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Raffaele Bartoli – L’afflato poetico
Artista desueto, spurio, urticante, Raffaele Bartoli torna a casa.
Comunicato stampa
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E’ passato qualche anno dalla sua ultima mostra.
E se il tempo è passato indubbiamente, come scriverebbe Pablo Neruda, il suo nomadismo estetico e culturale ha lasciato, alla distanza, segni e segnali profondi.
Come il reduce brechtiano, Bartoli torna sulle tracce percorse per confermare una storia a metà strada tra racconto e favola, tra realtà e commedia.
Ogni quadro si conferma un rutilante ballon d’essai gonfio di messaggi subliminali, difeso da cavalli di frisia che tagliano gambe alla noia accademica, ai copisti dell’ultima ora, alle retroguardie dei paesaggisti senza paesaggio.
E dire che i suoi primi lavori - tempere e acquerelli di cicisbea fattura, ricami frondosi di bradi pellegrinaggi in montagna, abbracci raffinatissimi al caramello naturale, paradisi artificiali di boschetti e macchie percorse da luci terse e acque tranquille con l’inevitabile ponticello, o casolare, a fare da palo al “misfatto” naturalistico - sembravano condannarlo alla maledizione dei Maestri “permanenti e stanziali” della zona : quella prigione figurale, dolce e protettiva, con il marchio doc del visto, piaciuto, venduto.
In questa gabbia dorata si sguazzava bene ed il salvadanaio rischiava di scoppiare.
E poi c’era la compagnia illustre delle vacanze a Monzuno di Bertocchi, di Giacomelli, di Ilario Rossi a cementare la convinzione che si poteva campare en plein air con poco rischio e una manciata di gloria locale sino alla stazione finale del vissero felici e contenti.
Ma il felice e contento Bartoli non poteva reggere.
La sua interiorità irsuta ed irrequieta non ha, infatti, sopportato a lungo la luce lancinante dei tramonti di mezza collina, il verde riposante di sottoboschi macchiaioli, i colori ambragiti degli autunni con le foglie che cadono, l’arcadia dei sentieri e delle casone perdute nella valle.
Arrivò così il notturno come habitat emozionale e la notte come protagonista di sogni, pensieri, presenze.
Ho già scritto in passato di queste notti, ora quiete, immerse nelle indecifrabili ombre, ora di case, ora di stanze, dove lenzuoli e tendaggi appaiono come fantasmi metabolizzati, dove si muovono ricordi e si incollano alle finestre i simboli di una immaginazione che non prese il potere.
Notti con la costante delle presenze di borghi impossibili, con gli abeti a fare da coro, i rami come braccia protese, chinati a proteggere, coprire, accerchiare, chiese e campanili a virgola, quasi chagalliani, oppure a guidare su strade improbabili le macchine aliene con la faccia da “Balilla”, da “Topolino” o da cromatissime e barocche fuori serie : prototipo della versione 2000 del cocchio di Cenerentola.
Dal rosso acceso e rilucente di quelle holliwoodiane carrozzerie nacque per clonazione cromosomatica Pinocchio, tanto e presto famoso che Raffaele divenne Pinocchio Bartoli e non si riuscì più a comprendere se Raffaele fosse Pinocchio o Pinocchio vestisse, sotto mentite spoglie, i panni di Raffaele : quasi una riedizione aggiornata e corretta dell’Enrico IV pirandelliano.
Era un Pinocchio - scrissi anche questo nella occasione di una importante mostra bolognese - tra il metafisico e il surreale, completamente sganciato dal burattino di Collodi, torvo, contemporaneo, adulto e lontano dalla simpatica birba della storia inchiodata nella memoria della nostra infanzia.
Uno, nessuno, centomila, il personaggio di Bartoli suonava ora la corda civile, ora la corda pazza che abitano in noi, una provocazione stabile e permanente, un utensile di scasso per raccontare le maschere nude di un nuovo mondo di Pinocchi massificati.
E siamo all’oggi.
Pinocchio è uscito dalla comune.
Neppure Bartoli sa dove sia andato a finire.
Morto, rapito, suicida per le troppe responsabilità, in fuga verso un multimediale paese dei balocchi, in un Eden erotico con la fata Turchina ? Non si hanno notizie di lui da tempo.
Ogni tentativo di rintracciarlo è stato vano.
Non è servito neppure “Chi l’ha visto ?”.
Così Raffaele è tornato tra la sua gente.
Gironzolando per il suo quotidiano ha incontrato nuovi protagonisti da raccontare, da mettere in pittura.
Ma come scriveva di Bacon quel grande critico che è stato Carlo Giulio Argan, dopo averlo fatto Bartoli assiste da spettatore, non senza una vena di compiacimento e di traslato emozionale, al loro corrompersi.
L’ultima galleria dell’Artista non cataloga una serie di ritratti ma metabolizza visi noti dando loro un’anima pittorica.
Tra reperti di cubismo, radici di meccanica futurista e surrealista (impressionante a tale proposito il mixage fisionomico tra la pittrice, la benzinaia e la villeggiante con “Plus belle qu’une etoile”, opera di Robert Desnos del 1924), Bartoli mette in scena un teatro sottopelle di autentico grottesco in cui i personaggi sono investigati dal di dentro, vivono di segni particolari e di sintesi significante come i personaggi dello zoo di vetro di Tennessee Williams.
Valerio Grimaldi
E se il tempo è passato indubbiamente, come scriverebbe Pablo Neruda, il suo nomadismo estetico e culturale ha lasciato, alla distanza, segni e segnali profondi.
Come il reduce brechtiano, Bartoli torna sulle tracce percorse per confermare una storia a metà strada tra racconto e favola, tra realtà e commedia.
Ogni quadro si conferma un rutilante ballon d’essai gonfio di messaggi subliminali, difeso da cavalli di frisia che tagliano gambe alla noia accademica, ai copisti dell’ultima ora, alle retroguardie dei paesaggisti senza paesaggio.
E dire che i suoi primi lavori - tempere e acquerelli di cicisbea fattura, ricami frondosi di bradi pellegrinaggi in montagna, abbracci raffinatissimi al caramello naturale, paradisi artificiali di boschetti e macchie percorse da luci terse e acque tranquille con l’inevitabile ponticello, o casolare, a fare da palo al “misfatto” naturalistico - sembravano condannarlo alla maledizione dei Maestri “permanenti e stanziali” della zona : quella prigione figurale, dolce e protettiva, con il marchio doc del visto, piaciuto, venduto.
In questa gabbia dorata si sguazzava bene ed il salvadanaio rischiava di scoppiare.
E poi c’era la compagnia illustre delle vacanze a Monzuno di Bertocchi, di Giacomelli, di Ilario Rossi a cementare la convinzione che si poteva campare en plein air con poco rischio e una manciata di gloria locale sino alla stazione finale del vissero felici e contenti.
Ma il felice e contento Bartoli non poteva reggere.
La sua interiorità irsuta ed irrequieta non ha, infatti, sopportato a lungo la luce lancinante dei tramonti di mezza collina, il verde riposante di sottoboschi macchiaioli, i colori ambragiti degli autunni con le foglie che cadono, l’arcadia dei sentieri e delle casone perdute nella valle.
Arrivò così il notturno come habitat emozionale e la notte come protagonista di sogni, pensieri, presenze.
Ho già scritto in passato di queste notti, ora quiete, immerse nelle indecifrabili ombre, ora di case, ora di stanze, dove lenzuoli e tendaggi appaiono come fantasmi metabolizzati, dove si muovono ricordi e si incollano alle finestre i simboli di una immaginazione che non prese il potere.
Notti con la costante delle presenze di borghi impossibili, con gli abeti a fare da coro, i rami come braccia protese, chinati a proteggere, coprire, accerchiare, chiese e campanili a virgola, quasi chagalliani, oppure a guidare su strade improbabili le macchine aliene con la faccia da “Balilla”, da “Topolino” o da cromatissime e barocche fuori serie : prototipo della versione 2000 del cocchio di Cenerentola.
Dal rosso acceso e rilucente di quelle holliwoodiane carrozzerie nacque per clonazione cromosomatica Pinocchio, tanto e presto famoso che Raffaele divenne Pinocchio Bartoli e non si riuscì più a comprendere se Raffaele fosse Pinocchio o Pinocchio vestisse, sotto mentite spoglie, i panni di Raffaele : quasi una riedizione aggiornata e corretta dell’Enrico IV pirandelliano.
Era un Pinocchio - scrissi anche questo nella occasione di una importante mostra bolognese - tra il metafisico e il surreale, completamente sganciato dal burattino di Collodi, torvo, contemporaneo, adulto e lontano dalla simpatica birba della storia inchiodata nella memoria della nostra infanzia.
Uno, nessuno, centomila, il personaggio di Bartoli suonava ora la corda civile, ora la corda pazza che abitano in noi, una provocazione stabile e permanente, un utensile di scasso per raccontare le maschere nude di un nuovo mondo di Pinocchi massificati.
E siamo all’oggi.
Pinocchio è uscito dalla comune.
Neppure Bartoli sa dove sia andato a finire.
Morto, rapito, suicida per le troppe responsabilità, in fuga verso un multimediale paese dei balocchi, in un Eden erotico con la fata Turchina ? Non si hanno notizie di lui da tempo.
Ogni tentativo di rintracciarlo è stato vano.
Non è servito neppure “Chi l’ha visto ?”.
Così Raffaele è tornato tra la sua gente.
Gironzolando per il suo quotidiano ha incontrato nuovi protagonisti da raccontare, da mettere in pittura.
Ma come scriveva di Bacon quel grande critico che è stato Carlo Giulio Argan, dopo averlo fatto Bartoli assiste da spettatore, non senza una vena di compiacimento e di traslato emozionale, al loro corrompersi.
L’ultima galleria dell’Artista non cataloga una serie di ritratti ma metabolizza visi noti dando loro un’anima pittorica.
Tra reperti di cubismo, radici di meccanica futurista e surrealista (impressionante a tale proposito il mixage fisionomico tra la pittrice, la benzinaia e la villeggiante con “Plus belle qu’une etoile”, opera di Robert Desnos del 1924), Bartoli mette in scena un teatro sottopelle di autentico grottesco in cui i personaggi sono investigati dal di dentro, vivono di segni particolari e di sintesi significante come i personaggi dello zoo di vetro di Tennessee Williams.
Valerio Grimaldi
16
dicembre 2010
Raffaele Bartoli – L’afflato poetico
Dal 16 dicembre 2010 al 28 febbraio 2011
arte contemporanea
Location
BANCA SELLA
Ferrara, Via Dei Baluardi, 29, (Ferrara)
Ferrara, Via Dei Baluardi, 29, (Ferrara)
Orario di apertura
ore 9.00 - 15.00
Vernissage
16 Dicembre 2010, ore 18.00
Autore
Curatore