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Qui e ora. Attraversando microcosmi
Progetto di Giovanni Matarazzo: 15 persone raccontano davanti a un microfono e a una macchina fotografica esperienze, stati d’animo. Gli autoritratti verbali si fondono con la rappresentazione fotografica in cui lo scatto restituisce i sinuosi sentieri di vita attraversati dagli interlocutori.
Comunicato stampa
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Giovanna Bonasegale
Dialoghi in rifrazione
La sedia vuota, che vediamo in copertina, è protagonista di questo racconto nello stesso modo in cui lo sono le quindici persone intervistate, come lo è Giovanni che ha inventato il progetto e le ha fotografate.
Siamo nelle Marche, una terra piena di incanto e di nostalgia, per coloro che la abitano e per quelli che l’hanno lasciata per un altrove più o meno lontano.
Lo studio di Giovanni è in Ancona, città di contrasti e di antinomie, che sa essere attrattiva, vivace, dinamica, ma anche sonnacchiosa e indolente: un gomito verso il mare dove si assiste ogni giorno alla nascita e al tramonto del sole, metafora quotidiana del ciclo vitale che ci accompagna.
Alla luce di questa metafora leggo il mosaico di esperienze che ognuno dei quindici protagonisti ha descritto, frammenti di lunghi viaggi identitari, non necessariamente autoreferenziali.
E immagino che quella sedia vuota sia stata una compagna di viaggio accogliente sia pur spesso non comoda. Li vedo, infatti, i corpi degli intervistati in tante posture differenti: quella sedia contiene emozioni, speranze, suggestioni, entusiasmi, stati d’animo pronti a essere depositati e a stratificarsi in uno spazio fisico e temporale che sarà presto di altri, fino a rimanere di nuovo vuota, in attesa.
Un atto di presenza coraggioso quello di testimoniare davanti a un obiettivo rispondendo alla domanda di come ci si sente in questo momento, qui e ora. Le tue espressioni e la tua gestualità scandiscono il ritmo stesso della tua vita, della memoria, di un passato che avrebbe potuto essere destino e che invece in quel qui e ora, che non è semplicemente adesso, ogni volta si è modificato. E intanto senti il rumore degli scatti, senza che ti sia concesso di vedere l’occhio di chi ti sta svelando. E sai che la tua voce è registrata. Il tuo itinerario, quel percorso che ti ha portato fino allo studio di Giovanni resta impresso in quell’aggeggio meccanico, che te lo restituirà fedele e trasformato, in un futuro prossimo, in cui forse scoprirai di essere ancora diverso, che quella sedia in attesa ospiterebbe un altro te.
È in questo fluire, individuale e collettivo, che si snoda il progetto di Giovanni. Le persone hanno scelto di aderire rispondendo a un suo invito, direi abbastanza scarno, sui social. Parlava semplicemente di un progetto fotografico, senza dettagliarne il contenuto; specificava, tuttavia, che le fotografie non sarebbero state “imbarazzanti, ma con un alto tasso di partecipazione ed empatia”, infine si appellava alla fiducia nei suoi confronti.
Le persone che hanno accettato di partecipare non hanno interagito tra di loro nel momento dell’intervista: forse si conoscevano, forse no, non lo sappiamo e non ci viene detto.
Tuttavia si ha l’impressione che ognuna di loro – indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla professione, dalle trasformazioni, che nel tempo si sono succedute – stia sfogliando le pagine di un diario, fogli vissuti prima di essere scritti, che si sono accumulati e fermati momentaneamente su una soglia, quel limite del qui e ora, che può diventare un confine, più spesso un varco.
Si raccontano queste persone, e ci raccontano, con consapevolezza intensa, quasi volessero rispondere all’enigma della propria identità prima che diventi mistero: attori e spettatori di se stessi in un ritmo, che non è uguale per tutti, ma che per tutti significa percezione mnemonica, senso della realtà e insieme proiezione visiva di un prossimo futuro.
C’è un osservatore di queste narrazioni, che si sofferma su di loro, ne condivide la trama e le emozioni; in un intreccio di luci e di ombre sa coglierne la presenza.
“Le fotografie – scrive Ernst Jünger – riproducono qualcosa della sostanza dell’uomo, delle sue irradiazioni; ne sono una copia. In questo senso vi è tra fotografia e scrittura un intimo legame. Quando vogliamo ricordare sfogliamo lettere e fotografie.”
Se ho ben interpretato, la chiave del progetto di Giovanni è proprio qui: nell’intimo legame in cui si fondono gli autoritratti verbali e la loro rappresentazione fotografica eseguita da una persona esterna.
Non sto parlando, beninteso, del ‘ritratto’ classico, quello che agli albori della nascita della classe borghese il fotografo ‘rubò’ al pittore, ma neppure di quello dei quattro immaginari, che ci descrive Roland Barthes: “Davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte.” E non mi riferisco neanche della teoria di Gombrich, che vuole il ritratto fotografico inficiato dallo stato d’animo del ritrattato, il quale indossa una metaforica “maschera” per alleviare l’imbarazzo di trovarsi di fronte al fotografo e al suo implacabile obiettivo. L’immagine che sarà consegnata alla stampa sarà l’esito di quella maschera, la conseguenza di espressioni che invece di lasciar trapelare la autentica fisionomia del ritrattato, ne scolpiranno una visione denaturata tanto da poter dire che vedremo prima la maschera e poi la faccia.
Nel genere del ritratto fotografico queste affermazioni sono inconfutabili e non c’è chi – in particolare tra i fotografi, gli storici dell’arte, gli studiosi di fotografia e gli stessi storici o antropologi – non vi abbia riflettuto.
Penso invece a quella specie di abisso nel quale il ritratto è precipitato, proprio qui e proprio ora, sostituito da una simbologia impropria e maniacale chiamata selfie, attraverso la quale ci si compiace di autoritrarsi, mostrando un se stesso, che non è la maschera di Gombrich rivisitata da un altro da sé, ma generalmente e genericamente una faccia ravvicinata, fortemente segnata da connotati emotivi che, paradossalmente, ne dimostrano di fatto l’assenza.
E allora considero questo progetto di Giovanni una vera innovazione e un grido di allarme. Questi scatti rompono una delle tradizioni ritrattistiche e ne propongono un’altra. Derivano, infatti, non da sedute di posa, ma da lunghi dialoghi, durante i quali in realtà entrambi i soggetti – chi ascoltando osserva e chi parlando si lascia osservare – sono testimoni l’uno dell’altro e instaurano senza forzature e con naturalezza empatica quel legame al quale accennavo prima.
Su quella sedia, insieme con le parole, si snodano gestualità, mimica, movenze, atteggiamenti di sospensione, a volte di sorpresa, di incredulità o di sicurezza, un dinamismo emozionale che ben difficilmente un solo scatto sarebbe in grado di restituirci. Ma anche lui, il fotografo, è ‘attraversato’, da quello che ascolta, da quello che vede, da quello che sente e il suo occhio dietro il mirino non potrà non accorgersi di un movimento particolare, di una allusione speciale, non potrà non notare un riflesso nello sguardo, quell’insieme di rivelazioni che il colloquio custodisce, e quindi il suo avvicinamento tecnico al corpo fisico della persona che ha di fronte, lo condurrebbe di fatto ad appropriarsi dei dettagli anche mentali del suo spazio – o almeno quelli che lui crede di cogliere – e ciò ci riproporrebbe il grande tema della ambigua ambivalenza del ritratto, fotografico o non.
Dove è dunque l’innovazione e dove la nuova proposta? Qui interviene l’intuizione di Giovanni: trasformare i momenti del parlato non certo in fermo-immagine, come fosse un filmato, ma in preziosi istanti in cui lo scatto riesca a restituirci i sinuosi sentieri che ognuno dei suoi interlocutori sta attraversando. Leggendo i testi e guardando le immagini è come se riconoscessimo i diversi momenti della narrazione in cui sono state scattate le fotografie. Non si tratta di apparizioni sublimate dal fotografo, il fotografo non vuole primeggiare: ripone nelle persone la stessa fiducia che loro hanno riposto in lui, raccoglie quello che dicono, abita il loro parlare. Agisce, in altre parole, con pari libertà rispetto alle persone intervistate. Una specie di trasgressione rispetto al suo essere fotografo.
Ma Giovanni è un fotografo e così come rivelano il proprio io i protagonisti di questa storia, non può esimersi dal rivelarsi a sua volta. Ecco, quindi, alla fine di ogni singolo incontro, una fotografia in posa: il ritratto che suggella il racconto, conducendoci all’apice di una gradazione ascendente, dove l’immagine – per dirla con Calvino – si cristallizza “in una forma ben definita, memorabile, autosufficiente, icastica”. La posa è per definizione concordata, ma gli eventuali suggerimenti del soggetto diventano fragili di fronte alla determinazione del fotografo: è lui uno dei giocatori, ma è anche arbitro e può dirigere il gioco. Tuttavia Giovanni non vuole interrompere il filo della conversazione e tantomeno il patto implicito in questo progetto ossia la lealtà: lui guarda e sa di essere guardato; non c’è antagonismo nel momento della scelta dell’inquadratura o in quello dello scatto e ne emergono immagini autentiche nella loro naturalezza, sorrette da una grande sapienza tecnica. Sta a noi, spettatori di tutto questo, assumere l’onere di un ulteriore sguardo, quello del riverbero di esperienze altrui, che potrebbero essere di ognuno di noi.
Dialoghi in rifrazione
La sedia vuota, che vediamo in copertina, è protagonista di questo racconto nello stesso modo in cui lo sono le quindici persone intervistate, come lo è Giovanni che ha inventato il progetto e le ha fotografate.
Siamo nelle Marche, una terra piena di incanto e di nostalgia, per coloro che la abitano e per quelli che l’hanno lasciata per un altrove più o meno lontano.
Lo studio di Giovanni è in Ancona, città di contrasti e di antinomie, che sa essere attrattiva, vivace, dinamica, ma anche sonnacchiosa e indolente: un gomito verso il mare dove si assiste ogni giorno alla nascita e al tramonto del sole, metafora quotidiana del ciclo vitale che ci accompagna.
Alla luce di questa metafora leggo il mosaico di esperienze che ognuno dei quindici protagonisti ha descritto, frammenti di lunghi viaggi identitari, non necessariamente autoreferenziali.
E immagino che quella sedia vuota sia stata una compagna di viaggio accogliente sia pur spesso non comoda. Li vedo, infatti, i corpi degli intervistati in tante posture differenti: quella sedia contiene emozioni, speranze, suggestioni, entusiasmi, stati d’animo pronti a essere depositati e a stratificarsi in uno spazio fisico e temporale che sarà presto di altri, fino a rimanere di nuovo vuota, in attesa.
Un atto di presenza coraggioso quello di testimoniare davanti a un obiettivo rispondendo alla domanda di come ci si sente in questo momento, qui e ora. Le tue espressioni e la tua gestualità scandiscono il ritmo stesso della tua vita, della memoria, di un passato che avrebbe potuto essere destino e che invece in quel qui e ora, che non è semplicemente adesso, ogni volta si è modificato. E intanto senti il rumore degli scatti, senza che ti sia concesso di vedere l’occhio di chi ti sta svelando. E sai che la tua voce è registrata. Il tuo itinerario, quel percorso che ti ha portato fino allo studio di Giovanni resta impresso in quell’aggeggio meccanico, che te lo restituirà fedele e trasformato, in un futuro prossimo, in cui forse scoprirai di essere ancora diverso, che quella sedia in attesa ospiterebbe un altro te.
È in questo fluire, individuale e collettivo, che si snoda il progetto di Giovanni. Le persone hanno scelto di aderire rispondendo a un suo invito, direi abbastanza scarno, sui social. Parlava semplicemente di un progetto fotografico, senza dettagliarne il contenuto; specificava, tuttavia, che le fotografie non sarebbero state “imbarazzanti, ma con un alto tasso di partecipazione ed empatia”, infine si appellava alla fiducia nei suoi confronti.
Le persone che hanno accettato di partecipare non hanno interagito tra di loro nel momento dell’intervista: forse si conoscevano, forse no, non lo sappiamo e non ci viene detto.
Tuttavia si ha l’impressione che ognuna di loro – indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla professione, dalle trasformazioni, che nel tempo si sono succedute – stia sfogliando le pagine di un diario, fogli vissuti prima di essere scritti, che si sono accumulati e fermati momentaneamente su una soglia, quel limite del qui e ora, che può diventare un confine, più spesso un varco.
Si raccontano queste persone, e ci raccontano, con consapevolezza intensa, quasi volessero rispondere all’enigma della propria identità prima che diventi mistero: attori e spettatori di se stessi in un ritmo, che non è uguale per tutti, ma che per tutti significa percezione mnemonica, senso della realtà e insieme proiezione visiva di un prossimo futuro.
C’è un osservatore di queste narrazioni, che si sofferma su di loro, ne condivide la trama e le emozioni; in un intreccio di luci e di ombre sa coglierne la presenza.
“Le fotografie – scrive Ernst Jünger – riproducono qualcosa della sostanza dell’uomo, delle sue irradiazioni; ne sono una copia. In questo senso vi è tra fotografia e scrittura un intimo legame. Quando vogliamo ricordare sfogliamo lettere e fotografie.”
Se ho ben interpretato, la chiave del progetto di Giovanni è proprio qui: nell’intimo legame in cui si fondono gli autoritratti verbali e la loro rappresentazione fotografica eseguita da una persona esterna.
Non sto parlando, beninteso, del ‘ritratto’ classico, quello che agli albori della nascita della classe borghese il fotografo ‘rubò’ al pittore, ma neppure di quello dei quattro immaginari, che ci descrive Roland Barthes: “Davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte.” E non mi riferisco neanche della teoria di Gombrich, che vuole il ritratto fotografico inficiato dallo stato d’animo del ritrattato, il quale indossa una metaforica “maschera” per alleviare l’imbarazzo di trovarsi di fronte al fotografo e al suo implacabile obiettivo. L’immagine che sarà consegnata alla stampa sarà l’esito di quella maschera, la conseguenza di espressioni che invece di lasciar trapelare la autentica fisionomia del ritrattato, ne scolpiranno una visione denaturata tanto da poter dire che vedremo prima la maschera e poi la faccia.
Nel genere del ritratto fotografico queste affermazioni sono inconfutabili e non c’è chi – in particolare tra i fotografi, gli storici dell’arte, gli studiosi di fotografia e gli stessi storici o antropologi – non vi abbia riflettuto.
Penso invece a quella specie di abisso nel quale il ritratto è precipitato, proprio qui e proprio ora, sostituito da una simbologia impropria e maniacale chiamata selfie, attraverso la quale ci si compiace di autoritrarsi, mostrando un se stesso, che non è la maschera di Gombrich rivisitata da un altro da sé, ma generalmente e genericamente una faccia ravvicinata, fortemente segnata da connotati emotivi che, paradossalmente, ne dimostrano di fatto l’assenza.
E allora considero questo progetto di Giovanni una vera innovazione e un grido di allarme. Questi scatti rompono una delle tradizioni ritrattistiche e ne propongono un’altra. Derivano, infatti, non da sedute di posa, ma da lunghi dialoghi, durante i quali in realtà entrambi i soggetti – chi ascoltando osserva e chi parlando si lascia osservare – sono testimoni l’uno dell’altro e instaurano senza forzature e con naturalezza empatica quel legame al quale accennavo prima.
Su quella sedia, insieme con le parole, si snodano gestualità, mimica, movenze, atteggiamenti di sospensione, a volte di sorpresa, di incredulità o di sicurezza, un dinamismo emozionale che ben difficilmente un solo scatto sarebbe in grado di restituirci. Ma anche lui, il fotografo, è ‘attraversato’, da quello che ascolta, da quello che vede, da quello che sente e il suo occhio dietro il mirino non potrà non accorgersi di un movimento particolare, di una allusione speciale, non potrà non notare un riflesso nello sguardo, quell’insieme di rivelazioni che il colloquio custodisce, e quindi il suo avvicinamento tecnico al corpo fisico della persona che ha di fronte, lo condurrebbe di fatto ad appropriarsi dei dettagli anche mentali del suo spazio – o almeno quelli che lui crede di cogliere – e ciò ci riproporrebbe il grande tema della ambigua ambivalenza del ritratto, fotografico o non.
Dove è dunque l’innovazione e dove la nuova proposta? Qui interviene l’intuizione di Giovanni: trasformare i momenti del parlato non certo in fermo-immagine, come fosse un filmato, ma in preziosi istanti in cui lo scatto riesca a restituirci i sinuosi sentieri che ognuno dei suoi interlocutori sta attraversando. Leggendo i testi e guardando le immagini è come se riconoscessimo i diversi momenti della narrazione in cui sono state scattate le fotografie. Non si tratta di apparizioni sublimate dal fotografo, il fotografo non vuole primeggiare: ripone nelle persone la stessa fiducia che loro hanno riposto in lui, raccoglie quello che dicono, abita il loro parlare. Agisce, in altre parole, con pari libertà rispetto alle persone intervistate. Una specie di trasgressione rispetto al suo essere fotografo.
Ma Giovanni è un fotografo e così come rivelano il proprio io i protagonisti di questa storia, non può esimersi dal rivelarsi a sua volta. Ecco, quindi, alla fine di ogni singolo incontro, una fotografia in posa: il ritratto che suggella il racconto, conducendoci all’apice di una gradazione ascendente, dove l’immagine – per dirla con Calvino – si cristallizza “in una forma ben definita, memorabile, autosufficiente, icastica”. La posa è per definizione concordata, ma gli eventuali suggerimenti del soggetto diventano fragili di fronte alla determinazione del fotografo: è lui uno dei giocatori, ma è anche arbitro e può dirigere il gioco. Tuttavia Giovanni non vuole interrompere il filo della conversazione e tantomeno il patto implicito in questo progetto ossia la lealtà: lui guarda e sa di essere guardato; non c’è antagonismo nel momento della scelta dell’inquadratura o in quello dello scatto e ne emergono immagini autentiche nella loro naturalezza, sorrette da una grande sapienza tecnica. Sta a noi, spettatori di tutto questo, assumere l’onere di un ulteriore sguardo, quello del riverbero di esperienze altrui, che potrebbero essere di ognuno di noi.
08
luglio 2023
Qui e ora. Attraversando microcosmi
Dall'otto al 30 luglio 2023
fotografia
Location
Oratorio San Giovanni Battista
Urbino, Via Federico Barocci, 31, (PU)
Urbino, Via Federico Barocci, 31, (PU)
Biglietti
€ 2 che è in realtà il prezzo per accedere all'Oratorio dove è allestita la mostra
Orario di apertura
Lunedì a Sabato: 10-13 e 15-18;
Domenica 10-13
Vernissage
8 Luglio 2023, Ore 17. Introdurranno: Padre Francesco Acquabona e Giovanni Matarazzo, autore del progetto e delle fotografie esposte,
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Il link esatto alla sezione del mio sito per “Qui e ora” e https://www.giovannimatarazzo.it/qui-e-ora
Mi scuso per l’errore.