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Prospettive – Orsola Clerici
L’occhio di Orsola sceglie, seleziona le porzioni di campo visivo più vuote, quelle che spiccano per l’assenza dell’uomo e del suo intervento. Il paesaggio che viene registrato dalla sua memoria e che successivamente diventa soggetto dei suoi dipinti è qualcosa di consueto e quotidiano
Comunicato stampa
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Paesaggi possibili
di Michele Tavola
La Brianza non esiste
Quando arrivavano i signori con le pertiche voleva dire una cosa sola: quel prato sarebbe stato irrimediabilmente tolto ai nostri giochi. Presto sarebbe sorta una villetta bifamiliare o un condominio con appartamenti ammobiliati, termoautonomi e doppi servizi. Non era un problema, noi saremmo emigrati a giocare in un altro prato. Uno dei tanti, uno degli infiniti prati che circondavano a perdita d’occhio il paese. Quand’ero piccolo mi sembrava di abitare un territorio ancora dominato dal verde; quand’ero piccolo non era tanto tempo fa, sto parlando dei primi anni Ottanta. La distruzione
sistematica del paesaggio brianzolo era già iniziata da tempo, ma negli ultimi vent’anni è continuata con meticolosa e scientifica barbarie. Chi, come Orsola Clerici, sceglie di dipingere paesaggi che non siano di maniera e non costituiscano un’operazione nostalgica, inventando praterie immacolate e scenari bucolici, si trova inevitabilmente a fare i conti con una geografia incoerente e spiazzante. Agli sgoccioli dell’Ottocento Emilio Longoni e Giovanni Segantini fuggivano da Milano per ritirarsi a Pusiano, alla ricerca di una natura selvaggia e primitiva. Si ritrovarono nell’Eden, tra prati e boschi, tra laghi e montagne, liberi di compiere le loro ricerche sulla luce e sulla scomposizione del colore. Quella Brianza, ormai, si trova solo nei libri di storia dell’arte ed è talmente lontana dalla nostra realtà che potrebbe essere stata altrove, ma non intorno alla statale che oggi collega i due capoluoghi del lago.
Orsola vive a Milano ma ha frequentato l’Accademia di Belle Arti a Como. Per quattro anni ha preso il Transbrianza Express, il treno regionale decelerato di sola seconda classe che parte dalla Stazione delle Ferrovie Nord di piazzale Cadorna alle sei e mezzo del mattino, quando il primo caffè stenta ancora a entrare in circolo. Tutte le mattine, nel tragitto che porta al cappuccino e brioche del bar della stazione di Como, dal finestrino scorrono sempre le stesse immagini: capannoni, fabbrichette, strade, parcheggi, ogni tanto un prato o un coriandolo di terra in attesa di lottizzazione prossima ventura. L’occhio di Orsola sceglie, seleziona le porzioni di campo visivo più vuote, quelle che spiccano per l’assenza dell’uomo e del suo intervento. Il paesaggio che viene registrato dalla sua memoria e che successivamente diventa soggetto dei suoi dipinti è qualcosa di consueto e quotidiano: senza fascino, senza elementi pittoreschi, senza bellezza. Le sue prime prove restituiscono paesaggi ancora riconoscibili ma ridotti all’essenziale, senza indugi in descrizioni naturalistiche: si tratta sempre di un panorama in fuga, un flash veloce che appare per un istante e subito scappa via, inafferrabile.
Sono scenari silenziosi, salvati da un cambiamento progressivo e ineluttabile, rubati alla corsa di un treno e sospesi in una dimensione senza tempo. Sono i frammenti di un territorio che ha perso la sua identità, frammenti che potrebbero essere collocati ovunque.
Poi il percorso creativo di Orsola si è evoluto e la distanza tra pittura e realtà è aumentata.
L’isola che non c’è
Gli anni di formazione sono caratterizzati dalle lezioni di Pierantonio Verga e Giuliano Collina: il primo è stato collaboratore di Lucio Fontana e propone un approccio minimalista all’arte, il secondo insegna a dipingere le cose che si vedono tutti i giorni e non si guardano mai. Le cose sono insignificanti per definizione, non meritano nemmeno un nome preciso che le descriva nel loro essere. E anche i primi paesaggi di Orsola Clerici fanno parte di questo universo di entità generiche sottratte dall’arte al comune disinteresse. Con tali soggetti è quasi consequenziale che la tecnica adottata sia volutamente povera e che si utilizzino tele grezze e colori preparati artigianalmente.
Il Paesaggio dal treno, eseguito nel 2000, è il quadro che apre la sequenza delle opere riprodotte nel catalogo e che rappresenta pienamente l’idea di pittura che Orsola persegue quando inizia a dipingere. Ma presto si stacca da questo tipo di figurazione, troppo contingente e troppo legata a un luogo fisico e identificabile. Quello che resta della campagna brianzola è indubbiamente la fonte di ispirazione, il punto di partenza, ma alla Clerici non interessa affatto raccontare la Brianza: nelle sue tele si vuole piuttosto rendere universali brandelli di paesaggio di per sè insignificanti, che potrebbero essere ovunque e forse non sono in nessun posto. Inizia una ricerca che porta l’artista a scarnificare le sue composizioni, a svuotarle progressivamente finchè non resta che l’essenziale, l’indispensabile. E’ un processo di sintesi che evolve verso l’astrazione, ma che non arriva mai all’opera astratta.
Il suo sguardo ora si concentra sull’orizzonte che è luce e le tele diventano una serie infinita di passaggi di bianco, senza che la sua tavolozza diventi puramente monocroma. Improvvisi tocchi di colore dividono la terra dal cielo e disegnano spazi appena percepibili.
Questo percorso si muove inevitabilmente dal paesaggio visto e conosciuto attraverso un’esperienza diretta, al paesaggio immaginato. Il paesaggio classicamente inteso non c’è più, perde la sua fisicità fino a diventare un’idea: dal 2002, accanto alle consuete iconografie, compaiono le carte geografiche. La mappa ha un suo fascino estetico, una sua bellezza intrinseca conferita dal labirinto di segni che hanno un valore grafico prima che un significato decodificabile; ma ha anche un valore concettuale: la mappa suggerisce l’esistenza di un luogo, è la proiezione mentale di uno spazio fisico. La cartina è uno spazio simbolico, che forse da qualche parte esiste, ma si può tenere in mano: è un foglio disegnato e dipinto, è la fuga dalla conoscenza fotografica di una località mai visitata. E’ immaginazione pura. Orsola ama soprattutto le carte nautiche fatte di vuoti, in cui ogni tanto compare un’isoletta che si manifesta come una presenza discreta, poco più grande di un punto. Un punto che poi, forse, avrà anche una sua fisicità fatta di colori e di odori, di spiagge e di vegetazione; ma visto così, sulla mappa, è solo la rappresentazione di un mistero.
Segni del caso
Fin qui si è parlato delle opere pittoriche di Orsola Clerici, ma un ruolo fondamentale nella sua produzione è ricoperto dalle incisioni su rame.
I temi trattati sono gli stessi, paesaggi e vedute topografiche. La tecnica calcografica, però, porta ad esiti estetici diversi. La delicatezza del pennello, che produce tocchi morbidi e delicati, viene sostituita dal segno: profondo, netto, marcato. Nella stampa il soggetto perde importanza, mentre diventa centrale la ricerca di forme pure; la composizione si fa più libera e arriva a sfiorare l’astrazione. La lastra di rame è il terreno della sperimentazione, da tutti i punti di vista: Orsola sovrappone alle tecniche tradizionali procedimenti nuovi e inconsueti. All’acquaforte, all’acquatinta e alla puntasecca si aggiungono interventi diretti sulla lastra con la carta vetrata, gli smalti, le paste e il carborundum, per citare solo alcune delle strane alchimie adottate dall’artista. Talvolta si ottengono effetti appena percepibili ed estremamente raffinati, in altri casi viene conferito al foglio uno spessore materico.
La pasta, ad esempio, è una sorta di stucco sabbioso che crea sulla lastra uno strato dove viene raccolta una grande quantità di inchiostro, che sul foglio si trasforma in un nero intenso e profondo. Questi interventi hanno qualcosa di magico e conferiscono un fascino particolare agli esperimenti di Orsola, ma mettono in seria difficoltà chi si trova nell’imbarazzante condizione di doverli descrivere. Nelle didascalie delle incisioni riprodotte nel catalogo, accanto alle consuete definizioni, si troverà spesso la formula tecniche diverse: un elegante sotterfugio, dietro al quale si nasconde l’inadeguatezza delle parole.
Non esiste un protocollo di lavoro, si procede per tentativi e ogni incisione ha una sua storia. La Clerici forza le procedure tecniche, non rispetta le regole, cerca di sbagliare pur di ottenere esiti sorprendenti e inaspettati, ma inevitabilmente incontra enormi problemi nella fase di stampa.
Di conseguenza la tiratura è quasi sempre molto bassa e raramente un foglio esce dal torchio identico al precedente: le sue incisioni sono quasi dei monotipi, esemplari unici come i dipinti. C’è una metodica ricerca della casualità: si vuole che il processo di creazione dell’opera in qualche modo sfugga al controllo dell’artista e che il caso aggiunga qualcosa al lavoro dell’incisore. Orsola sceglie lastre ossidate naturalmente, arrugginite, non vergini, perchè i segni del tempo e della consunzione della materia si trasferiscano sul foglio, aggiungendosi al suo lavoro in maniera imponderabile. Talvolta interviene anche sui fogli, lasciandoli per settimane a bagno nell’acqua finchè non ammuffiscono: perchè non siano troppo bianchi, perchè non siano troppo puliti.
Prima di concludere è necessario parlare di un’opera che Orsola ha realizzato appositamente per gli spazi espositivi di Villa Sirtori. Si tratta della Grande mappa, formata da sei incisioni di mezzo metro per lato ciascuna. Da un foglio all’altro si possono seguire le forme e le linee che continuano e costituiscono un unico disegno. I fogli autonomi e separati, però, accentuano la discontinuità dello spazio, lo frammentano, ed è compito dello spettatore ricostruirlo mentalmente: chi osserva l’opera deve ritrovare la strada come si fa con le diverse tavole di un atlante stradale. I segni, i percorsi immaginari da seguire sono pochi, essenziali:
è una grande opera colma di vuoti, fatta di nulla.
di Michele Tavola
La Brianza non esiste
Quando arrivavano i signori con le pertiche voleva dire una cosa sola: quel prato sarebbe stato irrimediabilmente tolto ai nostri giochi. Presto sarebbe sorta una villetta bifamiliare o un condominio con appartamenti ammobiliati, termoautonomi e doppi servizi. Non era un problema, noi saremmo emigrati a giocare in un altro prato. Uno dei tanti, uno degli infiniti prati che circondavano a perdita d’occhio il paese. Quand’ero piccolo mi sembrava di abitare un territorio ancora dominato dal verde; quand’ero piccolo non era tanto tempo fa, sto parlando dei primi anni Ottanta. La distruzione
sistematica del paesaggio brianzolo era già iniziata da tempo, ma negli ultimi vent’anni è continuata con meticolosa e scientifica barbarie. Chi, come Orsola Clerici, sceglie di dipingere paesaggi che non siano di maniera e non costituiscano un’operazione nostalgica, inventando praterie immacolate e scenari bucolici, si trova inevitabilmente a fare i conti con una geografia incoerente e spiazzante. Agli sgoccioli dell’Ottocento Emilio Longoni e Giovanni Segantini fuggivano da Milano per ritirarsi a Pusiano, alla ricerca di una natura selvaggia e primitiva. Si ritrovarono nell’Eden, tra prati e boschi, tra laghi e montagne, liberi di compiere le loro ricerche sulla luce e sulla scomposizione del colore. Quella Brianza, ormai, si trova solo nei libri di storia dell’arte ed è talmente lontana dalla nostra realtà che potrebbe essere stata altrove, ma non intorno alla statale che oggi collega i due capoluoghi del lago.
Orsola vive a Milano ma ha frequentato l’Accademia di Belle Arti a Como. Per quattro anni ha preso il Transbrianza Express, il treno regionale decelerato di sola seconda classe che parte dalla Stazione delle Ferrovie Nord di piazzale Cadorna alle sei e mezzo del mattino, quando il primo caffè stenta ancora a entrare in circolo. Tutte le mattine, nel tragitto che porta al cappuccino e brioche del bar della stazione di Como, dal finestrino scorrono sempre le stesse immagini: capannoni, fabbrichette, strade, parcheggi, ogni tanto un prato o un coriandolo di terra in attesa di lottizzazione prossima ventura. L’occhio di Orsola sceglie, seleziona le porzioni di campo visivo più vuote, quelle che spiccano per l’assenza dell’uomo e del suo intervento. Il paesaggio che viene registrato dalla sua memoria e che successivamente diventa soggetto dei suoi dipinti è qualcosa di consueto e quotidiano: senza fascino, senza elementi pittoreschi, senza bellezza. Le sue prime prove restituiscono paesaggi ancora riconoscibili ma ridotti all’essenziale, senza indugi in descrizioni naturalistiche: si tratta sempre di un panorama in fuga, un flash veloce che appare per un istante e subito scappa via, inafferrabile.
Sono scenari silenziosi, salvati da un cambiamento progressivo e ineluttabile, rubati alla corsa di un treno e sospesi in una dimensione senza tempo. Sono i frammenti di un territorio che ha perso la sua identità, frammenti che potrebbero essere collocati ovunque.
Poi il percorso creativo di Orsola si è evoluto e la distanza tra pittura e realtà è aumentata.
L’isola che non c’è
Gli anni di formazione sono caratterizzati dalle lezioni di Pierantonio Verga e Giuliano Collina: il primo è stato collaboratore di Lucio Fontana e propone un approccio minimalista all’arte, il secondo insegna a dipingere le cose che si vedono tutti i giorni e non si guardano mai. Le cose sono insignificanti per definizione, non meritano nemmeno un nome preciso che le descriva nel loro essere. E anche i primi paesaggi di Orsola Clerici fanno parte di questo universo di entità generiche sottratte dall’arte al comune disinteresse. Con tali soggetti è quasi consequenziale che la tecnica adottata sia volutamente povera e che si utilizzino tele grezze e colori preparati artigianalmente.
Il Paesaggio dal treno, eseguito nel 2000, è il quadro che apre la sequenza delle opere riprodotte nel catalogo e che rappresenta pienamente l’idea di pittura che Orsola persegue quando inizia a dipingere. Ma presto si stacca da questo tipo di figurazione, troppo contingente e troppo legata a un luogo fisico e identificabile. Quello che resta della campagna brianzola è indubbiamente la fonte di ispirazione, il punto di partenza, ma alla Clerici non interessa affatto raccontare la Brianza: nelle sue tele si vuole piuttosto rendere universali brandelli di paesaggio di per sè insignificanti, che potrebbero essere ovunque e forse non sono in nessun posto. Inizia una ricerca che porta l’artista a scarnificare le sue composizioni, a svuotarle progressivamente finchè non resta che l’essenziale, l’indispensabile. E’ un processo di sintesi che evolve verso l’astrazione, ma che non arriva mai all’opera astratta.
Il suo sguardo ora si concentra sull’orizzonte che è luce e le tele diventano una serie infinita di passaggi di bianco, senza che la sua tavolozza diventi puramente monocroma. Improvvisi tocchi di colore dividono la terra dal cielo e disegnano spazi appena percepibili.
Questo percorso si muove inevitabilmente dal paesaggio visto e conosciuto attraverso un’esperienza diretta, al paesaggio immaginato. Il paesaggio classicamente inteso non c’è più, perde la sua fisicità fino a diventare un’idea: dal 2002, accanto alle consuete iconografie, compaiono le carte geografiche. La mappa ha un suo fascino estetico, una sua bellezza intrinseca conferita dal labirinto di segni che hanno un valore grafico prima che un significato decodificabile; ma ha anche un valore concettuale: la mappa suggerisce l’esistenza di un luogo, è la proiezione mentale di uno spazio fisico. La cartina è uno spazio simbolico, che forse da qualche parte esiste, ma si può tenere in mano: è un foglio disegnato e dipinto, è la fuga dalla conoscenza fotografica di una località mai visitata. E’ immaginazione pura. Orsola ama soprattutto le carte nautiche fatte di vuoti, in cui ogni tanto compare un’isoletta che si manifesta come una presenza discreta, poco più grande di un punto. Un punto che poi, forse, avrà anche una sua fisicità fatta di colori e di odori, di spiagge e di vegetazione; ma visto così, sulla mappa, è solo la rappresentazione di un mistero.
Segni del caso
Fin qui si è parlato delle opere pittoriche di Orsola Clerici, ma un ruolo fondamentale nella sua produzione è ricoperto dalle incisioni su rame.
I temi trattati sono gli stessi, paesaggi e vedute topografiche. La tecnica calcografica, però, porta ad esiti estetici diversi. La delicatezza del pennello, che produce tocchi morbidi e delicati, viene sostituita dal segno: profondo, netto, marcato. Nella stampa il soggetto perde importanza, mentre diventa centrale la ricerca di forme pure; la composizione si fa più libera e arriva a sfiorare l’astrazione. La lastra di rame è il terreno della sperimentazione, da tutti i punti di vista: Orsola sovrappone alle tecniche tradizionali procedimenti nuovi e inconsueti. All’acquaforte, all’acquatinta e alla puntasecca si aggiungono interventi diretti sulla lastra con la carta vetrata, gli smalti, le paste e il carborundum, per citare solo alcune delle strane alchimie adottate dall’artista. Talvolta si ottengono effetti appena percepibili ed estremamente raffinati, in altri casi viene conferito al foglio uno spessore materico.
La pasta, ad esempio, è una sorta di stucco sabbioso che crea sulla lastra uno strato dove viene raccolta una grande quantità di inchiostro, che sul foglio si trasforma in un nero intenso e profondo. Questi interventi hanno qualcosa di magico e conferiscono un fascino particolare agli esperimenti di Orsola, ma mettono in seria difficoltà chi si trova nell’imbarazzante condizione di doverli descrivere. Nelle didascalie delle incisioni riprodotte nel catalogo, accanto alle consuete definizioni, si troverà spesso la formula tecniche diverse: un elegante sotterfugio, dietro al quale si nasconde l’inadeguatezza delle parole.
Non esiste un protocollo di lavoro, si procede per tentativi e ogni incisione ha una sua storia. La Clerici forza le procedure tecniche, non rispetta le regole, cerca di sbagliare pur di ottenere esiti sorprendenti e inaspettati, ma inevitabilmente incontra enormi problemi nella fase di stampa.
Di conseguenza la tiratura è quasi sempre molto bassa e raramente un foglio esce dal torchio identico al precedente: le sue incisioni sono quasi dei monotipi, esemplari unici come i dipinti. C’è una metodica ricerca della casualità: si vuole che il processo di creazione dell’opera in qualche modo sfugga al controllo dell’artista e che il caso aggiunga qualcosa al lavoro dell’incisore. Orsola sceglie lastre ossidate naturalmente, arrugginite, non vergini, perchè i segni del tempo e della consunzione della materia si trasferiscano sul foglio, aggiungendosi al suo lavoro in maniera imponderabile. Talvolta interviene anche sui fogli, lasciandoli per settimane a bagno nell’acqua finchè non ammuffiscono: perchè non siano troppo bianchi, perchè non siano troppo puliti.
Prima di concludere è necessario parlare di un’opera che Orsola ha realizzato appositamente per gli spazi espositivi di Villa Sirtori. Si tratta della Grande mappa, formata da sei incisioni di mezzo metro per lato ciascuna. Da un foglio all’altro si possono seguire le forme e le linee che continuano e costituiscono un unico disegno. I fogli autonomi e separati, però, accentuano la discontinuità dello spazio, lo frammentano, ed è compito dello spettatore ricostruirlo mentalmente: chi osserva l’opera deve ritrovare la strada come si fa con le diverse tavole di un atlante stradale. I segni, i percorsi immaginari da seguire sono pochi, essenziali:
è una grande opera colma di vuoti, fatta di nulla.
16
ottobre 2004
Prospettive – Orsola Clerici
Dal 16 al 24 ottobre 2004
arte contemporanea
Location
VILLA SIRTORI
Olginate, Piazza Marchesi D'adda, (Lecco)
Olginate, Piazza Marchesi D'adda, (Lecco)
Orario di apertura
tutti i giorni dalle 10 alle 12 e dalle 14 alle 18
Vernissage
16 Ottobre 2004, ore 17
Autore
Curatore