheerbart in Architettura di vetro (1914, trad. italiana, Adelphi, Milano 1982), contrapponendo alla sicura intimità borghese della Germania guglielmina uno spazio libero e trasparente, attraversato da onde di luce e aria, nemico del segreto e del possesso, di ogni aura e di ogni privilegio. Un ambiente capace di sviluppare gli organi sensoriali dell’uomo e destinato a trasformare profondamente lui e tutta la sua vita in senso moderno. Quasi preconizzando, però, il lato oscuro di questo materiale, Scheerbart vaticina il possibile pericolo insito nella nuova “civiltà del vetro” [materializzatasi, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, al di qua e al di là dell’Atlantico con architetti come Bruno Taut, Ludwig Mies van der Rohe, Richard Buckminster Fuller, Philip Johnson, Rafael Viñoly, Norman Foster], immaginando un’umanità vetrificata in una massa gelatinosa che avvolge il corpo come un bozzolo o una seconda pelle insensibile a qualsiasi elemento, inattaccabile e impenetrabile come solo può esserlo l’indifferenza fredda della razionalità astratta o quella ottusa della pazzia (Il terrore che viene dal vetro, 1909, pubblicato nel 1928). Una malia che lo stesso Eugenio Montale intuisce in Ossi di seppia (Piero Gobetti editore, Torino 1925), rivelando quell’«aria di vetro/arida» in cui, un mattino, si è trovato a camminare, e che, a distanza di quasi un secolo, Alessandro Baricco celebra nel suo romanzo d’esordio, Castelli di rabbia (Rizzoli, Milano 1991), quando scrive: «magia del vetro… proteggere senza imprigionare…stare in un posto e poter veder ovunque, avere un tetto e vedere il cielo…sentirsi dentro e sentirsi fuori, contemporaneamente…se lei vuole una cosa e però ne ha paura non ha che da mettere un vetro in mezzo…io metto pezzi di mondo sotto vetro perché quello è un modo di salvarsi…si rifugiano i desideri, lì dentro…al riparo dalla paura…una tana meravigliosa e trasparente».
Forse per questo, solo dopo che l’impassibilità inespressiva di questo solido amorfo si è definitivamente frantumata contro un’aggressività che non accetta più di essere ignorata o annullata, Modica interviene con l’energia della luce a donare a questo materiale una nuova possibilità di vita. La consapevolezza di questa operazione è testimoniata proprio dalla presenza, nelle ultime opere, della cornice, a ratificare la capacità acquista dal vetro non solo di rappresentare, artisticamente, la violenza che domina la nostra civiltà, ma anche di proporre una diversa immagine di questo mondo o, meglio, di rendere visibile uno spostamento fra reale e possibile, tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, solo perché un giorno immaginato dall’uomo. francesca franco
15
maggio 2008
Pino Modica – Impact Effect
Dal 15 maggio al 15 giugno 2008
arte contemporanea
Location
GALLERIA ALTRI LAVORI IN CORSO
Roma, Vicolo Del Governo Vecchio, 7, (Roma)
Roma, Vicolo Del Governo Vecchio, 7, (Roma)
Orario di apertura
lunedì - sabato: 17-20, la mattina su appuntamento
Vernissage
15 Maggio 2008, ore 18
Autore
Curatore