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Polvere
un viaggio nell’archeologia industriale con opere fotografiche
Comunicato stampa
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NON SOLO POLVERE
C'è una sorta di fascino metafisico nelle fabbriche dimesse e negli edifici abbandonati, come se i luoghi siano impastati di una realtà da cui non si vogliono separare, come se i muri, le finestre, i soffitti abbiano acquisito una "memoria" che credono di avere il compito di conservare.
Naturalmente le cose non stanno proprio così, perché siamo noi con il nostro sguardo e le nostre riflessioni a proiettare su quei luoghi le nostre considerazioni sulla storia, sulla capacità di conservazione del passato, sui segni ineluttabili del tempo.
Eppure in quei luoghi un tempo frastornanti dal rumore, ora si cammina lentamente e ogni passo si fa sentire e solleva una polvere insidiosa e fine. Deve essere per tutto questo
che tre giovani fotografi, Davide Prato, Fulvio Romiti, Paola Verde hanno scavalcato muri, sfidato divieti, allargato reti, lottato contro il tempo per entrare in quei luoghi prima che le ruspe della normalizzazione li cancellassero definitivamente.
C'è qualcosa di struggente in questa sfida, in questa voglia di cercare fra le pieghe del passato perché i tre sapevano bene che avrebbero ottenuto immagini di rara bellezza.
Basta seguire le loro tracce fotografiche per farsi trascinare in interni dove l'ampiezza degli spazi produce effetti spettacolari: le grandiose campate che si perdono in un tetto sfondato oltre il quale si intravede il cielo sembrano le navate di una cattedrale bombardata, mentre un tappeto di funghi cresciuti sul pavimento di un'ala della Falck acquista un qualcosa di sinistro, come se ci si trovasse fra le rovine di una civiltà scomparsa.
Lo sguardo si muove circospetto, si sofferma su una finestra, un pilone, una sequenza di archi che ricorda l'attenzione per i particolari architettonici che caratterizzava le vecchie
fabbriche, poi segue la linea slanciata di una ciminiera che ancora punta inutilmente verso il cielo.
Ci si addentra seguendo una fuga di stanze: la luce entra attraverso le vetrate rotte e getta il segno netto delle sue geometrie sulle pareti, oppure spiove dall'alto e illumina i muri di una ex cartiera ancora intrisi di polveri verdi, gialle, rosse.
I fotografi sono bravissimi, riprendono l'insieme con la determinazione di chi vuole catturare le atmosfere, ma poi non trascurano i particolari perchè sanno bene che questi sono i punti in cui l'attenzione maggiormente si concentra e sa trasformare un elemento insignificante in una metafora.
Avanzano come un robot lunare e si trovano di fronte a un bidone rovesciato da cui da tempo è fuoruscito chissà quale liquido ora solidificato, a una scala che punta verso chissà che cosa, a un portone chiuso, a un orologio dalle lancette immobili che proietta la sua ombra. Poi, basta entrare nella stanza di un ex manicomio per trovarsi di fronte a una sedia sgangherata che pure ancora troneggia in mezzo. Chi si è seduto lì per l'ultima volta, a chi parlava, chi l'ascoltava sono domande inutili ma inevitabili.
Volgi lo sguardo attorno, vedi il mescolarsi dei colori che resistono sulle chiazze dei muri sul legno degli infissi, sugli oggetti dimenticati qua e là e ti accorgi che sei in un luogo dove anche la polvere non è grigia
Roberto Mutti
C'è una sorta di fascino metafisico nelle fabbriche dimesse e negli edifici abbandonati, come se i luoghi siano impastati di una realtà da cui non si vogliono separare, come se i muri, le finestre, i soffitti abbiano acquisito una "memoria" che credono di avere il compito di conservare.
Naturalmente le cose non stanno proprio così, perché siamo noi con il nostro sguardo e le nostre riflessioni a proiettare su quei luoghi le nostre considerazioni sulla storia, sulla capacità di conservazione del passato, sui segni ineluttabili del tempo.
Eppure in quei luoghi un tempo frastornanti dal rumore, ora si cammina lentamente e ogni passo si fa sentire e solleva una polvere insidiosa e fine. Deve essere per tutto questo
che tre giovani fotografi, Davide Prato, Fulvio Romiti, Paola Verde hanno scavalcato muri, sfidato divieti, allargato reti, lottato contro il tempo per entrare in quei luoghi prima che le ruspe della normalizzazione li cancellassero definitivamente.
C'è qualcosa di struggente in questa sfida, in questa voglia di cercare fra le pieghe del passato perché i tre sapevano bene che avrebbero ottenuto immagini di rara bellezza.
Basta seguire le loro tracce fotografiche per farsi trascinare in interni dove l'ampiezza degli spazi produce effetti spettacolari: le grandiose campate che si perdono in un tetto sfondato oltre il quale si intravede il cielo sembrano le navate di una cattedrale bombardata, mentre un tappeto di funghi cresciuti sul pavimento di un'ala della Falck acquista un qualcosa di sinistro, come se ci si trovasse fra le rovine di una civiltà scomparsa.
Lo sguardo si muove circospetto, si sofferma su una finestra, un pilone, una sequenza di archi che ricorda l'attenzione per i particolari architettonici che caratterizzava le vecchie
fabbriche, poi segue la linea slanciata di una ciminiera che ancora punta inutilmente verso il cielo.
Ci si addentra seguendo una fuga di stanze: la luce entra attraverso le vetrate rotte e getta il segno netto delle sue geometrie sulle pareti, oppure spiove dall'alto e illumina i muri di una ex cartiera ancora intrisi di polveri verdi, gialle, rosse.
I fotografi sono bravissimi, riprendono l'insieme con la determinazione di chi vuole catturare le atmosfere, ma poi non trascurano i particolari perchè sanno bene che questi sono i punti in cui l'attenzione maggiormente si concentra e sa trasformare un elemento insignificante in una metafora.
Avanzano come un robot lunare e si trovano di fronte a un bidone rovesciato da cui da tempo è fuoruscito chissà quale liquido ora solidificato, a una scala che punta verso chissà che cosa, a un portone chiuso, a un orologio dalle lancette immobili che proietta la sua ombra. Poi, basta entrare nella stanza di un ex manicomio per trovarsi di fronte a una sedia sgangherata che pure ancora troneggia in mezzo. Chi si è seduto lì per l'ultima volta, a chi parlava, chi l'ascoltava sono domande inutili ma inevitabili.
Volgi lo sguardo attorno, vedi il mescolarsi dei colori che resistono sulle chiazze dei muri sul legno degli infissi, sugli oggetti dimenticati qua e là e ti accorgi che sei in un luogo dove anche la polvere non è grigia
Roberto Mutti
24
marzo 2007
Polvere
Dal 24 marzo al 06 aprile 2007
fotografia
Location
CENTRO CULTURALE ZEROLOGICO
Milano, Via Augusto Anfossi, 8, (Milano)
Milano, Via Augusto Anfossi, 8, (Milano)
Orario di apertura
dal martedì al sabato 16–19.30
Vernissage
24 Marzo 2007, ore 18
Autore