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Rachele Bianchi – Il teatro della memoria
l’Istituto Nazionale d’Arte Contemporanea presenta l’ opera della scultrice lombarda Rachele Bianchi. Anno 1925, una voce indipendente e sensibile fra gli artisti della storica galleria Milanese di Ada Zunino. In mostra 70 lavori di grandi dimensioni, in marmo e bronzo.
Comunicato stampa
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Testo critico: "La scultura gotica di Rachele Bianchi"
"Gotico" è un termine tutt’altro che definito e definibile, al di là dell’esplicito quanto della sostanza, improprio rimando a quelle popolazioni che dall’originaria sede sul Baltico dilagarono attraverso la Dacia nell’Europa occidentale. Come afferma uno studioso quale Louis Grodecki, la nozione di "gotico" è di per se stessa "Poco chiara, in quanto non corrisponde a dati storici e geografici precisi e in quanto i caratteri tecnici, formali e iconografici che si è voluto attribuire ad essa non sono costanti" (L’architettura gotica, Milano 1976, p.9). Per cui "si tratta in sostanza di un termine convenzionale, accettato dagli storici in ossequio ad una tradizione ormai lunga; un termine il cui significato varia secondo i suoi interpreti". Tanto che un altro studioso, Paul Frankl, ha potuto scrivere un intero libro attorno alle sue "fonti letterarie e alle interpretazioni attraverso otto secoli", dal medioevo all’epoca moderna (The Gothic. Literary Sources and Interpretations throught Eight Centuries, Princeton 1960). L’ "interpretazione" che qui si utilizza a proposito della scultura di Rachele Bianchi va oltre il riferimento, pur lato, allo "stile" affermatosi nell’architettura e nelle arti dopo il Romanico e prima del Rinascimento, e poi rifiorito nel "revival" ottocentesco. Sta piuttosto ad indicare - in termini ovviamente generali - un clima culturale estraneo, anzi alternativo, alla solarità, agli equilibri, alle dolcezze mediterranee: un registro anticlassico, duro, spigoloso, freddo, di intonazione nordica. Che è tutt’altro che assente nell’arte italiana, anche in quella di questo secolo, come può provare il Carrà che guarda al Derain appunto "gotico", per citare un caso esemplare, o, nella scultura, il Marino dei Miracoli. Ché - ma non è qui il caso di andar oltre in siffatta argomentazione - alla direttrice nord-sud di molta arte d’oltralpe, corrisponde quella sud-nord, seppur quantitativamente non confrontabile, di certa nostra arte. Della quale a pieno titolo partecipa la riservata, isolata, introversa, Rachele Bianchi, che merita le sia riconosciuto un posto di rilievo nella scultura italiana del dopoguerra, anche proprio per questa sua scelta di campo non conformista e originalmente, autenticamente motivata. Tale cruda atmosfera "gotica" l’ha bene avvertita Raffaele De Grada, scrivendo dell’artista in occasione della mostra personale tenutasi alla Galleria di Ada Zunino a Milano nel 1995. In quel testo il critico parlava degli "uomini e gli edifici rustici" delle porte medievali di Hildesheim e di San Zeno a Verona, di "mantelli ferrei che non lasciano definire i corpi", di analogie con gli scultori medievali nel lasciar "intuire le forme dietro la massa del pezzo unico", di "una sorta", talora, "di portale ferreo con borchie che incutono medievali terrori", e persino di "medioevo ellenico" e di "radice culturale primordiale", per concludere che "la figuratività della scultura della Bianchi non è affatto di tradizione rinascimentale", né ha a che fare con "quella che, incrociandosi con la sequenza dell’impressionismo, ha avuto il suo più grande esempio in Giacomo Manzù". Sono d’accordo in tutto. La Bianchi è della razza di un Barlach (cui stranamente De Grada non s’è riferito), preferendo, pur con sostanziali "distinguo", addurre il "precedente doveroso" di Ypostegui). Analoga (senza naturalmente voler proporre forzati confronti con il grande maestro tedesco; solo per sottolineare un’affinità profonda e caratterizzante) è la volontà di sintesi: strutturale, tettonica, prima che architettonica, o limitatamente geometrica. Si guardi ad esempio la Donna in piedi del 1994, ermeticamente sigillata in una chiusura significante, misteriosa e intensa, e proprio per l’assenza di notazioni minute, di insistenze illustrative, che per voler dire di più finiscono con l’attenuare la forza del messaggio. Rachele Bianchi non confonde il contingente con quanto è per l’uomo e la sua condizione "necessario". Non intende elevarsi in una assolutezza metastorica. Alla storia, al contrario, la scultrice aderisce intimamente per la natura medesima del suo pensiero e quindi della sua poetica. I suoi uomini sono uomini, le sue donne sono donne, non rievocazioni storicistiche, né rarefazioni idealistiche (non quindi figure "in costume" e neppure corpi astrattamente nudi). E per appieno comprendere la radice, esistenziale, di coscienza, di questa intenzionale "riduzione" tematica e formale vale citare una folgorante considerazione del poeta Theodor Däubler vergata nel 1917 in rapporto all’opera, proprio , di Barlach: "Solo conta la condizione umana: ciò che si riferisce all’individuo non ha alcuna importanza". In questo senso è improprio parlare di espressionismo per la scultura espressiva, fortemente espressiva della Bianchi, fondata piuttosto sulla reticenza, il mistero. Non a caso tra i suoi autori preferiti c’è il Kafka de Il processo e La colonia penale, cui si ispirano alcune opere, e similmente il Buzzati de Il deserto dei Tartari. Fino, talora, alla visionarietà ("Incontriamo qualche volta in lui delle rappresentazioni visionarie che scavalcano tutto ciò che è stato creato in scultura. In quel momento la sua opera prende le dimensioni dell’intera natura": Emil Waldmann, nel 1913, ancora per Barlach). In tutto ciò ritorna quel registro "gotico" che ci pare segnare, sempre, il lavoro della Bianchi. Dove i "mantelli ferrei che non lasciano definire i corpi" di cui ha scritto De Grada sono orizzonti "finiti" che consentono di sentire, di intuire, ma con quanto determinata flagranza, l’ "infinito". Entro la logica di cui s’è detto del raccontare meno per significare di più. Cui contribuisce la scelta di patine scure, non diversamente che, in altre opere, la presenza per il gesso. Che scatta, da materiale preparatorio, a medium espressivo autosufficiente, perfettamente consono all’immagine. Come qualche anno fa ha ribadito Enzo Fabiani (di nuovo per un testo di presentazione di una mostra nel 1993 a Milano nella galleria di Ada Zunino che ha il merito di aver fatto uscire allo scoperto la nostra autrice, vincendone la naturale ritrosia, quasi facendole violenza) siamo infatti "davanti a un’artista portata a figure chiuse e consistenti in se stesse e che trova nel gesso patinato bianco (anche se il bronzo non le è affatto estraneo) la giusta materia per il suo sentire e fare scultura". Anche qui, in un certo senso, una "riduzione", una ricerca di essenzialità, funzionale all’esclusione di qualsiasi caduta in ciò che non è primario: fuori dal tempo, in un certo senso, per essere nel tempo. Con una qual primordialità, per tornare alle intuizioni di De Grada, che, aggiungo, può legittimare il richiamo problematico al primordialismo che fu fondamentale per molti svolgimenti dell’arte italiana tra anni Venti e Trenta (fino all’impresa, nel 1938, dei "Valori Primordiali" di Franco Ciliberti, di cui il giovanissimo De Grada fu segretario): per constatare la persistenza della bontempelliana tensione al "Costruire", al di qua di compromissioni individualistiche, fuori però, nella Bianchi, del radicalismo dell’ "anonimato" postulato dallo scrittore e soprattutto della sua aspirazione a "uno Spazio e a un Tempo oggettivi e assoluti" e della connessa, nell’operare medesimo, proiezione astorica. Rachele Bianchi, infatti, vive il suo radicamento nella storia con una compromissione anche esistenziale. Sul filo della presa di distanza ricordata, tuttavia, e nella coscienza dell’irriducibilità del realismo (altra nozione imprendibile e mutante, secondo meccanismi che ci sono stati definitivamente evidenziati dal grande esponente del formalismo russo Roman Jakobson) non solo all’assurda pregiudiziale della coincidenza con una pretesa realtà (che non può poi non essere anche un’idea di realtà), ma all’identificazione medesima con una particolare, storica, sua concezione e definizione che nel secondo dopoguerra tanti danni ha provocati anche in Italia (nel realismo sociale e socialista, cosiddetto "neorealistico"). Di qui l’anacronismo di Rachele Bianchi, la sua "irritualità" nel proporsi nel presente senza su di esso appiattirsi né, come invece Bontempelli e gli artisti a lui legati (anche illustri. da Terragni a Cagli o Melotti), negli anni tra le due guerre), da esso prescindere, con la pretesa presunzione di intervenirvi più efficacemente. Di qui, di conseguenza, l’interesse della sua scultura, che incarna e in cui si risolvono le implicazioni storiche di cui l’artista preferisce non trattare a parole, amando piuttosto diffondersi sulla propria concezione della vita, pur essa, ovviamente nutrita di volontà di partecipazione e insieme della ricerca di una sedimentazione che non coarti l’emotività e il giudizio, ma consenta lo scatto oltre l’occasionalità.
Luciano Caramel
"Gotico" è un termine tutt’altro che definito e definibile, al di là dell’esplicito quanto della sostanza, improprio rimando a quelle popolazioni che dall’originaria sede sul Baltico dilagarono attraverso la Dacia nell’Europa occidentale. Come afferma uno studioso quale Louis Grodecki, la nozione di "gotico" è di per se stessa "Poco chiara, in quanto non corrisponde a dati storici e geografici precisi e in quanto i caratteri tecnici, formali e iconografici che si è voluto attribuire ad essa non sono costanti" (L’architettura gotica, Milano 1976, p.9). Per cui "si tratta in sostanza di un termine convenzionale, accettato dagli storici in ossequio ad una tradizione ormai lunga; un termine il cui significato varia secondo i suoi interpreti". Tanto che un altro studioso, Paul Frankl, ha potuto scrivere un intero libro attorno alle sue "fonti letterarie e alle interpretazioni attraverso otto secoli", dal medioevo all’epoca moderna (The Gothic. Literary Sources and Interpretations throught Eight Centuries, Princeton 1960). L’ "interpretazione" che qui si utilizza a proposito della scultura di Rachele Bianchi va oltre il riferimento, pur lato, allo "stile" affermatosi nell’architettura e nelle arti dopo il Romanico e prima del Rinascimento, e poi rifiorito nel "revival" ottocentesco. Sta piuttosto ad indicare - in termini ovviamente generali - un clima culturale estraneo, anzi alternativo, alla solarità, agli equilibri, alle dolcezze mediterranee: un registro anticlassico, duro, spigoloso, freddo, di intonazione nordica. Che è tutt’altro che assente nell’arte italiana, anche in quella di questo secolo, come può provare il Carrà che guarda al Derain appunto "gotico", per citare un caso esemplare, o, nella scultura, il Marino dei Miracoli. Ché - ma non è qui il caso di andar oltre in siffatta argomentazione - alla direttrice nord-sud di molta arte d’oltralpe, corrisponde quella sud-nord, seppur quantitativamente non confrontabile, di certa nostra arte. Della quale a pieno titolo partecipa la riservata, isolata, introversa, Rachele Bianchi, che merita le sia riconosciuto un posto di rilievo nella scultura italiana del dopoguerra, anche proprio per questa sua scelta di campo non conformista e originalmente, autenticamente motivata. Tale cruda atmosfera "gotica" l’ha bene avvertita Raffaele De Grada, scrivendo dell’artista in occasione della mostra personale tenutasi alla Galleria di Ada Zunino a Milano nel 1995. In quel testo il critico parlava degli "uomini e gli edifici rustici" delle porte medievali di Hildesheim e di San Zeno a Verona, di "mantelli ferrei che non lasciano definire i corpi", di analogie con gli scultori medievali nel lasciar "intuire le forme dietro la massa del pezzo unico", di "una sorta", talora, "di portale ferreo con borchie che incutono medievali terrori", e persino di "medioevo ellenico" e di "radice culturale primordiale", per concludere che "la figuratività della scultura della Bianchi non è affatto di tradizione rinascimentale", né ha a che fare con "quella che, incrociandosi con la sequenza dell’impressionismo, ha avuto il suo più grande esempio in Giacomo Manzù". Sono d’accordo in tutto. La Bianchi è della razza di un Barlach (cui stranamente De Grada non s’è riferito), preferendo, pur con sostanziali "distinguo", addurre il "precedente doveroso" di Ypostegui). Analoga (senza naturalmente voler proporre forzati confronti con il grande maestro tedesco; solo per sottolineare un’affinità profonda e caratterizzante) è la volontà di sintesi: strutturale, tettonica, prima che architettonica, o limitatamente geometrica. Si guardi ad esempio la Donna in piedi del 1994, ermeticamente sigillata in una chiusura significante, misteriosa e intensa, e proprio per l’assenza di notazioni minute, di insistenze illustrative, che per voler dire di più finiscono con l’attenuare la forza del messaggio. Rachele Bianchi non confonde il contingente con quanto è per l’uomo e la sua condizione "necessario". Non intende elevarsi in una assolutezza metastorica. Alla storia, al contrario, la scultrice aderisce intimamente per la natura medesima del suo pensiero e quindi della sua poetica. I suoi uomini sono uomini, le sue donne sono donne, non rievocazioni storicistiche, né rarefazioni idealistiche (non quindi figure "in costume" e neppure corpi astrattamente nudi). E per appieno comprendere la radice, esistenziale, di coscienza, di questa intenzionale "riduzione" tematica e formale vale citare una folgorante considerazione del poeta Theodor Däubler vergata nel 1917 in rapporto all’opera, proprio , di Barlach: "Solo conta la condizione umana: ciò che si riferisce all’individuo non ha alcuna importanza". In questo senso è improprio parlare di espressionismo per la scultura espressiva, fortemente espressiva della Bianchi, fondata piuttosto sulla reticenza, il mistero. Non a caso tra i suoi autori preferiti c’è il Kafka de Il processo e La colonia penale, cui si ispirano alcune opere, e similmente il Buzzati de Il deserto dei Tartari. Fino, talora, alla visionarietà ("Incontriamo qualche volta in lui delle rappresentazioni visionarie che scavalcano tutto ciò che è stato creato in scultura. In quel momento la sua opera prende le dimensioni dell’intera natura": Emil Waldmann, nel 1913, ancora per Barlach). In tutto ciò ritorna quel registro "gotico" che ci pare segnare, sempre, il lavoro della Bianchi. Dove i "mantelli ferrei che non lasciano definire i corpi" di cui ha scritto De Grada sono orizzonti "finiti" che consentono di sentire, di intuire, ma con quanto determinata flagranza, l’ "infinito". Entro la logica di cui s’è detto del raccontare meno per significare di più. Cui contribuisce la scelta di patine scure, non diversamente che, in altre opere, la presenza per il gesso. Che scatta, da materiale preparatorio, a medium espressivo autosufficiente, perfettamente consono all’immagine. Come qualche anno fa ha ribadito Enzo Fabiani (di nuovo per un testo di presentazione di una mostra nel 1993 a Milano nella galleria di Ada Zunino che ha il merito di aver fatto uscire allo scoperto la nostra autrice, vincendone la naturale ritrosia, quasi facendole violenza) siamo infatti "davanti a un’artista portata a figure chiuse e consistenti in se stesse e che trova nel gesso patinato bianco (anche se il bronzo non le è affatto estraneo) la giusta materia per il suo sentire e fare scultura". Anche qui, in un certo senso, una "riduzione", una ricerca di essenzialità, funzionale all’esclusione di qualsiasi caduta in ciò che non è primario: fuori dal tempo, in un certo senso, per essere nel tempo. Con una qual primordialità, per tornare alle intuizioni di De Grada, che, aggiungo, può legittimare il richiamo problematico al primordialismo che fu fondamentale per molti svolgimenti dell’arte italiana tra anni Venti e Trenta (fino all’impresa, nel 1938, dei "Valori Primordiali" di Franco Ciliberti, di cui il giovanissimo De Grada fu segretario): per constatare la persistenza della bontempelliana tensione al "Costruire", al di qua di compromissioni individualistiche, fuori però, nella Bianchi, del radicalismo dell’ "anonimato" postulato dallo scrittore e soprattutto della sua aspirazione a "uno Spazio e a un Tempo oggettivi e assoluti" e della connessa, nell’operare medesimo, proiezione astorica. Rachele Bianchi, infatti, vive il suo radicamento nella storia con una compromissione anche esistenziale. Sul filo della presa di distanza ricordata, tuttavia, e nella coscienza dell’irriducibilità del realismo (altra nozione imprendibile e mutante, secondo meccanismi che ci sono stati definitivamente evidenziati dal grande esponente del formalismo russo Roman Jakobson) non solo all’assurda pregiudiziale della coincidenza con una pretesa realtà (che non può poi non essere anche un’idea di realtà), ma all’identificazione medesima con una particolare, storica, sua concezione e definizione che nel secondo dopoguerra tanti danni ha provocati anche in Italia (nel realismo sociale e socialista, cosiddetto "neorealistico"). Di qui l’anacronismo di Rachele Bianchi, la sua "irritualità" nel proporsi nel presente senza su di esso appiattirsi né, come invece Bontempelli e gli artisti a lui legati (anche illustri. da Terragni a Cagli o Melotti), negli anni tra le due guerre), da esso prescindere, con la pretesa presunzione di intervenirvi più efficacemente. Di qui, di conseguenza, l’interesse della sua scultura, che incarna e in cui si risolvono le implicazioni storiche di cui l’artista preferisce non trattare a parole, amando piuttosto diffondersi sulla propria concezione della vita, pur essa, ovviamente nutrita di volontà di partecipazione e insieme della ricerca di una sedimentazione che non coarti l’emotività e il giudizio, ma consenta lo scatto oltre l’occasionalità.
Luciano Caramel
17
aprile 2010
Rachele Bianchi – Il teatro della memoria
Dal 17 aprile al 30 maggio 2010
arte contemporanea
Location
ARCHIVIO DI STATO
Firenze, Viale Della Giovine Italia, 6, (Firenze)
Firenze, Viale Della Giovine Italia, 6, (Firenze)
Orario di apertura
da lunedì a venerdì 10-13 e15-18 e sabato 10-13 - (domenica e festivi chiuso)
Vernissage
17 Aprile 2010, ore 17
Editore
VERSO L'ARTE
Autore
Curatore