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Rubik
Possibilità e disorientamento sono le condizioni di un genere che assomma la ricerca sul colore, sulla forma, sulla combinazione. Tre sfaccettature che si riassumono nel cubo di Rubik e che la mostra indaga in altrettante sezioni
Comunicato stampa
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Inaugura sabato 20 maggio alle ore 18.00 presso la Galleria Studio G7 in via Val d'Aposa 7/g a Bologna la collettiva d'arte contemporanea curata da Alberto Panchetta dal titolo RUBIK ³.
«Questo oggetto è un esempio ammirevole della bellezza rigorosa, della grande ricchezza delle leggi naturali; è un esempio sorprendente delle ammirevoli possibilità dello spirito umano di dimostrarne il rigore scientifico e di dominarlo... è l’esempio che dimostra l’unità del vero e del bello, ciò che per me è la stessa cosa». Con queste parole l’architetto Ernö Rubik magnificava la sua creazione più famosa: il Cubo di Rubik (da cui deriva il cubitis magikia che è cagione di un “grave disturbo mentale altamente contagioso”). Icona esistenziale che ha infettato l’ultimo terzo del XX secolo manifestando solo di recente i suoi effetti collaterali.
Lacan sosteneva che nel campo del visibile ogni cosa è tranello, trébouché amplificato dalla deriva dei generi, ovvero da quando i dogmi tra figurazione e astrazione sono stati definitivamente infranti. Se quindi i segni positivi e i segni negativi tendono alla permutazione, è necessario discernere prima di equivocare: benché i codici deridano il contraddittorio bisogna constatare come dalla astrazione di una figurazione si sia infine giunti alla figurazione di un’astrazione. Anziché radicalizzarsi attraverso la sintesi, le immagini stenografiche vanno arricchendosi di implicazioni/complicazioni che seguono un processo inverso rispetto alle “cose che si dileguano”. Si tratta di pro-creazioni, di pro-posizioni, “a favore” cioè della fenomenologia che – pur mantenendo alcuni principi e certo rigore del mondo alogico sviluppatosi in seno all’astrazione novecentista – rivendica una maggiore flessibilità retinica.
Possibilità e disorientamento sono le condizioni di un genere che assomma la ricerca sul colore, sulla forma, sulla combinazione. Tre sfaccettature che si riassumono nel cubo di Rubik e che la mostra indaga in altrettante sezioni: il Gioco con cui gli artisti costruiscono, smontano, assemblano primary structure che si rifanno al ludus infantile (Riccardo Amabili rielabora l’immaginario dei primi videogiochi Arcade e dei loro macro-pixel; Dario Moroldo progetta dei wall-drawing che prendono a modello i moduli ad incastro del Lego e del Meccano; Marco Bertozzi sposa l’arte analitica ai postulati di un ipotetico Cubo Magico), l’Architettura che è madre di tutte le geometrie (Marotta&Russo si servono delle finestre di dialogo del pc come fossero esoscheletri di palazzi; Daniele Bacci dipinge edifici postmoderni privandoli delle porte, delle finestre e del colore, ottenendo così un effetto ”rendering”; Polona Maher reinventa l’architettura slovena sagomando fogli di cartone e sfruttando il portato dell’ombra per infondervi qualità scultoree; Stefano Paron prende a modello la struttura logica e geometrica del Bauhaus ricavandone un modellino plastico; servendosi di materiali poveri Igor Eskinja destabilizza la percezione creando delle ironiche planimetrie) e il Colore quale incessante rovello per le tautologie e per tutta l’art pour l’art (Federico Maddalozzo assegna alla visione dei codici secondo la nostra percezione del reale, codici che nella realtà risultano errati; le fotografie di Anton S. Kehrer trasformano dettagli urbani in superfici di lirico/liquido colore; Diego Soldà avvolge centinaia di strati policromi intorno a un perno obbligando la pittura a riflettere sul suo farsi opera).
«Questo oggetto è un esempio ammirevole della bellezza rigorosa, della grande ricchezza delle leggi naturali; è un esempio sorprendente delle ammirevoli possibilità dello spirito umano di dimostrarne il rigore scientifico e di dominarlo... è l’esempio che dimostra l’unità del vero e del bello, ciò che per me è la stessa cosa». Con queste parole l’architetto Ernö Rubik magnificava la sua creazione più famosa: il Cubo di Rubik (da cui deriva il cubitis magikia che è cagione di un “grave disturbo mentale altamente contagioso”). Icona esistenziale che ha infettato l’ultimo terzo del XX secolo manifestando solo di recente i suoi effetti collaterali.
Lacan sosteneva che nel campo del visibile ogni cosa è tranello, trébouché amplificato dalla deriva dei generi, ovvero da quando i dogmi tra figurazione e astrazione sono stati definitivamente infranti. Se quindi i segni positivi e i segni negativi tendono alla permutazione, è necessario discernere prima di equivocare: benché i codici deridano il contraddittorio bisogna constatare come dalla astrazione di una figurazione si sia infine giunti alla figurazione di un’astrazione. Anziché radicalizzarsi attraverso la sintesi, le immagini stenografiche vanno arricchendosi di implicazioni/complicazioni che seguono un processo inverso rispetto alle “cose che si dileguano”. Si tratta di pro-creazioni, di pro-posizioni, “a favore” cioè della fenomenologia che – pur mantenendo alcuni principi e certo rigore del mondo alogico sviluppatosi in seno all’astrazione novecentista – rivendica una maggiore flessibilità retinica.
Possibilità e disorientamento sono le condizioni di un genere che assomma la ricerca sul colore, sulla forma, sulla combinazione. Tre sfaccettature che si riassumono nel cubo di Rubik e che la mostra indaga in altrettante sezioni: il Gioco con cui gli artisti costruiscono, smontano, assemblano primary structure che si rifanno al ludus infantile (Riccardo Amabili rielabora l’immaginario dei primi videogiochi Arcade e dei loro macro-pixel; Dario Moroldo progetta dei wall-drawing che prendono a modello i moduli ad incastro del Lego e del Meccano; Marco Bertozzi sposa l’arte analitica ai postulati di un ipotetico Cubo Magico), l’Architettura che è madre di tutte le geometrie (Marotta&Russo si servono delle finestre di dialogo del pc come fossero esoscheletri di palazzi; Daniele Bacci dipinge edifici postmoderni privandoli delle porte, delle finestre e del colore, ottenendo così un effetto ”rendering”; Polona Maher reinventa l’architettura slovena sagomando fogli di cartone e sfruttando il portato dell’ombra per infondervi qualità scultoree; Stefano Paron prende a modello la struttura logica e geometrica del Bauhaus ricavandone un modellino plastico; servendosi di materiali poveri Igor Eskinja destabilizza la percezione creando delle ironiche planimetrie) e il Colore quale incessante rovello per le tautologie e per tutta l’art pour l’art (Federico Maddalozzo assegna alla visione dei codici secondo la nostra percezione del reale, codici che nella realtà risultano errati; le fotografie di Anton S. Kehrer trasformano dettagli urbani in superfici di lirico/liquido colore; Diego Soldà avvolge centinaia di strati policromi intorno a un perno obbligando la pittura a riflettere sul suo farsi opera).
20
maggio 2006
Rubik
Dal 20 maggio al 30 giugno 2006
arte contemporanea
Location
GALLERIA STUDIO G7
Bologna, Via Val D'aposa, 4a, (Bologna)
Bologna, Via Val D'aposa, 4a, (Bologna)
Orario di apertura
da lunedì a sabato 15.30-19.30. Mattino e festivi per appuntamento; in giugno la galleria rimarrà chiusa il sabato
Vernissage
20 Maggio 2006, ore 18
Ufficio stampa
STUDIO PESCI
Autore
Curatore