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Renato Fascetti – Territori clandestini
Solo un artista di straordinario potere espressivo, con esperienze linguistiche di grande impegno e profondi spiriti innovativi nel quadro dell’avanguardia continentale, poteva con questa tragica allegoria dedicare il suo potenziale inventivo a una avventura di dèrapage così “sportiva”, divertita e
Comunicato stampa
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Renato Fascetti: un “dérapage” giocoso della crudeltà
In queste “boites” a comparti rigidi severamente squadrati (vere celle geometriche molto costruttive) lo stato naturale è il disordine.
E’ appunto questo contrasto senza dialettica a produrre sconcerto e sorpresa, ai limiti di un doloroso stupore.
Un lieve disagio mette lo spettatore di questo teatrino in una dimensione di spaesamento che sfiora l’angoscia, proprio perché la contiguità fra l’esattezza e il caos introduce a una condizione di inquietudine non disciplinabile. Ciò vuol dire che sull’inerzia normativa e monocromatica delle celle vuote la vince l’anarchia dinamica dei listelli disposti in modalità diversificate fino all’intreccio a grate, perdipiù caricati di responsabilità cromatiche che ne implementano ulteriormente il ruolo virale.
Sì, perché questi legnetti sono certamente portatori di agenti patogeni: e – come spesso accade in quella misteriosa malattia che chiamiamo arte – presentano una capacità di mutazione davvero stupefacente.
La memoria oculare, di fronte al loro geniale capriccio assemblativo e insieme dissociativo intriso di luce colorata, di ombre tenui, di esplosioni vivide, di timidezza apparenti qin realtà terribilmente sfrontate, va da elementari oggetti d’uso (le bacchettine da pranzo cinesi, gli aliossi) a grandi emblemi del senso raffigurativo del mondo (l’uccellasca Battaglia di San Romano, con la sua raggelata selva di lance): e ne resta bloccata.
Il gusto lucido che a prima botta sembra animare questo gioco acceso da una libertà senza vincoli, a una lettura immediatamente seconda si tramuta di colpo nella certezza che l’artista è assolutamente consapevole di compiere un gesto di crudeltà reiterata. Il piacere “spensierato” si rovescia in enigma carcerario, la scenografia del micro spettacolo si trasforma in quella di un rituale sarcastico che sposta in continuazione, in misura minimale e per ciò stesso più sottilmente dangereuse, i rapporti inchiodati degli infiniti elementi partecipi di questa fiera del caos.
Anche al di là della bellezza coloristica che esalta come mobili animali di diversa pelliccia gli infiniti listelli costretti al branco malgrado l’evidente, febbrile pulsione individuale, il colpo d’intelligenza di questa seria di “oggetti” che dell’artificialità fanno il loro sangue fluido, è l’alternarsi delle celle vuote (grigie, bianche, rosse, azzurre,gialle) in una fantasmagoria dell’eccesso ossessivamente, eppure quasi distrattamente, impegnato a uscire fuori da sé. C’è in essi un quid di orientale deprivato di qualsiasi liturgia dell’immobilità.
E’ l’allusione a un paradiso perduto che in realtà non c’è mai stato; e la coscienza dell’irrisolvibile contraddizione del reale in termini di fur ewig. Ogni listello esibisce uno spettro cromatico “selvaggio” destinato a sparigliare comunque la linearità dell’insieme. Qui, davvero, la matematica non è un’opinione, è un’immagine e al tempo stesso un metodo di de/composizione del tutto ridotto a funzione disperatamente correttiva della catastrofe. Solo un artista di straordinario potere espressivo, che ha al suo attivo esperienze linguistiche di grande impegno e profondi spiriti innovativi nel quadro dell’avanguardia continentale, poteva con questa tragica allegoria dedicare il suo potenziale inventivo a una avventura di dèrapage così “sportiva”, divertita e feroce. Già: perché la trasparente ilarità che alita da queste scatole convive rissosamente con una sensazione acuta di lutto. La felicità degli squilibri allude a una voragine invisibile. Ecco che allora, alla fine, questa impresa di fascetti in cui l’effetto V appare determinante come in tutte le vacanze rischiose, prospetta dentro la sua Gaia Scienza il vuoto fantasma del nulla.
Mario Lunetta
In queste “boites” a comparti rigidi severamente squadrati (vere celle geometriche molto costruttive) lo stato naturale è il disordine.
E’ appunto questo contrasto senza dialettica a produrre sconcerto e sorpresa, ai limiti di un doloroso stupore.
Un lieve disagio mette lo spettatore di questo teatrino in una dimensione di spaesamento che sfiora l’angoscia, proprio perché la contiguità fra l’esattezza e il caos introduce a una condizione di inquietudine non disciplinabile. Ciò vuol dire che sull’inerzia normativa e monocromatica delle celle vuote la vince l’anarchia dinamica dei listelli disposti in modalità diversificate fino all’intreccio a grate, perdipiù caricati di responsabilità cromatiche che ne implementano ulteriormente il ruolo virale.
Sì, perché questi legnetti sono certamente portatori di agenti patogeni: e – come spesso accade in quella misteriosa malattia che chiamiamo arte – presentano una capacità di mutazione davvero stupefacente.
La memoria oculare, di fronte al loro geniale capriccio assemblativo e insieme dissociativo intriso di luce colorata, di ombre tenui, di esplosioni vivide, di timidezza apparenti qin realtà terribilmente sfrontate, va da elementari oggetti d’uso (le bacchettine da pranzo cinesi, gli aliossi) a grandi emblemi del senso raffigurativo del mondo (l’uccellasca Battaglia di San Romano, con la sua raggelata selva di lance): e ne resta bloccata.
Il gusto lucido che a prima botta sembra animare questo gioco acceso da una libertà senza vincoli, a una lettura immediatamente seconda si tramuta di colpo nella certezza che l’artista è assolutamente consapevole di compiere un gesto di crudeltà reiterata. Il piacere “spensierato” si rovescia in enigma carcerario, la scenografia del micro spettacolo si trasforma in quella di un rituale sarcastico che sposta in continuazione, in misura minimale e per ciò stesso più sottilmente dangereuse, i rapporti inchiodati degli infiniti elementi partecipi di questa fiera del caos.
Anche al di là della bellezza coloristica che esalta come mobili animali di diversa pelliccia gli infiniti listelli costretti al branco malgrado l’evidente, febbrile pulsione individuale, il colpo d’intelligenza di questa seria di “oggetti” che dell’artificialità fanno il loro sangue fluido, è l’alternarsi delle celle vuote (grigie, bianche, rosse, azzurre,gialle) in una fantasmagoria dell’eccesso ossessivamente, eppure quasi distrattamente, impegnato a uscire fuori da sé. C’è in essi un quid di orientale deprivato di qualsiasi liturgia dell’immobilità.
E’ l’allusione a un paradiso perduto che in realtà non c’è mai stato; e la coscienza dell’irrisolvibile contraddizione del reale in termini di fur ewig. Ogni listello esibisce uno spettro cromatico “selvaggio” destinato a sparigliare comunque la linearità dell’insieme. Qui, davvero, la matematica non è un’opinione, è un’immagine e al tempo stesso un metodo di de/composizione del tutto ridotto a funzione disperatamente correttiva della catastrofe. Solo un artista di straordinario potere espressivo, che ha al suo attivo esperienze linguistiche di grande impegno e profondi spiriti innovativi nel quadro dell’avanguardia continentale, poteva con questa tragica allegoria dedicare il suo potenziale inventivo a una avventura di dèrapage così “sportiva”, divertita e feroce. Già: perché la trasparente ilarità che alita da queste scatole convive rissosamente con una sensazione acuta di lutto. La felicità degli squilibri allude a una voragine invisibile. Ecco che allora, alla fine, questa impresa di fascetti in cui l’effetto V appare determinante come in tutte le vacanze rischiose, prospetta dentro la sua Gaia Scienza il vuoto fantasma del nulla.
Mario Lunetta
28
maggio 2010
Renato Fascetti – Territori clandestini
Dal 28 maggio al 12 giugno 2010
arte contemporanea
Location
GALLERIA LE OPERE
Roma, Via Di Monte Giordano, 27, (Roma)
Roma, Via Di Monte Giordano, 27, (Roma)
Orario di apertura
gio-sab - 16.30/20.00
Vernissage
28 Maggio 2010, ore 18.30
Autore