Sono incisioni, quelle di Remo Giatti, scritte nelle rocciose pareti dei suoi fogli dolomitici: pagine che potrebbero collocarsi tra le esperienze di quell’esistenziale “Antigrazioso” (come fin dal 1916 l’aveva chiamato Carlo Carrà in un suo dipinto altrimenti intitolato “Bambina” più tardi approfondito sui versanti più famosi di Jean Dubuffet).

Tutto questo da leggersi infatti nei segni delle impronte memorizzate e incise da Giatti nelle lastre metalliche da lui ideate ed impresse con singolare efficacia tecnica, ben al di là d’una mera bravura artigianale.

A caratterizzarne il linguaggio, con le innovanti manifestazioni del segno e del colore, si aggiungono fin dalle prime lastre, le morsure molto forti, ma sempre sottilmente intricate, intese a modellare le sue immagini fin dalle iniziali ricerche sulle forme minerali.

Giatti giunge così a coinvolgere il colore, per strati, tra il rosso ed il nero nei tramonti col riflesso della dolomia che affiora tra la neve sotto un grigio-verde rugginoso della montagna immersa in una luce irreale lasciando affiorare una struttura montana in grado di misurarsi con le incombenti intonazioni dei cieli.
Angelo Dragone