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Punto e a capo: nuova contemporaneità italiana
collettiva
Comunicato stampa
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Punto e a capo : nuova contemporaneità italiana
Negli anni ’80 si entra in quella che molti definiscono, non di rado con confusione terminologica, stagione postmoderna, etichetta che va usata come parziale sinonimo di contemporaneità, a meglio indicarne una condizione di non del tutto compiuto dispiegamento.Molti segnali fanno intendere come anche questo interregno volga al termine, e sono una globalizzazione economica e culturale ansiosa di essere governata con spirito giusto ed equanime, come richiedono ampi movimenti di opposizione, la cultura occidentale messa alle corde dai flussi migratori e dal terrorismo islamico, con il crollo delle Torri Gemelle ad indicarci che il mondo virtuale in cui ci siamo più o meno pigramente cullati per un ventennio abbondante si è alla fine manifestato con una oggettività concreta e devastante, la crisi definitiva degli ultimi nuclei di capitalismo tradizionale, ancora non piegatisi alla necessità di collocarsi in un ambito sopranazionale di scambi ed accorpamenti governati dalle leggi della finanza internazionale. Tuttavia, pur in presenza di una sensazione diffusa di sconcerto ed incertezza, si avverte il senso di una stagione che si libera da una sia pur compiacente stagnazione per approdare ad un orizzonte, in un modo o nell’altro, rinnovato, ad una nuova epoca. Naturalmente l’arte, e non poteva essere diversamente, ha seguito in parallelo questi mutamenti, ora assecondandoli, ora precedendoli. A partire dalla seconda metà degli anni’70 e per tutti gli anni’80, ha inizio quella fase di esaurimento dell’incedere progressivo del linguaggio delle avanguardie con l’avvento di un nuovo e diffuso clima, caratterizzato inizialmente dal ritorno della manualità pittorica ed in seguito da un eclettismo stilistico dove la citazione delle principali esperienze formali del Novecento si è abbinato al tentativo di stabilire un dialogo con una realtà caratterizzata da una presenza sempre più invasiva delle nuove tecnologie e degli strumenti di comunicazione. Gli anni’90 hanno sostanzialmente proseguito in questa direzione, con una marcata presenza della fotografia e del video ed un graduale infittirsi delle presenze operanti a vario titolo nella scena artistica. Nell’ambito di un panorama sempre più uniforme e globalizzato, la connotazione negativa dell’arte italiana dell’ultimo decennio è stata la conformistica adesione a moduli compositivi estranei alla nostra tradizione. Particolarmente riguardo la vasta area del cosiddetto “neoconcettuale”, dove è stato privilegiato quello che ha stancamente ricalcato i canoni espressivi degli anni ’60 e ’70 proponendo un appiattimento totale sulla realtà, spesso limitato alla dimensione del proprio microcosmo individuale, ed invece hanno spesso faticato ad imporsi quelle opere in grado di esprimere autenticamente lo spirito del tempo, in bilico tra realtà ed allegoria, e dotate di una carica di corrosiva e disinibita ironia, peculiarità del “genius loci” italiano. Un clima di questo genere favorisce indubbiamente la riflessione sulle esperienze del recente passato, e sulla loro frequente condizione di attualità, permettendo una positiva rilettura di importanti esperienze individuali e collettive, che si riversano ed arricchiscono uno scenario in cerca d’autore. Non a caso, infatti, la generazione emersa tra la seconda metà degli anni ’80 ed i primi anni ’90, ignominiosamente “saltata” dal computo epocale cui l’arte non può sottrarsi, essendo un fiume scorrente a valle con flusso regolare, che prevede anse e mulinelli ma non ammette straripamenti, per motivi a metà tra il cinico interesse di settori del mercato e del potere critico ed una condizione, all’epoca, di oggettivo svantaggio logistico, pressati da un’Arte Povera in fase di ascesa e recupero ed una Transavanguardia non certo disposta a perdere la posizione da poco acquisita, sta adesso conoscendo una lenta ma graduale e regolare rivalutazione. In più, così come si verificarono, negli scorsi anni, interessanti analogie tra quel nucleo artistico e numerosi esponenti di una “generazione di mezzo”, composta di autori nati tra il ’40 ed il ’50 il cui stile si rivelò estraneo sia al Concettuale che alla pittura neoespressionista, per via di un’attenzione precisa nei confronti dell’oggetto e della tecnologia attualmente, su base molto più evidente ed allargata, analogo fenomeno si manifesta, stilisticamente parlando, con molti autori della generazione più giovane. Nella primavera 2004, in occasione di una collettiva curata presso la galleria veronese “La Giarina” ho usato per la prima volta la sigla di “ I Neo Contemporanei” per indicare quello che mi sembra, in maniera sempre più evidente con lo scorrere dei primi anni di questo nuovo millennio, e la metà di questo primo decennio è idonea per una attendibile disamina degli eventi, un fenomeno di mutazione formale che va in direzione di una nuova consapevolezza estetica. Alcuni segnali li avevo già colti nel 2002 quando a Parma ordinai la rassegna “Una Babele postmoderna”, dove cercai, nell’ambito di quelle ampie ricognizioni generazionali che, insieme ad altre iniziative, hanno periodicamente caratterizzato la mia carriera di critico, di estrapolare, dall’informe massa artistica della seconda metà degli anni ’90, quelle che mi parevano le opere più sincere e motivate. Ebbi quindi a denunciare, forse non del tutto senza ragione a vedere i confortanti giudizi espressi da buona parte degli osservatori esterni, come si fosse in presenza di un duplice atteggiamento, opportunamente dotato di numerosi punti di tangenza e collegamento. I confini artistici di quella fase erano, a mio parere, delimitati da due precisi stati d’animo in bilico tra realtà ed allegoria, tra un’arte che aderisce il più possibile al reale adottando le “protesi” tecnologiche di cui l’uomo si è provvisto o, all’opposto, cerca di dialogare con la contemporaneità con un distacco vissuto come rifugio nella magia del simbolo, con frequenti casi in cui queste tendenze convivono all’interno della medesima opera. Ora mi pare che queste due ipotesi sempre più tendano a convergere verso una soluzione unitaria, per quanto non omologata a canoni seriali, sempre dotata di confortanti scarti linguistici derivanti dall’ispirazione e dalla cultura del singolo autore, con una conciliazione estetica tra particolare ed universale. La babele di linguaggi è tuttora vigente, ed ormai dovremo abituarci a convivere con una massa imponente di immagini, ma la sua decifrazione e relativo ordinamento, compito preciso della critica, non appare più impresa così ardua. Un nuovo stato d’animo all’interno della contemporaneità, questo il senso di un termine come “neocontemporaneo”. Ho inteso adoperarlo per correttezza culturologica. Lo spunto iniziale mi è stato fornito dai contenuti di una rassegna interessante, non fosse altro perché si poneva l’obiettivo di esporre una tesi, un’ipotesi critica, cosa di questi tempi sempre più rara e vista addirittura con sospetto, allestita nel 2003 dalla curatrice attuale del Castello di Rivoli Carolyn Bakargiev, con il titolo de “I Moderni”. In mostra erano presentati una serie di artisti internazionali che denunciavano, secondo la tesi della curatrice, con il tramite di installazioni, pitture, fotografie e video, la volontà di reagire al disincanto ed allo scetticismo del post moderno con un atteggiamento di rinnovato slancio utopico verso il futuro, tramite un uso consapevole e costruttivo delle nuove tecnologie e di un repertorio oggettuale talvolta volutamente sconfinante nel territorio del design, come a voler recuperare, in un’ansia di rinnovamento, lo spirito tipico delle avanguardie. Al di là delle considerazioni di merito sugli artisti di cui ogni critico legittimamente si avvale per corroborare le proprie tesi, si tratta di un’ipotesi di lavoro interessante che, per alcuni aspetti, ricalca quanto io da anni vado sostenendo. Tuttavia penso, se si vuole effettivamente verificare la concretezza di un reale mutamento di rotta ed evitare di avvallare una delle molti varianti linguistiche caratterizzate dalla citazione, fenomeno ricorrente dalla seconda metà degli anni ’70, tutte ascrivibili alla composita ed eclettica area della post modernità, che sia opportuno volgere lo sguardo verso una nuova definizione del termine “contemporaneo”. Da un punto di vista culturologico la modernità è quell’ampio lasso storico, il cui itinerario scorre dalla metà del 1400 alla successiva metà dell’800 caratterizzato, al suo esordio, da due importanti invenzioni, una riferita all’ambito della cultura ideale, l’altra a quella materiale, cioè la codificazione teorica della prospettiva come sistema di inquadramento spaziale e la stampa a caratteri mobili. L’esordio della contemporaneità, destinata come fine ultimo alla fuoriuscita dell’arte dal suo tradizionale involucro bidimensionale, lo si colloca nella seconda metà dell’800, con le prime applicazioni pratiche dell’elettromagnetismo, quella nuova, immateriale fonte energetica destinata a rivoluzionare nel profondo il sistema della comunicazione e l’assetto sociale ed economico dell’Occidente, con l’approdo che noi ora stiamo vivendo nella fase del suo massimo esplicarsi. Lungo il crinale novecentesco, con precise anche se non deterministiche rispondenze nell’ambito correlato della cultura”alta”, in particolare nelle arti visive, le tecnologie immateriali hanno convissuto con la fase di ascesa e di repentino declino della modernità figlia della Rivoluzione Industriale, della fabbrica, della catena di montaggio. Questo fino ad un certo punto. Dopo la data emblematica del 1968, non a caso corrispondente ai moti sociali e giovanili di piazza che caratterizzarono l’intero Occidente ed alla smaterializzazione dell’arte con le varie correnti concettuali che, peraltro, ricercavano momenti di collegamento con la ribellione politica e di costume del periodo, inizia l’accelerato ingresso in una nuova dimensione produttiva e relazionale caratterizzata dall’invasività tecnologica. Ciò ha causato il graduale ma inevitabile tramonto dell’industria tradizionalmente intesa, la perdita delle antiche certezze occupazionali, l’introduzione del concetto di “flessibilità” con il quale dovranno confrontarsi soprattutto le più giovani generazioni, dai trent’anni in giù, ma anche un minor livello di alienazione produttiva, che significa maggior spazio alla fantasia ed alla creatività, e l’ espansione del tempo libero a disposizione di ognuno, da cui deriva la possibilità di dare spazio ai propri interessi culturali. Tutto ciò è stato vissuto nei trent’anni successivi, analizzando sociologicamente gli stati d’animo diffusi, con un misto di angoscioso sconcerto e febbrile euforia. Da un lato quindi un senso di smarrimento per la perdita dei tradizionali punti di riferimento, dopo il crollo del Muro di Berlino anche ideologici, dall’altro una sorta di eccitazione per il mondo luccicante della tecnologia, per la realtà virtuale, per quel predominio ormai definitivo dell’immagine sul “logos” che ha confermato la lungimiranza inascoltata di Guy Debord nel predicare, in tempi ancora non sospetti, l’avvento della “società dello spettacolo”. Tutto ciò non ha mancato di generare effetti nel mondo dell’arte. Come in tutte le stagioni di passaggio, naturalmente con modalità mai eguali a sé stesse, l’effetto corrispondente a queste profonde, traumatiche mutazioni del tessuto sociale, è stata, su di un piano generale accentuato in Italia da problemi relativi al nostro sistema dell’arte su cui nella circostanza non mi soffermo, l’ ho fatto in varie altre occasioni, per l’appunto questa babele di stili e tendenze in cui è stato arduo, ed in parte impossibile, ritrovare un filo conduttore, specie negli anni ’90, dove il tutto si è manifestato all’ennesima potenza. La post modernità, intesa non nella sua accezione etimologica ma in quella propria del linguaggio d’uso comune dove assume la funzione vagamente spregiativa di atteggiamento tendenzialmente effimero è anch’essa approdata alla sue estreme conseguenze e quindi, a questo punto, deve inevitabilmente manifestarsi qualcosa di nuovo. Quindi potrebbe essere opportuno iniziare a discutere di una possibile “nuova contemporaneità” Naturalmente siamo agli inizi di questa ennesima mutazione delle pelle dell’arte ed anche i punti di vista sono spesso diversi, talora antitetici e ricordano l’antica dicotomia di Umberto Eco, agli inizi degli anni ’60, tra “apocalittici” ed “integrati”. Riprendendo quanto scritto un po’ di tempo fa in un testo critico prodotto per una rassegna centrata sulla “crisi della presenza”, vi è la visione in negativo del filosofo dell’arte francese Jean Baudrillard, la cui recente
teoria indica il ruolo dell’arte come interamente assorbito dalla visualità della pubblicità e dei media mentre diverse posizioni, tra vari distinguo, rinvengono, ad esempio, una insolita alleanza tra i miti arcaici e le simbologie religiose della premodernità con la realtà futuribile delle nuove tecnologie e sostengono come ci si stia incamminando verso la costruzione di una nuova estetica, dove il confine tra arte e vita è ormai sempre più ravvicinato, pur continuando a non coincidere, a mantenere un fondamentale per quanto minimo scarto. Il confronto con l’oggetto, con le nuove tecnologie ed il rinnovamento dell’iconografia, il desiderio di analizzare i complessi meccanismi sociali denunciandone i limiti, quanto emerso, cioè, nell’ultimo ventennio, non fa a meno della citazione perché in arte questo è culturalmente impossibile quanto meno a partire dalla tarda antichità, dalla stagione ellenistica. Ma essa non è più il riferimento centrale della composizione. Attualmente vari artisti, e quanto conforta è che molti di loro appartengono alla più giovane generazione, alla quale si uniscono in una insolita alleanza diversi dei migliori talenti apparsi negli anni precedenti, adoperano con sicurezza e maturità le opzioni stilistiche prima citate, con una risultante linguistica dove lo spiazzamento ironico spesso si abbina e talvolta dialoga con una vena di simbolicità quasi mistica, dove le tecnologie si fanno docili strumenti nelle mani dell’artista. Il mio intento è quello di proseguire in questo ambito di ricerca e di analisi e prova ne è la recente collettiva “La contemporaneità italiana : nuova pittura in Italia”, dove ho affrontato una disamina della situazione in corso relativamente alla pittura, una delle componenti fondamentali dell’eclettismo artistico contemporaneo. Su invito di Franz Paludetto ho elaborato per il Castello di Rivara quella che posso definire una importante tappa intermedia del mio attuale cammino progettuale relativamente alle collettive di più ampio respiro, stimolato anche dalla possibilità di allestire l’evento in un contenitore espositivo di grande fascino e prestigio nel territorio piemontese , un Centro per l’arte contemporanea di assoluto livello internazionale che va conoscendo una fase di potenziamento ed ulteriore consolidamento delle attività. Con “Punto e a capo : nuova contemporaneità italiana” opero una selezione di proposte il cui raggio geografico si estende dal nord Italia fino a Roma, accomunate dall’elemento comune di rappresentare una sostanziale novità e di non godere ancora di una visibilità consolidata, unendo quindi una verifica dell’evoluzione della fenomenologia artistica all’ennesima scommessa per il presente e l’immediato futuro. Infatti la rassegna unisce di pari artisti anagraficamente giovani e semi esordienti ad altri che già si sono fatti conoscere ed apprezzare in più di una occasione e possono quindi definirsi emergenti, ad altri ancora dalla più lunga carriera e dalla data di nascita relativamente avanzata ma che adesso, in questo “qui ed ora”, stanno trovando l’istante in cui il loro stile ed il clima del tempo procedono in armonia e simbiosi. In mostra si potranno ammirare le tendenze principali di questo periodo, nessuna esclusa, dalla pittura al video, dall’installazione alla fotografia alle immagini digitali.
A cura di Edoardo Di Mauro
Negli anni ’80 si entra in quella che molti definiscono, non di rado con confusione terminologica, stagione postmoderna, etichetta che va usata come parziale sinonimo di contemporaneità, a meglio indicarne una condizione di non del tutto compiuto dispiegamento.Molti segnali fanno intendere come anche questo interregno volga al termine, e sono una globalizzazione economica e culturale ansiosa di essere governata con spirito giusto ed equanime, come richiedono ampi movimenti di opposizione, la cultura occidentale messa alle corde dai flussi migratori e dal terrorismo islamico, con il crollo delle Torri Gemelle ad indicarci che il mondo virtuale in cui ci siamo più o meno pigramente cullati per un ventennio abbondante si è alla fine manifestato con una oggettività concreta e devastante, la crisi definitiva degli ultimi nuclei di capitalismo tradizionale, ancora non piegatisi alla necessità di collocarsi in un ambito sopranazionale di scambi ed accorpamenti governati dalle leggi della finanza internazionale. Tuttavia, pur in presenza di una sensazione diffusa di sconcerto ed incertezza, si avverte il senso di una stagione che si libera da una sia pur compiacente stagnazione per approdare ad un orizzonte, in un modo o nell’altro, rinnovato, ad una nuova epoca. Naturalmente l’arte, e non poteva essere diversamente, ha seguito in parallelo questi mutamenti, ora assecondandoli, ora precedendoli. A partire dalla seconda metà degli anni’70 e per tutti gli anni’80, ha inizio quella fase di esaurimento dell’incedere progressivo del linguaggio delle avanguardie con l’avvento di un nuovo e diffuso clima, caratterizzato inizialmente dal ritorno della manualità pittorica ed in seguito da un eclettismo stilistico dove la citazione delle principali esperienze formali del Novecento si è abbinato al tentativo di stabilire un dialogo con una realtà caratterizzata da una presenza sempre più invasiva delle nuove tecnologie e degli strumenti di comunicazione. Gli anni’90 hanno sostanzialmente proseguito in questa direzione, con una marcata presenza della fotografia e del video ed un graduale infittirsi delle presenze operanti a vario titolo nella scena artistica. Nell’ambito di un panorama sempre più uniforme e globalizzato, la connotazione negativa dell’arte italiana dell’ultimo decennio è stata la conformistica adesione a moduli compositivi estranei alla nostra tradizione. Particolarmente riguardo la vasta area del cosiddetto “neoconcettuale”, dove è stato privilegiato quello che ha stancamente ricalcato i canoni espressivi degli anni ’60 e ’70 proponendo un appiattimento totale sulla realtà, spesso limitato alla dimensione del proprio microcosmo individuale, ed invece hanno spesso faticato ad imporsi quelle opere in grado di esprimere autenticamente lo spirito del tempo, in bilico tra realtà ed allegoria, e dotate di una carica di corrosiva e disinibita ironia, peculiarità del “genius loci” italiano. Un clima di questo genere favorisce indubbiamente la riflessione sulle esperienze del recente passato, e sulla loro frequente condizione di attualità, permettendo una positiva rilettura di importanti esperienze individuali e collettive, che si riversano ed arricchiscono uno scenario in cerca d’autore. Non a caso, infatti, la generazione emersa tra la seconda metà degli anni ’80 ed i primi anni ’90, ignominiosamente “saltata” dal computo epocale cui l’arte non può sottrarsi, essendo un fiume scorrente a valle con flusso regolare, che prevede anse e mulinelli ma non ammette straripamenti, per motivi a metà tra il cinico interesse di settori del mercato e del potere critico ed una condizione, all’epoca, di oggettivo svantaggio logistico, pressati da un’Arte Povera in fase di ascesa e recupero ed una Transavanguardia non certo disposta a perdere la posizione da poco acquisita, sta adesso conoscendo una lenta ma graduale e regolare rivalutazione. In più, così come si verificarono, negli scorsi anni, interessanti analogie tra quel nucleo artistico e numerosi esponenti di una “generazione di mezzo”, composta di autori nati tra il ’40 ed il ’50 il cui stile si rivelò estraneo sia al Concettuale che alla pittura neoespressionista, per via di un’attenzione precisa nei confronti dell’oggetto e della tecnologia attualmente, su base molto più evidente ed allargata, analogo fenomeno si manifesta, stilisticamente parlando, con molti autori della generazione più giovane. Nella primavera 2004, in occasione di una collettiva curata presso la galleria veronese “La Giarina” ho usato per la prima volta la sigla di “ I Neo Contemporanei” per indicare quello che mi sembra, in maniera sempre più evidente con lo scorrere dei primi anni di questo nuovo millennio, e la metà di questo primo decennio è idonea per una attendibile disamina degli eventi, un fenomeno di mutazione formale che va in direzione di una nuova consapevolezza estetica. Alcuni segnali li avevo già colti nel 2002 quando a Parma ordinai la rassegna “Una Babele postmoderna”, dove cercai, nell’ambito di quelle ampie ricognizioni generazionali che, insieme ad altre iniziative, hanno periodicamente caratterizzato la mia carriera di critico, di estrapolare, dall’informe massa artistica della seconda metà degli anni ’90, quelle che mi parevano le opere più sincere e motivate. Ebbi quindi a denunciare, forse non del tutto senza ragione a vedere i confortanti giudizi espressi da buona parte degli osservatori esterni, come si fosse in presenza di un duplice atteggiamento, opportunamente dotato di numerosi punti di tangenza e collegamento. I confini artistici di quella fase erano, a mio parere, delimitati da due precisi stati d’animo in bilico tra realtà ed allegoria, tra un’arte che aderisce il più possibile al reale adottando le “protesi” tecnologiche di cui l’uomo si è provvisto o, all’opposto, cerca di dialogare con la contemporaneità con un distacco vissuto come rifugio nella magia del simbolo, con frequenti casi in cui queste tendenze convivono all’interno della medesima opera. Ora mi pare che queste due ipotesi sempre più tendano a convergere verso una soluzione unitaria, per quanto non omologata a canoni seriali, sempre dotata di confortanti scarti linguistici derivanti dall’ispirazione e dalla cultura del singolo autore, con una conciliazione estetica tra particolare ed universale. La babele di linguaggi è tuttora vigente, ed ormai dovremo abituarci a convivere con una massa imponente di immagini, ma la sua decifrazione e relativo ordinamento, compito preciso della critica, non appare più impresa così ardua. Un nuovo stato d’animo all’interno della contemporaneità, questo il senso di un termine come “neocontemporaneo”. Ho inteso adoperarlo per correttezza culturologica. Lo spunto iniziale mi è stato fornito dai contenuti di una rassegna interessante, non fosse altro perché si poneva l’obiettivo di esporre una tesi, un’ipotesi critica, cosa di questi tempi sempre più rara e vista addirittura con sospetto, allestita nel 2003 dalla curatrice attuale del Castello di Rivoli Carolyn Bakargiev, con il titolo de “I Moderni”. In mostra erano presentati una serie di artisti internazionali che denunciavano, secondo la tesi della curatrice, con il tramite di installazioni, pitture, fotografie e video, la volontà di reagire al disincanto ed allo scetticismo del post moderno con un atteggiamento di rinnovato slancio utopico verso il futuro, tramite un uso consapevole e costruttivo delle nuove tecnologie e di un repertorio oggettuale talvolta volutamente sconfinante nel territorio del design, come a voler recuperare, in un’ansia di rinnovamento, lo spirito tipico delle avanguardie. Al di là delle considerazioni di merito sugli artisti di cui ogni critico legittimamente si avvale per corroborare le proprie tesi, si tratta di un’ipotesi di lavoro interessante che, per alcuni aspetti, ricalca quanto io da anni vado sostenendo. Tuttavia penso, se si vuole effettivamente verificare la concretezza di un reale mutamento di rotta ed evitare di avvallare una delle molti varianti linguistiche caratterizzate dalla citazione, fenomeno ricorrente dalla seconda metà degli anni ’70, tutte ascrivibili alla composita ed eclettica area della post modernità, che sia opportuno volgere lo sguardo verso una nuova definizione del termine “contemporaneo”. Da un punto di vista culturologico la modernità è quell’ampio lasso storico, il cui itinerario scorre dalla metà del 1400 alla successiva metà dell’800 caratterizzato, al suo esordio, da due importanti invenzioni, una riferita all’ambito della cultura ideale, l’altra a quella materiale, cioè la codificazione teorica della prospettiva come sistema di inquadramento spaziale e la stampa a caratteri mobili. L’esordio della contemporaneità, destinata come fine ultimo alla fuoriuscita dell’arte dal suo tradizionale involucro bidimensionale, lo si colloca nella seconda metà dell’800, con le prime applicazioni pratiche dell’elettromagnetismo, quella nuova, immateriale fonte energetica destinata a rivoluzionare nel profondo il sistema della comunicazione e l’assetto sociale ed economico dell’Occidente, con l’approdo che noi ora stiamo vivendo nella fase del suo massimo esplicarsi. Lungo il crinale novecentesco, con precise anche se non deterministiche rispondenze nell’ambito correlato della cultura”alta”, in particolare nelle arti visive, le tecnologie immateriali hanno convissuto con la fase di ascesa e di repentino declino della modernità figlia della Rivoluzione Industriale, della fabbrica, della catena di montaggio. Questo fino ad un certo punto. Dopo la data emblematica del 1968, non a caso corrispondente ai moti sociali e giovanili di piazza che caratterizzarono l’intero Occidente ed alla smaterializzazione dell’arte con le varie correnti concettuali che, peraltro, ricercavano momenti di collegamento con la ribellione politica e di costume del periodo, inizia l’accelerato ingresso in una nuova dimensione produttiva e relazionale caratterizzata dall’invasività tecnologica. Ciò ha causato il graduale ma inevitabile tramonto dell’industria tradizionalmente intesa, la perdita delle antiche certezze occupazionali, l’introduzione del concetto di “flessibilità” con il quale dovranno confrontarsi soprattutto le più giovani generazioni, dai trent’anni in giù, ma anche un minor livello di alienazione produttiva, che significa maggior spazio alla fantasia ed alla creatività, e l’ espansione del tempo libero a disposizione di ognuno, da cui deriva la possibilità di dare spazio ai propri interessi culturali. Tutto ciò è stato vissuto nei trent’anni successivi, analizzando sociologicamente gli stati d’animo diffusi, con un misto di angoscioso sconcerto e febbrile euforia. Da un lato quindi un senso di smarrimento per la perdita dei tradizionali punti di riferimento, dopo il crollo del Muro di Berlino anche ideologici, dall’altro una sorta di eccitazione per il mondo luccicante della tecnologia, per la realtà virtuale, per quel predominio ormai definitivo dell’immagine sul “logos” che ha confermato la lungimiranza inascoltata di Guy Debord nel predicare, in tempi ancora non sospetti, l’avvento della “società dello spettacolo”. Tutto ciò non ha mancato di generare effetti nel mondo dell’arte. Come in tutte le stagioni di passaggio, naturalmente con modalità mai eguali a sé stesse, l’effetto corrispondente a queste profonde, traumatiche mutazioni del tessuto sociale, è stata, su di un piano generale accentuato in Italia da problemi relativi al nostro sistema dell’arte su cui nella circostanza non mi soffermo, l’ ho fatto in varie altre occasioni, per l’appunto questa babele di stili e tendenze in cui è stato arduo, ed in parte impossibile, ritrovare un filo conduttore, specie negli anni ’90, dove il tutto si è manifestato all’ennesima potenza. La post modernità, intesa non nella sua accezione etimologica ma in quella propria del linguaggio d’uso comune dove assume la funzione vagamente spregiativa di atteggiamento tendenzialmente effimero è anch’essa approdata alla sue estreme conseguenze e quindi, a questo punto, deve inevitabilmente manifestarsi qualcosa di nuovo. Quindi potrebbe essere opportuno iniziare a discutere di una possibile “nuova contemporaneità” Naturalmente siamo agli inizi di questa ennesima mutazione delle pelle dell’arte ed anche i punti di vista sono spesso diversi, talora antitetici e ricordano l’antica dicotomia di Umberto Eco, agli inizi degli anni ’60, tra “apocalittici” ed “integrati”. Riprendendo quanto scritto un po’ di tempo fa in un testo critico prodotto per una rassegna centrata sulla “crisi della presenza”, vi è la visione in negativo del filosofo dell’arte francese Jean Baudrillard, la cui recente
teoria indica il ruolo dell’arte come interamente assorbito dalla visualità della pubblicità e dei media mentre diverse posizioni, tra vari distinguo, rinvengono, ad esempio, una insolita alleanza tra i miti arcaici e le simbologie religiose della premodernità con la realtà futuribile delle nuove tecnologie e sostengono come ci si stia incamminando verso la costruzione di una nuova estetica, dove il confine tra arte e vita è ormai sempre più ravvicinato, pur continuando a non coincidere, a mantenere un fondamentale per quanto minimo scarto. Il confronto con l’oggetto, con le nuove tecnologie ed il rinnovamento dell’iconografia, il desiderio di analizzare i complessi meccanismi sociali denunciandone i limiti, quanto emerso, cioè, nell’ultimo ventennio, non fa a meno della citazione perché in arte questo è culturalmente impossibile quanto meno a partire dalla tarda antichità, dalla stagione ellenistica. Ma essa non è più il riferimento centrale della composizione. Attualmente vari artisti, e quanto conforta è che molti di loro appartengono alla più giovane generazione, alla quale si uniscono in una insolita alleanza diversi dei migliori talenti apparsi negli anni precedenti, adoperano con sicurezza e maturità le opzioni stilistiche prima citate, con una risultante linguistica dove lo spiazzamento ironico spesso si abbina e talvolta dialoga con una vena di simbolicità quasi mistica, dove le tecnologie si fanno docili strumenti nelle mani dell’artista. Il mio intento è quello di proseguire in questo ambito di ricerca e di analisi e prova ne è la recente collettiva “La contemporaneità italiana : nuova pittura in Italia”, dove ho affrontato una disamina della situazione in corso relativamente alla pittura, una delle componenti fondamentali dell’eclettismo artistico contemporaneo. Su invito di Franz Paludetto ho elaborato per il Castello di Rivara quella che posso definire una importante tappa intermedia del mio attuale cammino progettuale relativamente alle collettive di più ampio respiro, stimolato anche dalla possibilità di allestire l’evento in un contenitore espositivo di grande fascino e prestigio nel territorio piemontese , un Centro per l’arte contemporanea di assoluto livello internazionale che va conoscendo una fase di potenziamento ed ulteriore consolidamento delle attività. Con “Punto e a capo : nuova contemporaneità italiana” opero una selezione di proposte il cui raggio geografico si estende dal nord Italia fino a Roma, accomunate dall’elemento comune di rappresentare una sostanziale novità e di non godere ancora di una visibilità consolidata, unendo quindi una verifica dell’evoluzione della fenomenologia artistica all’ennesima scommessa per il presente e l’immediato futuro. Infatti la rassegna unisce di pari artisti anagraficamente giovani e semi esordienti ad altri che già si sono fatti conoscere ed apprezzare in più di una occasione e possono quindi definirsi emergenti, ad altri ancora dalla più lunga carriera e dalla data di nascita relativamente avanzata ma che adesso, in questo “qui ed ora”, stanno trovando l’istante in cui il loro stile ed il clima del tempo procedono in armonia e simbiosi. In mostra si potranno ammirare le tendenze principali di questo periodo, nessuna esclusa, dalla pittura al video, dall’installazione alla fotografia alle immagini digitali.
A cura di Edoardo Di Mauro
20
novembre 2005
Punto e a capo: nuova contemporaneità italiana
Dal 20 novembre 2005 al 29 gennaio 2006
arte contemporanea
giovane arte
giovane arte
Location
CENTRO D’ARTE CONTEMPORANEA – CASTELLO DI RIVARA
Rivara, Piazza Casimiro Sillano, 2, (Torino)
Rivara, Piazza Casimiro Sillano, 2, (Torino)
Orario di apertura
sabato e domenica 10-12.30 e 14.30-19 o su appuntamento
Vernissage
20 Novembre 2005, ore 11
Autore
Curatore