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Roberto Zizzo
Avvalendosi delle infinite possibilità combinatorie e di variazione, sfumatura dei toni, rimpicciolimento ed ingrandimento offerte dalla tavolozza tecnologica, autentica protesi della manualità, Zizzo realizza composizioni di varia natura, con fertile ispirazione.
Comunicato stampa
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Diretta verso un’analisi delle mutazioni del corpo prodotte, o producibili, dalle nuove frontiere della ricerca biologica abbinata alla tecnologia, senza che venga meno, in lui, un attaccamento alle radici umaniste della nostra cultura, dove la figura umana è pur sempre il fulcro della composizione, da cui tutto si dipana. L’artista realizza quindi composizioni di grande impatto visivo, senza peraltro mai correre il rischio di un sensazionalismo fine a sé stesso, creando immagini astratte, in cui, ad esempio, i crani si fondono fino ad assumere un rilievo formale indistinto, oppure icone di più marcata evidenza figurativa. Come nel caso di questo “Trittico della crocifissione”, studiato appositamente per lo spazio del Fiorile.
Roberto Zizzo
Nell’ambito delle lezioni del mio corso di “Teoria e metodologia del contemporaneo”, affronto temi relativi ad un periodo per certi aspetti sintonico al nostro presente, quello degli anni ’50, caratterizzato da una forte e decisa consapevolezza del ruolo che poteva giocare la crescente automazione dei processi produttivi, e il graduale potenziamento degli strumenti comunicativi e di riproduzione tecnica, al fine di allargare e diffondere la fruizione artistica ed il conseguente livello di “esteticizzazione” della società. Dopo la disillusione, assai intensa ma limitata nel tempo, dell’immediato secondo dopoguerra, in cui gli immani sfaceli dei tragici eventi appena conclusi avevano fatto perdere agli artisti la fiducia nell’utopia salvifica dell’arte e nei progetti collettivi, la rapida ricostruzione ed il conseguente rinnovato sviluppo tecnologico avevano immediatamente destato nuovi entusiasmi, non privi, però, di una precisa e coerente consapevolezza politica. Si entrava in un clima di avanguardia “normalizzata” nell’accezione di maggiormente allargata e non più appannaggio di ristrette elites, come era stato per le avanguardie storiche primo novecentesche. Nella prima metà del secolo alcuni lungimiranti intellettuali avevano intuito la necessità di piegare il progresso tecnico al servizio della creatività, per consentire una democraticizzazione della stessa e questo spesso da posizioni opposte ma, nelle conclusioni, sostanzialmente convergenti, come nel caso di Martinetti e Benjamin. Negli anni ’50 il dibattito si allarga e diventa centrale all’interno dei segmenti più avanzati dell’avanguardia europea. Personaggi come Pinot Gallizio, Asger Jorn, teorie come l’Urbanistica Unitaria di Constant, pongono l’accento sul nuovo ruolo sociale dell’artista come attore dei processi di riqualificazione ambientale e sulla necessità di far perdere all’arte il suo valore di feticcio commerciale di lusso usando la tecnologia per esprimere una carica di “libera energia antieconomica”. Posizioni che convergono e si radicalizzano all’interno del Situazionismo di Guy Debord, dove si giunge a predicare addirittura la negazione stessa del concetto di arte in quanto oggetto, quindi entità distaccata dal reale, per approdare ad una società dove i concetti di arte, vita, gioco e lavoro si annullino nel flusso vitale delle “situazioni”. Queste profetiche considerazioni sono divenute di estrema attualità negli ultimi vent’anni, caratterizzati dall’ingresso pieno nella società postindustriale dominata dalla telematica, con un conseguente ampliamento di quella fascia di tempo libero già preconizzato in passato, ed un esponenziale allargamento della base artistica e, più in generale, di coloro che si cimentano in professioni, spesso inedite, legate agli ambiti, un tempo circoscritti, della cultura e delle arti. Tralasciando, in questo caso, analisi relative al sistema dell’arte, non si può non riscontrare come non sia certo venuta meno, nella maggioranza dei casi, una ricerca talvolta ossessiva e teatrale del raggiungimento del successo commerciale e di una visibilità sempre più ardua in un panorama dove quantomeno mensilmente vengono propinate, e mi limito all’Italia, decine di nuove proposte . Una più ampia penetrazione dell’arte nel tessuto sociale ed ambientale, agevolata dall’uso della fotografia, del video, delle tecnologie digitali, è certamente iniziata e va comunque seguita ed incoraggiata nel suo evolversi. Queste, in sintesi, le caratteristiche in cui si trovano ad agire e ad operare gli artisti all’interno dello scenario della contemporaneità, ed è uno scenario al quale è arduo sottrarsi pena la marginalizzazione della poetica nei territori di un autoreferenziale intimismo, anche se ciò non significa necessariamente accodarsi alla tendenza del momento. Roberto Zizzo innesta la sua poetica nel centro di queste contraddizioni, in questo panorama così frammentato nella sua apparente aspirazione all’omogeneità, eppure non privo, in molti casi, di una positiva carica di vitalità. Quella di Zizzo, sin dall’inizio, può essere definita una linea espressiva tendente a cogliere l’unitarietà a partire dalla simbologia del frammento esemplare, tramite cui si può ristabilire l’armonia dell’insieme nella sua essenza circolare, nel dialogo tra interno ed esterno. I lavori di qualche anno fa prediligevano la linea installativo – scultorea, in cui sagome umane allungate ed asciutte, a metà tra simbologie ancestrali e rigori anatomici manieristi, si disseminavano sulla superficie parietale od al suolo, membra sparse in cui l’identità assumeva una dimensione cangiante al limite dell’astratto, della fusione con la materia. La poetica del corpo, elemento centrale dell’avanguardia novecentesca, tornato di prepotente attualità all’oggi, è stata sempre quindi presente nel lavoro di Roberto Zizzo. Nell’ultima fase l’artista, per esprimerla con fare maggiormente sintetico ed iconograficamente incisivo, si è avvalso di un uso intelligente delle nuove tecnologie, adoperate nella loro funzione primaria di protesi atte a migliorare le facoltà sensoriali e manuali dell’uomo. Le opere recenti di Roberto Zizzo si presentano corroborate da un opportuno livello di dissacrante ironia, ponendosi obliquamente al confine tra dimensione noetica e materialità estrema ed inconsueta. Da un lato abbiamo l’intervento manipolatorio su icone ormai sacrali dell’avanguardia, con cancellazioni di elementi anatomici ed innesti di particolari esagerati ed irriguardosi all’interno di immagini di cui si desidera annullare quell’aura di inaccessibilità di cui in origine erano prive. Dall’altro assistiamo ad una vera e propria sfida lanciata nei confronti del “politicamente corretto”, che anche in arte negli ultimi tempi imperversa, con un’operazione che estremizza il concetto di sensorialità implicito nell’etimologia del termine “estetica”. Le grandi immagini digitalizzate recentemente prodotte possono di primo acchito ingannare la percezione, e sembrare eleganti reiterazioni di regolari e colorati elementi astratti. In realtà, ad una più accorta osservazione, esse svelano la loro reale concretezza. Si tratta null’altro che di tazze di wc ancora intarsiate di resti fecali, quindi di una discesa nell’ambito più materiale ed intimo della nostra quotidianità. Neppure l’eretico Piero Manzoni aveva osato un tale gesto di sfida ai canoni del gusto collettivo limitandosi, si fa per dire, ad un azione evocativa, pur nella sua genialità ed irripetibile carica anticipatrice, confezionando virtualmente la sua “merda d’artista”, investita di aura mentale. In un periodo in cui assai si disquisisce sul rapporto dialettico e sull’interazione tra arte e vita, molto spesso risolta con la celebrazione scontata di aspetti marginali della quotidianità o con indagini territoriali ed antropologiche dallo stanco sapore neo positivista, Zizzo porta agli estremi e fornisce senso a quest’assunto, con autentica carica trasgressiva. Ma la vocazione dell’artista ad avvalersi della sua abilità di manipolatore dell’immagine lo porta costantemente a perseguire nuovi obiettivi. Conscio che lo sfruttamento eccessivo delle soluzioni visive prima citate, comunque sempre proponibili in ambito espositivo, avrebbero potuto indurre un effetto di saturazione a scapito della necessità di porsi nuovi traguardi nell’ambito di una ricerca eclettica ed improntata a coerente ed unitaria ispirazione, eccolo allora indirizzato, negli ultimi mesi, su di una nuova frontiera iconografica, che viene per la prima volta presentata al pubblico in occasione di questa mostra presso Fiorile Arte. Questa recentissima serie di opere si mantiene sulla scia di quella che è la storia artistica di Roberto Zizzo, sia in relazione alle già citate torsioni anatomiche di sapore manierista delle prime, “tradizionali” composizioni, che per la centralità del corpo come collante estetico delle sue operazioni. In questi lavori l’attenzione dell’artista si indirizza verso uno scandaglio auto- voyeurista nei confronti di particolari del suo corpo, il cranio, in particolare, ma anche reperti d’altro genere, petto, schiena, piedi. Avvalendosi poi delle infinite possibilità combinatorie e di variazione, sfumatura dei toni, rimpicciolimento ed ingrandimento offerte dalla tavolozza tecnologica, autentica protesi della manualità, Zizzo realizza composizioni di varia natura, con fertile ispirazione. Diretta verso un’analisi delle mutazioni del corpo prodotte, o producibili, dalle nuove frontiere della ricerca biologica abbinata alla tecnologia, senza che venga meno, in lui, un attaccamento alle radici umaniste della nostra cultura, dove la figura umana è pur sempre il fulcro della composizione, da cui tutto si dipana. L’artista realizza quindi composizioni di grande impatto visivo, senza peraltro mai correre il rischio di un sensazionalismo fine a sé stesso, creando immagini astratte, in cui, ad esempio, i crani si fondono fino ad assumere un rilievo formale indistinto, oppure icone di più marcata evidenza figurativa. Come nel caso di questo “Trittico della crocifissione”, studiato appositamente per lo spazio del Fiorile. In quest’opera Zizzo esplicita tutta la sua abilità assemblativa nel fondere e combinare con ritmica armonia le “parti del tutto” del suo corpo per comporre una inedita variante su un tema sacro e centrale per la nostra cultura come quello della croce, ottenendo un risultato di assoluto rigore sia sul piano dell’immagine che per l’equilibrio dei contenuti.
Edoardo Di Mauro, aprile 2004.
Roberto Zizzo
Nell’ambito delle lezioni del mio corso di “Teoria e metodologia del contemporaneo”, affronto temi relativi ad un periodo per certi aspetti sintonico al nostro presente, quello degli anni ’50, caratterizzato da una forte e decisa consapevolezza del ruolo che poteva giocare la crescente automazione dei processi produttivi, e il graduale potenziamento degli strumenti comunicativi e di riproduzione tecnica, al fine di allargare e diffondere la fruizione artistica ed il conseguente livello di “esteticizzazione” della società. Dopo la disillusione, assai intensa ma limitata nel tempo, dell’immediato secondo dopoguerra, in cui gli immani sfaceli dei tragici eventi appena conclusi avevano fatto perdere agli artisti la fiducia nell’utopia salvifica dell’arte e nei progetti collettivi, la rapida ricostruzione ed il conseguente rinnovato sviluppo tecnologico avevano immediatamente destato nuovi entusiasmi, non privi, però, di una precisa e coerente consapevolezza politica. Si entrava in un clima di avanguardia “normalizzata” nell’accezione di maggiormente allargata e non più appannaggio di ristrette elites, come era stato per le avanguardie storiche primo novecentesche. Nella prima metà del secolo alcuni lungimiranti intellettuali avevano intuito la necessità di piegare il progresso tecnico al servizio della creatività, per consentire una democraticizzazione della stessa e questo spesso da posizioni opposte ma, nelle conclusioni, sostanzialmente convergenti, come nel caso di Martinetti e Benjamin. Negli anni ’50 il dibattito si allarga e diventa centrale all’interno dei segmenti più avanzati dell’avanguardia europea. Personaggi come Pinot Gallizio, Asger Jorn, teorie come l’Urbanistica Unitaria di Constant, pongono l’accento sul nuovo ruolo sociale dell’artista come attore dei processi di riqualificazione ambientale e sulla necessità di far perdere all’arte il suo valore di feticcio commerciale di lusso usando la tecnologia per esprimere una carica di “libera energia antieconomica”. Posizioni che convergono e si radicalizzano all’interno del Situazionismo di Guy Debord, dove si giunge a predicare addirittura la negazione stessa del concetto di arte in quanto oggetto, quindi entità distaccata dal reale, per approdare ad una società dove i concetti di arte, vita, gioco e lavoro si annullino nel flusso vitale delle “situazioni”. Queste profetiche considerazioni sono divenute di estrema attualità negli ultimi vent’anni, caratterizzati dall’ingresso pieno nella società postindustriale dominata dalla telematica, con un conseguente ampliamento di quella fascia di tempo libero già preconizzato in passato, ed un esponenziale allargamento della base artistica e, più in generale, di coloro che si cimentano in professioni, spesso inedite, legate agli ambiti, un tempo circoscritti, della cultura e delle arti. Tralasciando, in questo caso, analisi relative al sistema dell’arte, non si può non riscontrare come non sia certo venuta meno, nella maggioranza dei casi, una ricerca talvolta ossessiva e teatrale del raggiungimento del successo commerciale e di una visibilità sempre più ardua in un panorama dove quantomeno mensilmente vengono propinate, e mi limito all’Italia, decine di nuove proposte . Una più ampia penetrazione dell’arte nel tessuto sociale ed ambientale, agevolata dall’uso della fotografia, del video, delle tecnologie digitali, è certamente iniziata e va comunque seguita ed incoraggiata nel suo evolversi. Queste, in sintesi, le caratteristiche in cui si trovano ad agire e ad operare gli artisti all’interno dello scenario della contemporaneità, ed è uno scenario al quale è arduo sottrarsi pena la marginalizzazione della poetica nei territori di un autoreferenziale intimismo, anche se ciò non significa necessariamente accodarsi alla tendenza del momento. Roberto Zizzo innesta la sua poetica nel centro di queste contraddizioni, in questo panorama così frammentato nella sua apparente aspirazione all’omogeneità, eppure non privo, in molti casi, di una positiva carica di vitalità. Quella di Zizzo, sin dall’inizio, può essere definita una linea espressiva tendente a cogliere l’unitarietà a partire dalla simbologia del frammento esemplare, tramite cui si può ristabilire l’armonia dell’insieme nella sua essenza circolare, nel dialogo tra interno ed esterno. I lavori di qualche anno fa prediligevano la linea installativo – scultorea, in cui sagome umane allungate ed asciutte, a metà tra simbologie ancestrali e rigori anatomici manieristi, si disseminavano sulla superficie parietale od al suolo, membra sparse in cui l’identità assumeva una dimensione cangiante al limite dell’astratto, della fusione con la materia. La poetica del corpo, elemento centrale dell’avanguardia novecentesca, tornato di prepotente attualità all’oggi, è stata sempre quindi presente nel lavoro di Roberto Zizzo. Nell’ultima fase l’artista, per esprimerla con fare maggiormente sintetico ed iconograficamente incisivo, si è avvalso di un uso intelligente delle nuove tecnologie, adoperate nella loro funzione primaria di protesi atte a migliorare le facoltà sensoriali e manuali dell’uomo. Le opere recenti di Roberto Zizzo si presentano corroborate da un opportuno livello di dissacrante ironia, ponendosi obliquamente al confine tra dimensione noetica e materialità estrema ed inconsueta. Da un lato abbiamo l’intervento manipolatorio su icone ormai sacrali dell’avanguardia, con cancellazioni di elementi anatomici ed innesti di particolari esagerati ed irriguardosi all’interno di immagini di cui si desidera annullare quell’aura di inaccessibilità di cui in origine erano prive. Dall’altro assistiamo ad una vera e propria sfida lanciata nei confronti del “politicamente corretto”, che anche in arte negli ultimi tempi imperversa, con un’operazione che estremizza il concetto di sensorialità implicito nell’etimologia del termine “estetica”. Le grandi immagini digitalizzate recentemente prodotte possono di primo acchito ingannare la percezione, e sembrare eleganti reiterazioni di regolari e colorati elementi astratti. In realtà, ad una più accorta osservazione, esse svelano la loro reale concretezza. Si tratta null’altro che di tazze di wc ancora intarsiate di resti fecali, quindi di una discesa nell’ambito più materiale ed intimo della nostra quotidianità. Neppure l’eretico Piero Manzoni aveva osato un tale gesto di sfida ai canoni del gusto collettivo limitandosi, si fa per dire, ad un azione evocativa, pur nella sua genialità ed irripetibile carica anticipatrice, confezionando virtualmente la sua “merda d’artista”, investita di aura mentale. In un periodo in cui assai si disquisisce sul rapporto dialettico e sull’interazione tra arte e vita, molto spesso risolta con la celebrazione scontata di aspetti marginali della quotidianità o con indagini territoriali ed antropologiche dallo stanco sapore neo positivista, Zizzo porta agli estremi e fornisce senso a quest’assunto, con autentica carica trasgressiva. Ma la vocazione dell’artista ad avvalersi della sua abilità di manipolatore dell’immagine lo porta costantemente a perseguire nuovi obiettivi. Conscio che lo sfruttamento eccessivo delle soluzioni visive prima citate, comunque sempre proponibili in ambito espositivo, avrebbero potuto indurre un effetto di saturazione a scapito della necessità di porsi nuovi traguardi nell’ambito di una ricerca eclettica ed improntata a coerente ed unitaria ispirazione, eccolo allora indirizzato, negli ultimi mesi, su di una nuova frontiera iconografica, che viene per la prima volta presentata al pubblico in occasione di questa mostra presso Fiorile Arte. Questa recentissima serie di opere si mantiene sulla scia di quella che è la storia artistica di Roberto Zizzo, sia in relazione alle già citate torsioni anatomiche di sapore manierista delle prime, “tradizionali” composizioni, che per la centralità del corpo come collante estetico delle sue operazioni. In questi lavori l’attenzione dell’artista si indirizza verso uno scandaglio auto- voyeurista nei confronti di particolari del suo corpo, il cranio, in particolare, ma anche reperti d’altro genere, petto, schiena, piedi. Avvalendosi poi delle infinite possibilità combinatorie e di variazione, sfumatura dei toni, rimpicciolimento ed ingrandimento offerte dalla tavolozza tecnologica, autentica protesi della manualità, Zizzo realizza composizioni di varia natura, con fertile ispirazione. Diretta verso un’analisi delle mutazioni del corpo prodotte, o producibili, dalle nuove frontiere della ricerca biologica abbinata alla tecnologia, senza che venga meno, in lui, un attaccamento alle radici umaniste della nostra cultura, dove la figura umana è pur sempre il fulcro della composizione, da cui tutto si dipana. L’artista realizza quindi composizioni di grande impatto visivo, senza peraltro mai correre il rischio di un sensazionalismo fine a sé stesso, creando immagini astratte, in cui, ad esempio, i crani si fondono fino ad assumere un rilievo formale indistinto, oppure icone di più marcata evidenza figurativa. Come nel caso di questo “Trittico della crocifissione”, studiato appositamente per lo spazio del Fiorile. In quest’opera Zizzo esplicita tutta la sua abilità assemblativa nel fondere e combinare con ritmica armonia le “parti del tutto” del suo corpo per comporre una inedita variante su un tema sacro e centrale per la nostra cultura come quello della croce, ottenendo un risultato di assoluto rigore sia sul piano dell’immagine che per l’equilibrio dei contenuti.
Edoardo Di Mauro, aprile 2004.
15
maggio 2004
Roberto Zizzo
Dal 15 maggio al 12 giugno 2004
arte contemporanea
Location
FIORILE ARTE
Bologna, Via Nosadella, 37/D, (Bologna)
Bologna, Via Nosadella, 37/D, (Bologna)
Orario di apertura
mercoledi e giovedi dalle 10 alle 12 - venerdi e sabato dalle 17 alle 19