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Quasi Nero
Perché una mostra sul nero? Simbolo di oscurità sin dai tempi antichi, presagio fatale di forze incontrollabili che agiscono sull’uomo in modo indelebile, il nero ha alle sue spalle una storia funesta raccontata dalla società. Quattro artisti si confrontano celebrando il nero. E ognuno di loro lo interpreta, lo comprende, e in un certo senso lo chiarisce, sottoponendo agli occhi dello spettatore una visione nuova e stimolante.
Comunicato stampa
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Tivoli, Complesso dell’Annunziata. Perché una mostra sul nero? Simbolo di oscurità sin dai tempi antichi, presagio fatale di forze incontrollabili che agiscono sull’uomo in modo indelebile, il nero ha alle sue spalle una storia funesta raccontata dalla società.
Quattro artisti si confrontano celebrando il nero. E ognuno di loro lo interpreta, lo comprende, e in un certo senso lo chiarisce, sottoponendo agli occhi dello spettatore una visione nuova e stimolante. La tematica dell’inconscio, l’esplorazione della propria identità, la paura della perdita di questa, e la divulgazione delle nostre tensioni attraverso la metafora arte: tutto questo viene sezionato dai quattro autori, che fanno dell’oscurità una condizione di assoluta fertilità da cui ogni nuovo progetto di vita diviene potenzialmente possibile, presentando l’inconscio attraverso la celebrazione dei suoi lati oscuri. La mostra vuole essere una metafora che invita ad andare oltre le apparenze e i luoghi comuni. Un suggerimento ad oltrepassare la soglia che divide l’educazione impartitaci dalla nostra individualità, ciascuno abbandonandosi alla propria esperienza della visione. Perché nessun colore, come un’idea o uno schieramento politico ha un significato assoluto. In assenza di luce l’occhio riposa per vedere nuovamente: il nero porta con sé la promessa del giorno, dopo la notte.
ORARIO DI APERTURA: lun/dom dalle 16 alle 24 (sabato dalle 21 alle 24).
BIGLIETTO: Ingresso libero
PATROCINI: Comune di Tivoli
ARTISTI: Filippo Saccà, Orio Geleng, Mario Lucchesi, Sara Spizzichino.
TESTO CRITICO: Tivoli, Complesso dell’Annunziata.
Perché una mostra sul nero? Simbolo di oscurità sin dai tempi antichi, presagio fatale di forze incontrollabili che agiscono sull’uomo in modo indelebile, il nero ha alle sue spalle una storia funesta raccontata dalla società.
Quattro artisti si confrontano celebrando il nero. E ognuno di loro lo interpreta, lo comprende, e in un certo senso lo chiarisce, sottoponendo agli occhi dello spettatore una visione nuova e stimolante. La tematica dell’inconscio, l’esplorazione della propria identità, la paura della perdita di questa, e la divulgazione delle nostre tensioni attraverso la metafora arte: tutto questo viene sezionato dai quattro autori, che fanno dell’oscurità una condizione di assoluta fertilità da cui ogni nuovo progetto di vita diviene potenzialmente possibile, presentando l’inconscio attraverso la celebrazione dei suoi lati oscuri.
Filippo Saccà instaura con la tela un rapporto dialettico che arriva ad una dimensione fisica: il suo corpo si fa oggetto in favore di un’esperienza artistica totale, memore della pittura d’azione americana. Il tema dell’inconscio resta inglobato all’interno dell’uomo in un susseguirsi di evoluzioni che viaggiano con l’evolversi della società: Saccà si nutre di immagini sempre nuove che appartengono a tutti e che esplodono nella tela come i pensieri cupi nella mente, facendosi linguaggio e materia, e assumendo una bellezza che diventa sublime perché fatta di gioia e disperazione. Clyfford Still considera presuntuosa e irrilevante ogni richiesta di comunicazione, perché dentro l’area visibile del quadro si muove l’invisibile ombra del nostro inconscio, che partecipa soggettivamente alla visione, proiettandosi come paura, speranza, inquietudine o gioia. Ciò che conta è che col tempo non si impari ciò che ci è stato insegnato a vedere: l’inconscio è una valigia in disordine che non dovremmo mai riordinare, per perseverare, in mezzo alla confusione, nella ricerca di qualcosa che somigli al nostro pensiero. Nelle parole di Saccà:“Non è un argomento nuovo quello della dimensione inconscia: già Pollock, Rothko e Hofmann sessant’anni fa lo avevano affrontato. Il fatto è che credo che l’arte non sia più una questione di novità - anche perché ora siamo pieni di false novità e di veri ciarlatani -, ma credo sia solo una questione di espressione di noi stessi.”
L’inconscio dunque porta a cercare similitudini tra il nostro pensiero e il mezzo per raccontarlo. Per fare questo Orio Geleng torna all’Origine: una situazione iniziale, remota e oscura che vive incontrollata nel ricordo intangibile dell’origine dell’universo. Il grande contraccolpo scatenato dall’assestamento di pianeti e orizzonti stellari viene ripetuto in forma di pittura e prende vita attraverso le composizioni cromatiche, che oscillano nello spazio in questo senso pittorico alla ricerca di un assetto armonico. E’ l’evoluzione del tutto, scandita nell’accomodarsi vicendevolmente: un’entità si sposta lentamente verso l’altra, raggiungendo la propria dimensione, il proprio spazio in questo senso stellare e una stabilità dopo la grande esplosione. In questo contesto domina lo spazio nero il buco -, un’entità densa e invisibile, di cui sappiamo solo indirettamente e che attrae tutto verso di sé dando vita all’Orizzonte degli Eventi: una situazione di confine dove non arrivano luce e materia, una terra di nessuno dove la scienza non può più calcolare. Da qui, secondo Geleng, partono tutte le evoluzioni possibili come Dio, la vita, l’universo in espansione: ciò che non può darci risposta certa riguardo la propria origine ed esistenza.
Mentre Mario Lucchesi si muove entro il perimetro di un numero limitato di colori, l’elemento portante tra questi resta il nero, così convincente nella sua forza, da consolidare le posizioni e la presenza degli altri. E’ un lavoro indivisibile dalla musica: in un suo quadro il controluce è da considerarsi come un contrappunto, una combinazione di melodie che fa del suo linguaggio eterogeneo un motivo musicale che vive di contrasti all’interno della tela. La responsabilità del nero in questo caso è di trovarsi di fronte a tutto restando nell’ombra, e attraverso questa illuminare il resto, confinato alle sue spalle. Cosa accadrebbe in questo caso se il nero non ci fosse? Perderemmo la nostra terza dimensione: quella della profondità, dello spazio che fa propagare il suono, e insieme a tutto questo perderemmo la musica, e con lei il colore, in sostanza ogni cosa. Nella mancanza di un solo elemento, immediatamente anche gli altri perderebbero valore. Come un accordo, le vibrazioni suscitate dall’armonia di elementi diversi toccano la nostra emotività, facendoci sentire parte di un tutto, che sa funzionare insieme come una grande esecuzione sonora, in cui ad ogni accordo musicale ne corrisponde uno cromatico, non meno importante.
Sara Spizzichino racconta di un’oscura tana del coniglio, che come un ponte collega reale e immaginario. Wonderland diventa un viaggio magico attraverso la facoltà di comprendere situazioni emotive, dove il gesto del riflettersi in uno specchio e il riflettore puntato su di sé diventano metafore che indicano lo stesso significato. Sara Spizzichino, autoritraendosi in un contesto totalmente astratto, non espone sé stessa, ma la visione allegorica di un intimo stato d’animo, in cui il paradigma Sara/Alice non è un altro modo per autodefinirsi - non si tratta di un alter ego - ma la possibilità riservata a ciascuno di osservare se stesso da lontano. Le figure, nella loro immobilità mostrano una situazione d’interludio senza fine, che lascia tutto sospeso bloccando lo scorrere del tempo e ogni sorta di azione possibile. Estratto da un lavoro che prende il nome dal meraviglioso paese in cui l’eroina Alice si perde mentre è alla ricerca di ciò che va oltre la realtà, Wonderland diventa un viaggio all’interno dell’intima oggettività di ciascuno: un autoritratto fiabesco entro il quale ognuno può - come Alice attraverso lo specchio guardare sé stesso aspettando di vedere il proprio riflesso, nell’unico posto - il sogno - dove la sola realtà attendibile è quella dell’illusione.
La mostra vuole essere una metafora che invita ad andare oltre le apparenze e i luoghi comuni. Un suggerimento ad oltrepassare la soglia che divide l’educazione impartitaci dalla nostra individualità, ciascuno abbandonandosi alla propria esperienza della visione. Perché nessun colore, come un’idea o uno schieramento politico ha un significato assoluto. In assenza di luce l’occhio riposa per vedere nuovamente: il nero porta con sé la promessa del giorno, dopo la notte.
Quattro artisti si confrontano celebrando il nero. E ognuno di loro lo interpreta, lo comprende, e in un certo senso lo chiarisce, sottoponendo agli occhi dello spettatore una visione nuova e stimolante. La tematica dell’inconscio, l’esplorazione della propria identità, la paura della perdita di questa, e la divulgazione delle nostre tensioni attraverso la metafora arte: tutto questo viene sezionato dai quattro autori, che fanno dell’oscurità una condizione di assoluta fertilità da cui ogni nuovo progetto di vita diviene potenzialmente possibile, presentando l’inconscio attraverso la celebrazione dei suoi lati oscuri. La mostra vuole essere una metafora che invita ad andare oltre le apparenze e i luoghi comuni. Un suggerimento ad oltrepassare la soglia che divide l’educazione impartitaci dalla nostra individualità, ciascuno abbandonandosi alla propria esperienza della visione. Perché nessun colore, come un’idea o uno schieramento politico ha un significato assoluto. In assenza di luce l’occhio riposa per vedere nuovamente: il nero porta con sé la promessa del giorno, dopo la notte.
ORARIO DI APERTURA: lun/dom dalle 16 alle 24 (sabato dalle 21 alle 24).
BIGLIETTO: Ingresso libero
PATROCINI: Comune di Tivoli
ARTISTI: Filippo Saccà, Orio Geleng, Mario Lucchesi, Sara Spizzichino.
TESTO CRITICO: Tivoli, Complesso dell’Annunziata.
Perché una mostra sul nero? Simbolo di oscurità sin dai tempi antichi, presagio fatale di forze incontrollabili che agiscono sull’uomo in modo indelebile, il nero ha alle sue spalle una storia funesta raccontata dalla società.
Quattro artisti si confrontano celebrando il nero. E ognuno di loro lo interpreta, lo comprende, e in un certo senso lo chiarisce, sottoponendo agli occhi dello spettatore una visione nuova e stimolante. La tematica dell’inconscio, l’esplorazione della propria identità, la paura della perdita di questa, e la divulgazione delle nostre tensioni attraverso la metafora arte: tutto questo viene sezionato dai quattro autori, che fanno dell’oscurità una condizione di assoluta fertilità da cui ogni nuovo progetto di vita diviene potenzialmente possibile, presentando l’inconscio attraverso la celebrazione dei suoi lati oscuri.
Filippo Saccà instaura con la tela un rapporto dialettico che arriva ad una dimensione fisica: il suo corpo si fa oggetto in favore di un’esperienza artistica totale, memore della pittura d’azione americana. Il tema dell’inconscio resta inglobato all’interno dell’uomo in un susseguirsi di evoluzioni che viaggiano con l’evolversi della società: Saccà si nutre di immagini sempre nuove che appartengono a tutti e che esplodono nella tela come i pensieri cupi nella mente, facendosi linguaggio e materia, e assumendo una bellezza che diventa sublime perché fatta di gioia e disperazione. Clyfford Still considera presuntuosa e irrilevante ogni richiesta di comunicazione, perché dentro l’area visibile del quadro si muove l’invisibile ombra del nostro inconscio, che partecipa soggettivamente alla visione, proiettandosi come paura, speranza, inquietudine o gioia. Ciò che conta è che col tempo non si impari ciò che ci è stato insegnato a vedere: l’inconscio è una valigia in disordine che non dovremmo mai riordinare, per perseverare, in mezzo alla confusione, nella ricerca di qualcosa che somigli al nostro pensiero. Nelle parole di Saccà:“Non è un argomento nuovo quello della dimensione inconscia: già Pollock, Rothko e Hofmann sessant’anni fa lo avevano affrontato. Il fatto è che credo che l’arte non sia più una questione di novità - anche perché ora siamo pieni di false novità e di veri ciarlatani -, ma credo sia solo una questione di espressione di noi stessi.”
L’inconscio dunque porta a cercare similitudini tra il nostro pensiero e il mezzo per raccontarlo. Per fare questo Orio Geleng torna all’Origine: una situazione iniziale, remota e oscura che vive incontrollata nel ricordo intangibile dell’origine dell’universo. Il grande contraccolpo scatenato dall’assestamento di pianeti e orizzonti stellari viene ripetuto in forma di pittura e prende vita attraverso le composizioni cromatiche, che oscillano nello spazio in questo senso pittorico alla ricerca di un assetto armonico. E’ l’evoluzione del tutto, scandita nell’accomodarsi vicendevolmente: un’entità si sposta lentamente verso l’altra, raggiungendo la propria dimensione, il proprio spazio in questo senso stellare e una stabilità dopo la grande esplosione. In questo contesto domina lo spazio nero il buco -, un’entità densa e invisibile, di cui sappiamo solo indirettamente e che attrae tutto verso di sé dando vita all’Orizzonte degli Eventi: una situazione di confine dove non arrivano luce e materia, una terra di nessuno dove la scienza non può più calcolare. Da qui, secondo Geleng, partono tutte le evoluzioni possibili come Dio, la vita, l’universo in espansione: ciò che non può darci risposta certa riguardo la propria origine ed esistenza.
Mentre Mario Lucchesi si muove entro il perimetro di un numero limitato di colori, l’elemento portante tra questi resta il nero, così convincente nella sua forza, da consolidare le posizioni e la presenza degli altri. E’ un lavoro indivisibile dalla musica: in un suo quadro il controluce è da considerarsi come un contrappunto, una combinazione di melodie che fa del suo linguaggio eterogeneo un motivo musicale che vive di contrasti all’interno della tela. La responsabilità del nero in questo caso è di trovarsi di fronte a tutto restando nell’ombra, e attraverso questa illuminare il resto, confinato alle sue spalle. Cosa accadrebbe in questo caso se il nero non ci fosse? Perderemmo la nostra terza dimensione: quella della profondità, dello spazio che fa propagare il suono, e insieme a tutto questo perderemmo la musica, e con lei il colore, in sostanza ogni cosa. Nella mancanza di un solo elemento, immediatamente anche gli altri perderebbero valore. Come un accordo, le vibrazioni suscitate dall’armonia di elementi diversi toccano la nostra emotività, facendoci sentire parte di un tutto, che sa funzionare insieme come una grande esecuzione sonora, in cui ad ogni accordo musicale ne corrisponde uno cromatico, non meno importante.
Sara Spizzichino racconta di un’oscura tana del coniglio, che come un ponte collega reale e immaginario. Wonderland diventa un viaggio magico attraverso la facoltà di comprendere situazioni emotive, dove il gesto del riflettersi in uno specchio e il riflettore puntato su di sé diventano metafore che indicano lo stesso significato. Sara Spizzichino, autoritraendosi in un contesto totalmente astratto, non espone sé stessa, ma la visione allegorica di un intimo stato d’animo, in cui il paradigma Sara/Alice non è un altro modo per autodefinirsi - non si tratta di un alter ego - ma la possibilità riservata a ciascuno di osservare se stesso da lontano. Le figure, nella loro immobilità mostrano una situazione d’interludio senza fine, che lascia tutto sospeso bloccando lo scorrere del tempo e ogni sorta di azione possibile. Estratto da un lavoro che prende il nome dal meraviglioso paese in cui l’eroina Alice si perde mentre è alla ricerca di ciò che va oltre la realtà, Wonderland diventa un viaggio all’interno dell’intima oggettività di ciascuno: un autoritratto fiabesco entro il quale ognuno può - come Alice attraverso lo specchio guardare sé stesso aspettando di vedere il proprio riflesso, nell’unico posto - il sogno - dove la sola realtà attendibile è quella dell’illusione.
La mostra vuole essere una metafora che invita ad andare oltre le apparenze e i luoghi comuni. Un suggerimento ad oltrepassare la soglia che divide l’educazione impartitaci dalla nostra individualità, ciascuno abbandonandosi alla propria esperienza della visione. Perché nessun colore, come un’idea o uno schieramento politico ha un significato assoluto. In assenza di luce l’occhio riposa per vedere nuovamente: il nero porta con sé la promessa del giorno, dopo la notte.
15
settembre 2008
Quasi Nero
Dal 15 al 26 settembre 2008
arte contemporanea
Location
CHIESA DI SANTA MARIA DELL’ANNUNZIATA
Tivoli, Piazza Campitelli, (Roma)
Tivoli, Piazza Campitelli, (Roma)
Orario di apertura
lun/dom dalle 16 alle 24 (sabato dalle 21 alle 24)
Autore