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Samira Guadagnuolo
Centrale nella poetica del suo lavoro, nella sua tecnica di allestimento è la citazione storica del luogo: il buio della sala, la vibrazione della pellicola, il baluginare intermittente della proiezione, il proiettore che si palesa nell’ambiente come presenza meccanica, con il suo rumore, il suo essere macchina
Comunicato stampa
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Il lavoro di Samira Guadagnuolo ha a che fare solo in apparenza con la memoria; è un equivoco questo che si potrebbe attribuire alla sostanza del medium da lei usato. La memoria, nel senso del ricordo, dell’impronta del tempo, è infatti una patina che aderisce involontariamente alle pellicole, alle fotografie di repertorio che Guadagnuolo assembla, ritaglia e rimonta.
Si tratta invece di ricostruire una narrazione minimale a partire da immagini che più che il ricordo, restituiscano semmai una perdita di memoria originaria, come fossero parole spaiate di un testo frantumato e antico che l’azione di un tardo demiurgo riordina in una sequenza suggestiva, nuova, quasi onirica. Lo scorrere delle immagini nei lavori di Guadagnuolo riflettono inoltre sul linguaggio del cinema, sulla narrazione in quanto successione, ma non sono propriamente cinema; certo del cinema si avvalgono in quanto luce, proiezione e magia del movimento, ma ne tradiscono il mero scopo narrativo della sequenza che ricalca e restituisce il fluire del tempo. È un lavoro di recupero. Si recuperano i mezzi; gli strumenti del mezzo. Si recuperano le tecniche. Il ritorno all’analogico tradisce un desiderio di manipolazione dell’immagine singola, del fotogramma in quanto apparizione significante di per sé. Centrale nella poetica del suo lavoro, nella sua tecnica di allestimento è la citazione storica del luogo: il buio della sala, la vibrazione della pellicola, il baluginare intermittente della proiezione, il proiettore che si palesa nell’ambiente come presenza meccanica, con il suo rumore, il suo essere macchina. L’immagine, come apparizione fantasmagorica, si ripete ossessivamente, restituendo sì la sensazione del movimento, ma minimale e ripetitivo, suggerito più che palesato, come se non avesse spazio di manovra, come se vibrasse, come si trattasse più che di narrare la realtà, di congelarla in una dinamica di senso vicina alla materia dei sogni. La tecnica cinematografica, seppur si avvalga di un felice ritorno al fare artigianale, si inscrive inoltre in una pratica più complessa, fatta di tagli, sovrapposizioni, montaggi incrociati, che si ispirano sì alle avanguardie di primo novecento, ma che si arricchiscono di riferimenti letterari, poetici e personali complessi. L’idea della doppia proiezione tende a negare ulteriormente il fatto cinematografico, si tratta in definitiva più che di mostrare (o di raccontare), di allestire, di predisporre una macchina delle sensazioni, un setting dove proiettare (in un gioco di specchi) le nostre emozioni, il nostro ricordo rimosso.
Cesare Biratoni
Si tratta invece di ricostruire una narrazione minimale a partire da immagini che più che il ricordo, restituiscano semmai una perdita di memoria originaria, come fossero parole spaiate di un testo frantumato e antico che l’azione di un tardo demiurgo riordina in una sequenza suggestiva, nuova, quasi onirica. Lo scorrere delle immagini nei lavori di Guadagnuolo riflettono inoltre sul linguaggio del cinema, sulla narrazione in quanto successione, ma non sono propriamente cinema; certo del cinema si avvalgono in quanto luce, proiezione e magia del movimento, ma ne tradiscono il mero scopo narrativo della sequenza che ricalca e restituisce il fluire del tempo. È un lavoro di recupero. Si recuperano i mezzi; gli strumenti del mezzo. Si recuperano le tecniche. Il ritorno all’analogico tradisce un desiderio di manipolazione dell’immagine singola, del fotogramma in quanto apparizione significante di per sé. Centrale nella poetica del suo lavoro, nella sua tecnica di allestimento è la citazione storica del luogo: il buio della sala, la vibrazione della pellicola, il baluginare intermittente della proiezione, il proiettore che si palesa nell’ambiente come presenza meccanica, con il suo rumore, il suo essere macchina. L’immagine, come apparizione fantasmagorica, si ripete ossessivamente, restituendo sì la sensazione del movimento, ma minimale e ripetitivo, suggerito più che palesato, come se non avesse spazio di manovra, come se vibrasse, come si trattasse più che di narrare la realtà, di congelarla in una dinamica di senso vicina alla materia dei sogni. La tecnica cinematografica, seppur si avvalga di un felice ritorno al fare artigianale, si inscrive inoltre in una pratica più complessa, fatta di tagli, sovrapposizioni, montaggi incrociati, che si ispirano sì alle avanguardie di primo novecento, ma che si arricchiscono di riferimenti letterari, poetici e personali complessi. L’idea della doppia proiezione tende a negare ulteriormente il fatto cinematografico, si tratta in definitiva più che di mostrare (o di raccontare), di allestire, di predisporre una macchina delle sensazioni, un setting dove proiettare (in un gioco di specchi) le nostre emozioni, il nostro ricordo rimosso.
Cesare Biratoni
28
ottobre 2018
Samira Guadagnuolo
Dal 28 ottobre al primo dicembre 2018
arte contemporanea
Location
SURPLACE ART SPACE
Varese, Via San Pedrino, 4, (Varese)
Varese, Via San Pedrino, 4, (Varese)
Vernissage
28 Ottobre 2018, ore 18
Autore