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ROBERTO SOLOMITA / ANNA MONTEBUGNOLI – LE ETÀ DELLA VIOLENZA
Come ha insegnato Foucault, nel suo studio classico sulla storia della detenzione, “Sorvegliare e punire”, nel corso del XIX secolo le esecuzioni capitali tendono a scomparire dalla scena pubblica e a ritirarsi in luoghi esclusi.
Comunicato stampa
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Il problema della rappresentazione della sofferenza è un tema ricorrente, che percorre i dibattiti culturali, politici, artistici ogni qualvolta si presenti il dilemma che si accompagna sempre alla dimensione pubblica di un’immagine del dolore – in particolare quando si tratti di un’immagine fotografica, la cui impronta “reale” sembra sottendere inevitabilmente l’etica della sua riproduzione. La questione ruota, cioè, attorno a un dubbio insolubile: può questa immagine svolgere una funzione paideutica, di educazione all’empatia, di denuncia politica e sociale, o piuttosto essa non implica necessariamente una sorta di voyeurismo, lo sfruttamento del “dolore degli altri” (Sontag)?
La domanda, ancora più pressante, diventa allora se sia possibile guardare queste immagini senza occupare il posto del pubblico per cui la scena era stata concepita e ordinata; se, cioè, l’osservazione non sia qui già complicità.
Rispetto a questo quadro, la mostra si propone come un tentativo di spostare il punto di osservazione: non uno sguardo diretto sull’oggetto della rappresentazione, che ne interroga la dimensione morale, ma una visione “laterale” sulla costruzione della rappresentazione e i modi in cui essa a sua volta costruisce i suoi oggetti. Uno sguardo critico, articolato in due fasi, che corrispondono a due momenti, due età della violenza.
Da una parte, lo studio della forma specifica dello spettacolo penale nell’epoca della fotografia, di contro alla discussione dei caratteri generici delle immagini della violenza: uno studio che permette di sottrarre i soggetti tanto all’astrazione del simbolo che all’immediatezza della registrazione “fisica”, restituendo la singolarità delle loro vicende attraverso l’esplicitazione delle operazioni giuridiche, sociali, politiche in virtù delle quali l’apparato punitivo trasforma gli individui in condannati. Dall’altra, una riflessione sugli spostamenti e le formulazioni immaginarie a cui la violenza (la sua rappresentazione, ma anche la sua rimozione) è andata incontro nell’epoca successiva alla estromissione della pena dalla sfera pubblica.
Un doppio lavoro critico la cui ricerca estetica si snoda lungo due serie di immagini:
1. Le immagini “archeologiche” di esecuzioni capitali, poste dentro una teca, il cui accostamento e la cui manipolazione permettono di esaminare le torsioni che lo schema dello spettacolo punitivo subisce nel momento in cui la sua dimensione pubblica è delegata alla fotografia: il processo di elaborazione dello scatto, che viene estratto dal contesto giuridico e penale in cui è preso per convertirsi nella forma giornalistica della sua fruizione pubblica. Sono proprio i movimenti di macchina e i tagli che permettono di fermare lo sguardo sui dettagli, sugli oggetti che transitano da una fotografia all’altra come tracce materiali e indizi in grado di aprire al tempo dell’investigazione e della prove.
2. Le staged photos, nelle quali l’analisi estetica si declina come uno studio delle formule immaginarie in cui la violenza, i suoi modi, le sue rappresentazioni si sono dislocate e fissate nell’epoca della “dolcezza delle pene” (Foucault). Il rilievo dei residui, delle concrezioni delle forme della violenza passa qui per un procedimento opposto rispetto a quello delle immagini della prima serie – un procedimento, per così dire, anti-archeologico: attraverso la decontestualizzazione, l’estrazione di figure e oggetti dalle circostanze in cui si sono prodotti; attraverso lo straniamento che scaturisce dalla sovrapposizione incongrua di luoghi e oggetti, che perdono lo statuto di tracce e indizi per diventare indici di uno spostamento (fisico prima ancora che culturale) e di una latenza (sulla superficie della quotidianità prima ancora che nella profondità dell’inconscio), di una violenza che ora si sottrae alla rappresentazione.
Si tratta, in entrambi i casi, di restituire il “senso” di queste immagini. E il senso, come insegna Deleuze nella sua Logica, insiste sempre sulla linea che divide e articola due serie. Esso, cioè, si produce e resta in movimento nello spazio aperto dalla differenza, dalla difformità che il loro accostamento rende visibile. È dunque sotto la direzione di questa regia deleuziana che la mostra è concepita: come una ricerca non delle similarità e delle corrispondenze ma dei punti di scarto, nelle opposizioni tra le due serie di immagini e dentro ciascuna serie.
La domanda, ancora più pressante, diventa allora se sia possibile guardare queste immagini senza occupare il posto del pubblico per cui la scena era stata concepita e ordinata; se, cioè, l’osservazione non sia qui già complicità.
Rispetto a questo quadro, la mostra si propone come un tentativo di spostare il punto di osservazione: non uno sguardo diretto sull’oggetto della rappresentazione, che ne interroga la dimensione morale, ma una visione “laterale” sulla costruzione della rappresentazione e i modi in cui essa a sua volta costruisce i suoi oggetti. Uno sguardo critico, articolato in due fasi, che corrispondono a due momenti, due età della violenza.
Da una parte, lo studio della forma specifica dello spettacolo penale nell’epoca della fotografia, di contro alla discussione dei caratteri generici delle immagini della violenza: uno studio che permette di sottrarre i soggetti tanto all’astrazione del simbolo che all’immediatezza della registrazione “fisica”, restituendo la singolarità delle loro vicende attraverso l’esplicitazione delle operazioni giuridiche, sociali, politiche in virtù delle quali l’apparato punitivo trasforma gli individui in condannati. Dall’altra, una riflessione sugli spostamenti e le formulazioni immaginarie a cui la violenza (la sua rappresentazione, ma anche la sua rimozione) è andata incontro nell’epoca successiva alla estromissione della pena dalla sfera pubblica.
Un doppio lavoro critico la cui ricerca estetica si snoda lungo due serie di immagini:
1. Le immagini “archeologiche” di esecuzioni capitali, poste dentro una teca, il cui accostamento e la cui manipolazione permettono di esaminare le torsioni che lo schema dello spettacolo punitivo subisce nel momento in cui la sua dimensione pubblica è delegata alla fotografia: il processo di elaborazione dello scatto, che viene estratto dal contesto giuridico e penale in cui è preso per convertirsi nella forma giornalistica della sua fruizione pubblica. Sono proprio i movimenti di macchina e i tagli che permettono di fermare lo sguardo sui dettagli, sugli oggetti che transitano da una fotografia all’altra come tracce materiali e indizi in grado di aprire al tempo dell’investigazione e della prove.
2. Le staged photos, nelle quali l’analisi estetica si declina come uno studio delle formule immaginarie in cui la violenza, i suoi modi, le sue rappresentazioni si sono dislocate e fissate nell’epoca della “dolcezza delle pene” (Foucault). Il rilievo dei residui, delle concrezioni delle forme della violenza passa qui per un procedimento opposto rispetto a quello delle immagini della prima serie – un procedimento, per così dire, anti-archeologico: attraverso la decontestualizzazione, l’estrazione di figure e oggetti dalle circostanze in cui si sono prodotti; attraverso lo straniamento che scaturisce dalla sovrapposizione incongrua di luoghi e oggetti, che perdono lo statuto di tracce e indizi per diventare indici di uno spostamento (fisico prima ancora che culturale) e di una latenza (sulla superficie della quotidianità prima ancora che nella profondità dell’inconscio), di una violenza che ora si sottrae alla rappresentazione.
Si tratta, in entrambi i casi, di restituire il “senso” di queste immagini. E il senso, come insegna Deleuze nella sua Logica, insiste sempre sulla linea che divide e articola due serie. Esso, cioè, si produce e resta in movimento nello spazio aperto dalla differenza, dalla difformità che il loro accostamento rende visibile. È dunque sotto la direzione di questa regia deleuziana che la mostra è concepita: come una ricerca non delle similarità e delle corrispondenze ma dei punti di scarto, nelle opposizioni tra le due serie di immagini e dentro ciascuna serie.
18
novembre 2023
ROBERTO SOLOMITA / ANNA MONTEBUGNOLI – LE ETÀ DELLA VIOLENZA
Dal 18 novembre al 10 dicembre 2023
fotografia
Location
GATE 26A
Modena, Via Carteria, 26A, (Modena)
Modena, Via Carteria, 26A, (Modena)
Orario di apertura
Orari
Sabato e domenica ore 17.00 – 20.00.
Negli altri giorni su appuntamento.
Vernissage
18 Novembre 2023, 18.00
Autore
Autore testo critico
Progetto grafico
Patrocini