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Rinaldo Fantin / Gian Franco Ronzoni
La polarità che abbiamo voluto vedere in questa proposta di “coppia” pittorica è polarità che attiene al gesto, al momento generativo dell’azione pittorica, a volerla dire in altri termini al modo in cui l’artista si pone di fronte alla tela, in cui gestisce i colori, le linee.
Comunicato stampa
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Che poi è il modo in cui egli immagina la pittura, perché lasciar dilagare un colore è ben diverso dallo sforzo di controllarlo, pensare e modificare un segno è ben diverso dall'affidarsi al gesto. E risalendo all'indietro la differenza attiene al modo stesso di concepire l'arte, da un lato come ricamo, cura del dettaglio, fondamentalmente controllo, dall'altro come gesto primario, istintivo, immediato.
La pittura di Rinaldo Fantin va alla ricerca di un gesto ingenuo, di una innocenza artistica, ovvero di un luogo del fare arte in cui vi sia modo di trovare una genuinità originaria. Vi si arriva per sottrazione, togliendo via via quanto di artificioso, di imitativo, di accademico impasta ancora la nostra tecnica e riducendo pian piano la tecnica stessa a gesto. Da qui la sua attrazione, il suo interesse per esperimenti ben noti di pittura sperimentale e improvvisata, da Pollock all'esperienza Gutai degli anni '60. E' una pittura in cui conta il gesto, o meglio l'immediatezza del gesto, il suo slancio che non permette ripensamenti ed esitazioni. All'estremo una tela grande, una danza dell'artista che sparge macchie, schizzi, versa direttamente dal barattolo i colori che lo affascinano senza curarsi di cosa avverrà di loro, di dove li può portare la forza di gravità o di cosa nascerà dalle mescolanze delle tinte. L'opera d'arte sta fuori dall'artista, è nelle cose e nei suoi gesti ed egli è semmai veicolo di questa nascita miracolosa. Che poi vi sia grande sapienza nella preparazione, nel gesto, nell'invenzione non andrà negato, ma resta primario il gesto: il colore appena abbandona il barattolo non è più del pittore, entra in un mondo altro in cui semmai a posteriori il pittore stesso andrà a riconoscere suggestioni, soluzioni inattese.
Fantin opera una seconda regressione, una regressione al quadrato verrebbe da dire, perchè attinge al mondo dei bambini, chiede ai più piccoli di lanciare il colore e di esprimere nel gesto il colori che sono nella loro mente, a bicchierate, a impronte, purché vi sia una istintività che sola riporta a una verità priva di artificio. Colore libero, espressione libera, umiltà di riconoscersi nel risultato prima che nell'intenzione. Ed eccolo allora a organizzare improbabili laboratori di pittura negli asili: un nylon, delle tele, bicchieri di colore e bambini che sguazzano felici, sotto gli occhi forse meno felici di mamme e maestre. E non serve molta fantasia per immaginare l'emozione del bambino che si scopre capace di colorare il mondo, o di rubare i colori al mondo per ridistribuirli, lasciandoli passare dentro di sé, fra le dita, sotto i piedi.
Anche per la sua produzione più personale, almeno una buona parte, Fantin ha deciso di affondare le radici in questo mondo affascinante dell'arte ingenua, magari su un altro versante. Ancora una volta i bambini, ma questa volta i disegni dei più piccoli, quei quaderni in cui le case sono poco più di un pentagono sghembo, le persone sono fatte di linee oblunghe e le proporzioni sono prima emozionali che geometriche. E' proprio partendo da questi "sgorbi", da questi esperimenti di ricomposizione del mondo fatti dal bambino, che Fantin produce la propria pittura. Senza tradire le linee aeree poco verosimili, l'affastellarsi delle cose, la deformazione di chi scopre il mondo, l'artista aggiunge semmai il colore, porta a compimento uno stupore dando dignità a quella che è una intuizione primaria. Anche qui facendosi servitore di una intuizione, debitore grato a chi questa intuizione fa riemergere dal profondo di noi restituendola alle pesanti sovrastrutture di questi poveri adulti che ci ritroviamo ad essere.
Una volontà di esserci nel quadro, di dominare l'espandersi delle forme e di essere padrone delle tinte, dei toni, di gestire le sfumature fin nei dettagli è al lato opposto la cifra di Gianfranco Ronzoni che parte nelle sue opere dal reale, ben riconoscibile nei quadri sotto le sembianze di fiori, paesaggi, prati, stagioni. Macchie anche qui, vien da dire, ma macchie sapienti questa volta, aloni di acquerello e acrilico che solo all'apparenza si distendono e si lasciano assorbire dalla carta ma che risultano invece guidati sempre, frenati, dosati da chi ha in mente un risultato preciso. Macchie lo stesso, certo, ma non buttate lì, non giocate sull'improvvisazione bensì organizzate in modo da creare un discorso che preesiste al gesto creativo. Ad ascoltare Ronzoni nel suo laboratorio, davanti alle sue tele, colpisce lo sforzo insistito di raccontare un concetto, un significato, una volontà di dire attraverso le figure, prima ancora che le figure invadano la tela. Lo conferma l'assenza pressochè totale di contrasti cromatici netti, dia quelle giustapposizioni di pigmenti che forse sono il segno di uno slancio e di una immediatezza gestuale e non mediata. Qui domina la tecnica dell'alone, della sfumatura, per cui ogni cosa si dissolve nell'altra, ogni oggetto è assorbito nel tutto, lentamente e sapientemente impastato per restituire una composizione. Composizione è forse la parola chiave, cioè lo sforzo di far stare vicino, di conciliare le cose laddove la gestualità istintiva sovrappone tono a tono, macchia a macchia con nettezza e decisione di contorni. Colori in abbondanza, e luce che attraversa le cose senza esserne ostacolata, capace di restituire la vitalità piena dei prati e degli alberi, questo interessa l'artista teso a cogliere la catena di sensazioni, impressioni, emozioni che derivano da fuori e a mediarle in un gesto che le restituisca alla tela esaltate e ricomposte. Un ruolo del pittore che è decisamente protagonista meditativo, giudice di un equilibrio in cui le cose devono stare, seguendo un discorso che le precede e che le abbraccia. Le cose, anzi, possono regredire a macchia, a profilo confuso perché vi è un processo artistico preciso che le metabolizza, le trasfigura in nome di un discorso altro dalle cose stesse, a volte un discorso di sottile polemica, altre volte più decisamente lirico e poetico.
Lo stesso processo "controllato" di composizione lo si coglie con facilità nelle opere scultoree: anche qui l'affollarsi di corpi non è soggetto al caso, all'accostamento immediato e originario ma risponde piuttosto ad un disegno preciso, procede per tentativi, per bozzetti, fino a giungere ancora una volta alla conciliazione, alla composizione appunto, in cui il lavoro dell'artista si articola in interventi precisi, lenti, consapevoli. Corpi intrecciati, fusi ma non confusi, perché domina su tutto la consapevolezza dell'artista che non si affida al caso ma confida nella sua capacità di vedere e ricreare. Confida, in definitiva, nella propria intenzione piuttosto che nell'accostarsi casuale delle cose.
Due approcci così diversi, davvero, così antitetici per tanti aspetti al punto da parere inconciliabili. Eppure entrambi arte, se arte è lo sforzo di stupirsi, agire, pensare davanti alle cose, capacità di fare domande e dare/trovare qualche incerta risposta fatta di linee e colori, gesti e tentativi.
Paolo Venti
La pittura di Rinaldo Fantin va alla ricerca di un gesto ingenuo, di una innocenza artistica, ovvero di un luogo del fare arte in cui vi sia modo di trovare una genuinità originaria. Vi si arriva per sottrazione, togliendo via via quanto di artificioso, di imitativo, di accademico impasta ancora la nostra tecnica e riducendo pian piano la tecnica stessa a gesto. Da qui la sua attrazione, il suo interesse per esperimenti ben noti di pittura sperimentale e improvvisata, da Pollock all'esperienza Gutai degli anni '60. E' una pittura in cui conta il gesto, o meglio l'immediatezza del gesto, il suo slancio che non permette ripensamenti ed esitazioni. All'estremo una tela grande, una danza dell'artista che sparge macchie, schizzi, versa direttamente dal barattolo i colori che lo affascinano senza curarsi di cosa avverrà di loro, di dove li può portare la forza di gravità o di cosa nascerà dalle mescolanze delle tinte. L'opera d'arte sta fuori dall'artista, è nelle cose e nei suoi gesti ed egli è semmai veicolo di questa nascita miracolosa. Che poi vi sia grande sapienza nella preparazione, nel gesto, nell'invenzione non andrà negato, ma resta primario il gesto: il colore appena abbandona il barattolo non è più del pittore, entra in un mondo altro in cui semmai a posteriori il pittore stesso andrà a riconoscere suggestioni, soluzioni inattese.
Fantin opera una seconda regressione, una regressione al quadrato verrebbe da dire, perchè attinge al mondo dei bambini, chiede ai più piccoli di lanciare il colore e di esprimere nel gesto il colori che sono nella loro mente, a bicchierate, a impronte, purché vi sia una istintività che sola riporta a una verità priva di artificio. Colore libero, espressione libera, umiltà di riconoscersi nel risultato prima che nell'intenzione. Ed eccolo allora a organizzare improbabili laboratori di pittura negli asili: un nylon, delle tele, bicchieri di colore e bambini che sguazzano felici, sotto gli occhi forse meno felici di mamme e maestre. E non serve molta fantasia per immaginare l'emozione del bambino che si scopre capace di colorare il mondo, o di rubare i colori al mondo per ridistribuirli, lasciandoli passare dentro di sé, fra le dita, sotto i piedi.
Anche per la sua produzione più personale, almeno una buona parte, Fantin ha deciso di affondare le radici in questo mondo affascinante dell'arte ingenua, magari su un altro versante. Ancora una volta i bambini, ma questa volta i disegni dei più piccoli, quei quaderni in cui le case sono poco più di un pentagono sghembo, le persone sono fatte di linee oblunghe e le proporzioni sono prima emozionali che geometriche. E' proprio partendo da questi "sgorbi", da questi esperimenti di ricomposizione del mondo fatti dal bambino, che Fantin produce la propria pittura. Senza tradire le linee aeree poco verosimili, l'affastellarsi delle cose, la deformazione di chi scopre il mondo, l'artista aggiunge semmai il colore, porta a compimento uno stupore dando dignità a quella che è una intuizione primaria. Anche qui facendosi servitore di una intuizione, debitore grato a chi questa intuizione fa riemergere dal profondo di noi restituendola alle pesanti sovrastrutture di questi poveri adulti che ci ritroviamo ad essere.
Una volontà di esserci nel quadro, di dominare l'espandersi delle forme e di essere padrone delle tinte, dei toni, di gestire le sfumature fin nei dettagli è al lato opposto la cifra di Gianfranco Ronzoni che parte nelle sue opere dal reale, ben riconoscibile nei quadri sotto le sembianze di fiori, paesaggi, prati, stagioni. Macchie anche qui, vien da dire, ma macchie sapienti questa volta, aloni di acquerello e acrilico che solo all'apparenza si distendono e si lasciano assorbire dalla carta ma che risultano invece guidati sempre, frenati, dosati da chi ha in mente un risultato preciso. Macchie lo stesso, certo, ma non buttate lì, non giocate sull'improvvisazione bensì organizzate in modo da creare un discorso che preesiste al gesto creativo. Ad ascoltare Ronzoni nel suo laboratorio, davanti alle sue tele, colpisce lo sforzo insistito di raccontare un concetto, un significato, una volontà di dire attraverso le figure, prima ancora che le figure invadano la tela. Lo conferma l'assenza pressochè totale di contrasti cromatici netti, dia quelle giustapposizioni di pigmenti che forse sono il segno di uno slancio e di una immediatezza gestuale e non mediata. Qui domina la tecnica dell'alone, della sfumatura, per cui ogni cosa si dissolve nell'altra, ogni oggetto è assorbito nel tutto, lentamente e sapientemente impastato per restituire una composizione. Composizione è forse la parola chiave, cioè lo sforzo di far stare vicino, di conciliare le cose laddove la gestualità istintiva sovrappone tono a tono, macchia a macchia con nettezza e decisione di contorni. Colori in abbondanza, e luce che attraversa le cose senza esserne ostacolata, capace di restituire la vitalità piena dei prati e degli alberi, questo interessa l'artista teso a cogliere la catena di sensazioni, impressioni, emozioni che derivano da fuori e a mediarle in un gesto che le restituisca alla tela esaltate e ricomposte. Un ruolo del pittore che è decisamente protagonista meditativo, giudice di un equilibrio in cui le cose devono stare, seguendo un discorso che le precede e che le abbraccia. Le cose, anzi, possono regredire a macchia, a profilo confuso perché vi è un processo artistico preciso che le metabolizza, le trasfigura in nome di un discorso altro dalle cose stesse, a volte un discorso di sottile polemica, altre volte più decisamente lirico e poetico.
Lo stesso processo "controllato" di composizione lo si coglie con facilità nelle opere scultoree: anche qui l'affollarsi di corpi non è soggetto al caso, all'accostamento immediato e originario ma risponde piuttosto ad un disegno preciso, procede per tentativi, per bozzetti, fino a giungere ancora una volta alla conciliazione, alla composizione appunto, in cui il lavoro dell'artista si articola in interventi precisi, lenti, consapevoli. Corpi intrecciati, fusi ma non confusi, perché domina su tutto la consapevolezza dell'artista che non si affida al caso ma confida nella sua capacità di vedere e ricreare. Confida, in definitiva, nella propria intenzione piuttosto che nell'accostarsi casuale delle cose.
Due approcci così diversi, davvero, così antitetici per tanti aspetti al punto da parere inconciliabili. Eppure entrambi arte, se arte è lo sforzo di stupirsi, agire, pensare davanti alle cose, capacità di fare domande e dare/trovare qualche incerta risposta fatta di linee e colori, gesti e tentativi.
Paolo Venti
16
aprile 2011
Rinaldo Fantin / Gian Franco Ronzoni
Dal 16 al 30 aprile 2011
arte contemporanea
Location
CENTRO CULTURALE ALDO MORO
Cordenons, Via Traversagna, 4, (Pordenone)
Cordenons, Via Traversagna, 4, (Pordenone)
Orario di apertura
dal lunedì al sabato ore 16 - 23
Vernissage
16 Aprile 2011, ore 18
Autore
Curatore