Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Sandro De Alexandris – Percezione quale pulsante
Che l’uso della carta sia uno dei moventi originari della visione pittorica di Sandro De Alexandris lo indicano le ricerche iniziali del suo percorso, orientate sul valore percettivo degli spessori e sul rigore essenziale della superficie, senza che nulla all’infuori dei propri attributi fisici possa interferire o alterare la pura presenza dell’immagine
Comunicato stampa
Segnala l'evento
“Esplorare al massimo col minimo,
colori resi al monocromo, superfici
elementari, regole e moduli semplificati,
a fronte di un’intensa vitalità pittorica.”
( Paolo Fossati, 1990)
1. La carta come genesi della pittura
Che l’uso della carta sia uno dei moventi originari della visione pittorica di Sandro De Alexandris lo indicano le ricerche iniziali del suo percorso, orientate sul valore percettivo degli spessori e sul rigore essenziale della superficie, senza che nulla all’infuori dei propri attributi fisici possa interferire o alterare la pura presenza dell’immagine.
Il metodo analitico a cui è sottoposta la forma elabora minime vibrazioni di luce, impercettibili variazioni cromatiche, differenti implicazioni fisiche della carta, specialmente quando le sue consistenze sembrano immutabili.
Siamo intorno al 1964-1965, la carta è il supporto totale per investigare il campo visivo, strumento empirico che permette a De Alexandris di concepire l’arte come luogo distante dal mondo, spazio elementare per conoscere la complessità dell’atto percettivo messo di fronte all’assenza di ogni elemento espressivo. La carta non è supporto modificabile dal gesto o dal colore ma struttura primaria che presenta se stessa, superficie assoluta dove linee segnate in modo impersonale fanno sentire il peso impalpabile della luce. I rilievi sono ottenuti dalle impronte della fustellatura ma anche da calcolate sovrapposizioni che sollecitano uno slittamento regolare della superficie tra i piani costruttivi dell’immagine.
Più che un’aspirazione tridimensionale si tratta di esplorare il registro del supporto attraverso una lieve giustapposizione che non incrina il processo di semplificazione della forma, anzi ne esalta la primarietà.
Pur oscillando dalla soluzione di “due spessori orizzontali al centro” fino alle variazioni di linee parallele l’intenzione di De Alexandris non è mai di portarsi verso il grado zero della superficie. Semmai, il progetto è quello di concentrarsi sulla soglia mentale dell’immagine, di radicalizzare la pittura senza rinunciare al suo stupore fisico, sostenendo il corpo della luce con mezzi astratti e con minime apparizioni, valori radicali comunque estranei alle logiche dell’arte concettuale.
A queste sottigliezze percettive l’artista si dedica fin dalle prime mosse della sua partita con i fondamenti pittorici, i limpidi esperimenti analitici sull’identità della carta non sono che strumenti possibili tra quelli a disposizione della sua sensibilità, mezzi per captare i meccanismi del pensiero in rapporto ai ritmi dello spazio e alle relazioni del tempo.
Il fatto che misure, moduli e variazioni lineari adottate nel periodo appena successivo (1965-1969) siano esperienze svolte con altri materiali – tavole di legno, vernici acriliche, ferri, resine, laminati plastici, poliesteri- significa che i progetti sono sostenuti da soluzioni tecniche adatte a realizzare – nel modo più efficace possibile - il mutevole strutturarsi delle forme geometriche in relazione allo spazio circostante.
Nel momento in cui la superficie esige una più evidente oggettivazione delle componenti strutturali, è la plasticità della forma ad assumere una relazione attiva e dinamica con l’ambiente. Questa scelta richiede una diversa tecnologia, una tensione costruttiva capace di giocare sull’impatto delle forme primarie, senza mai spingersi verso soluzioni minimaliste.
Anche in queste proiezioni plastiche De Alexandris rimane legato ad una sensibilità di tipo pittorico, al valore espansivo della luce e dell’ombra come mezzi di sconfinamento dai perimetri della razionalità.
Le immagini generano spostamenti e incursioni dentro le pieghe della superficie, movimenti di esplorazione nelle zone sconosciute della visione, seguendo percorsi nascosti tra il progetto dell’opera e la sua realizzazione.
Quando l’uso della carta è finalizzato a sostenere l’idea di “riverberazione cromatica” (1969) l’artista ritrova nella purezza connaturale e incontaminata di questo supporto la dimensione adeguata per materializzare le vibrazioni luminose, al limite della possibilità di lettura.
Allo stesso modo, nella successiva stagione delle “superfici incise” che dal 1974 giunge fino al 1981, l’uso del cartone è decisivo almeno quanto la punta della lama che ne svela la sostanza interna, il silenzio interiore, la potenzialità non detta, il significato sospeso sul filo dell’inesprimibile.
In questo caso, l’immagine non nasce dallo spostamento delle ortogonali, non scaturisce neppure dal gioco esatto delle diagonali che s’incrociano o delle orizzontali che ripartiscono la superficie secondo intervalli uguali; nemmeno la fisicità tattile dei rilievi è utilizzata per continuare a generare variazioni di luce nel segno del bianco.
Tutto si svela nel tempo-lavoro che coincide con la vita del progetto, ovvero con il progetto del vissuto, flusso esistenziale oggettivato nella misura del cartone-schermo dove la tensione esecutiva mette a dura prova l’artista. Egli predispone la superficie come limite di ciò che sarà possibile, conosce il peso fisico della luce, la qualità della materia che - pur in assenza di colore- riesce a trasmettere trasparenze e spessori plastici.
De Alexandris sta di fronte al supporto come spazio analogo al corpo, l’affronta senza enfasi, lo modifica con una successione di linee incise ad intervalli uguali e costanti. Lo controlla dunque ma, per deliberata costrizione, si lascia condurre nel procedimento operativo fino all’esaurimento di ogni energia psico-fisica.
L’opera nasce dal fitto strutturarsi dei solchi che l’atto di incidere lascia in evidenza come traccia fisica di una determinazione manuale che porta con sé la misura soggettiva del fare, il farsi dell’immagine attraverso la messa in opera delle possibilità della superficie.
La fisicità ossessiva del gesto agisce sul cartone con il bisturi e con l’uso del righello, il campo d’azione è delimitato da ritmi fitti e implacabili che lasciano respirare in modo diverso il perimetro, infatti i margini vengono spesso preservati dai tagli, indubbia memoria del quadro e conseguente necessità di concentrare l’immagine dentro una specie di cornice luminosa.
La luce non è dipinta ma deriva dallo stato di assenza di qualunque configurazione, scaturisce dalla consistenza della materia-supporto che si modifica e si attua come metodo in divenire, regola aperta che accetta scarti e pause all’interno del differente incidere/incedere delle linee.
Allo spettatore non resta che assumere questo procedimento di costruzione come processo di lettura soggettivo, infatti l’atto percettivo non si consuma nel colpo d’occhio, richiede tempi successivi e prolungati, tempi che fanno sprofondare il pensiero visivo in se stesso, richiuso nel proprio codice genetico almeno quanto lo è il reticolo dei segni di lama sul cartone.
2. Carte su carta e altre consonanze
Dopo la riflessione intorno alla misura mentale della pittura, senza racconto da seguire, senza storia da interpretare, si apre una differente stagione di lavoro che, a ben guardare, non si priva degli esiti raggiunti ma li riconverte in un altro ordine referenziale. E’ una fase dove l’uso della carta prende una direzione parallela, non è più matrice primaria ed estensione totale del pensiero pittorico ma ricopre un ruolo che corre con autonoma libertà d’invenzione accanto alle opere di maggiore dimensione.
Questa divaricazione avviene senza alcuna preclusione ideologica, la carta rimane un mezzo di magica sospensione che segue tutte le operazioni di De Alexandris, non esce mai di scena, anzi si rinnova nel dialogo con frammenti di tela, legni e altre materie in attesa di senso.
Il discorso dedicato al gruppo di carte documentato in questo libro non può che tenere conto di questo complesso destino della carta, al tempo stesso bisogna aver presente questo doppio piano di lavoro, interno l’uno all’altro, duplice verifica degli stessi principi costruttivi su dimensioni diverse: da un lato il formato delle “opere” oscilla tra 64x100 e 163x200 cm., dall’altro la dimensione delle “carte” varia da 14,8x19,9 a 36x62 cm.
All’inizio di questa nuova fase stanno alcuni lavori che De Alexandris realizza nel periodo 1985-89, opere sperimentate con tecniche miste che è preferibile chiamare sovrapposizioni, e non collages, in quanto i materiali non sono fissati interamente ma lasciati liberi di oscillare, di respirare, di stare sospesi in posizioni lievemente mosse, instabili, quasi in bilico.
Quasi tutte queste carte sono prive di titolo ma non è arduo riferirle ad alcuni cicli della produzione cosiddetta maggiore: tavole del poeta, passi d’ombra, fermagli del tempo, memorie del viaggiatore.
Il viaggio avviene sempre intorno alla pittura, all’interno delle sue componenti micro-fisiche, in compagnia degli strumenti operativi consueti e dei materiali in via di definizione. L’attenzione è per le stratificazioni dei frammenti trattati come ritagli del tempo, senza rinunciare alla tentazione dei colori che interferiscono con il rigore analitico del bianco e del nero.
Se si confrontano con le opere grandi si avverte che le materie delle carte sono quelle delle “sovrapposizioni” che a metà degli anni Ottanta esprimono un senso di apertura e di sconfinamento, un profondo fermento immaginativo. Non più castigata visione di analitiche presenze-assenze ma dialogo stupefatto con la dimensione tattile delle materie: varietà sorprendente di carte, cartoncini colorati, frammenti di stoffe, bastoncini di legno, velature di acquerello, tracce di inchiostro, segni di carboncino.
A questo proposito potrebbe aprirsi una ulteriore tipologia di carte, un diverso versante operativo che riguarda olii e pastelli che s’interpongono come fogli di studio, esercizi di preparazione alle tele. In questo caso, la carta è soltanto supporto senz’altra funzione che quella di esprimere una qualità del colore e delle sue variazioni segniche, materiche, espressive.
Si tratta dunque di una ricerca da considerare all’interno del concetto di studio cromatico o di bozzetto pittorico, senza ovviamente limitare l’importanza di queste prove che raggiungono esiti di forte sensibilità.
Tornando al nostro ciclo di carte, esse non vanno considerate progetti o modi provvisori in funzione delle grandi tele ma opere di breve dimensione già in se stesse compiute, partiture di note materiche e di frammenti dispersi che evocano fruscii e silenzi interni alle risonanze del colore.
La varietà degli spessori è studiata in relazione agli accordi luminosi che vanno a mano a mano definendo uno spazio carico di umori ombrosi e di bagliori intermittenti, di forme che stanno in primo piano e di altre tenute sullo sfondo, apparizioni lontane che sostengono la memoria stratificata di altre soglie, altri suoni, ulteriore parvenze che nascono quasi dal nulla.
Il termine soglia è quello che meglio comunica ciò che l’artista va fissando come limite di un racconto che non può essere detto altrimenti, sistema mutevole di tracce che mostrano l’origine e nascondono il destino o, perlomeno, guardano verso spazi di destinazione ignota. Non a caso, la struttura preferita è un piano provvisorio dove sono sovrapposte pagine che provengono da tempi e spazi lontani, fogli di diversa consistenza che si toccano l’uno con l’altro fissando istanti di pittura, presenze al margine dei margini, congiunzioni raggiunte dopo aver vagato per le vie immaginarie di altri possibili universi.
I modi in cui le carte sono assemblate seguono meccanismi compositivi di tipo istintivo, non sono più rigidamente geometriche ma tracce esitanti che galleggiano nel vuoto attraverso bilanciamenti sempre attenti a negare la simmetria tra pieni e vuoti. L’artista sottrae il visibile al puro e semplice ragionamento ottico-percettivo, può usare tutto lo spazio a disposizione oppure solo una parte di esso, misura il vuoto con il pieno, incrina l’equilibrio armonico con dissonanze all’interno di uno stesso colore.
Quello che si vede in ognuna di queste carte è il risultato di un processo ritmico di accostamenti e distanze dove i materiali sono messi in luce per suggerire una diversa pelle pittorica. I dettagli assumono un’aria instabile, stabilmente incerta sul filo delle verticali mostrando l’importanza dei bordi irregolari, le impronte imprevedibili, gli spessori incisi senza precisione, i perimetri strappati in modo che l’infinito possa entrare nel foglio.
Sulla superficie talvolta si infittiscono le strisce di carta e il loro lieve sovrapporsi fa pensare all’ansia di fermare l’andare del tempo, di tenere insieme pensieri dispersi e tracce sfuggite al vissuto, come se la memoria fosse costretta a comprimere lo spazio, fino al limite del sostenibile.
In altri casi, come per due composizioni orizzontali del 1989 (36x62 cm.), bastano pochi elementi a suggerire infiniti respiri, minime sovrapposizioni di carte dove il bianco è esaltato da lievi presenze di nero e di grigio, valori luminosi che si sottraggono alla tentazione indocile del colore. L’intenzione di De Alexandris è quella di dare durata a questa realtà sospesa sulla fragilità del tempo, di far capire che l’unico spazio possibile è quello che non ha un programma da seguire, una teoria estetica da dimostrare, un orientamento convincente per dar soluzione alle inquietudini del pensiero creativo.
Le carte giapponesi sono attimi di incanto, la leggerezza delle veline stupisce anche là dove la superficie si raggrinza sotto l’effetto del pigmento liquido, i fili che trapelano dalla carta di riso sono trame imprevedibili che l’artista sottomette al vago fluire del pensiero. La fragilità visiva di questi materiali mostra le interferenze della luce esterna a contatto con la matrice interna delle forme, nel contempo lascia emergere le vibrazioni nascoste, le qualità invisibili della carta che spesso rischiano di non essere viste.
3. Stanze e giardini, luoghi del silenzio
In una consistente serie di carte del 1990 torna il conforto dei titoli che sono in perfetta sintonia con quanto sta verificandosi nelle opere di grande dimensione, dall’astratta evocazione di soglie, margini del tempo e trasparenti elegie si passa a stanze e giardini, luoghi sospesi nel fisiologico ritmo del dipingere dove l’artista sogna l’infinito accadimento della luce.
Le sovrapposizioni sono ridotte al minimo e occupano perlopiù la parte laterale della composizione, grande rilevanza assumono i veli di carta fissati sul cartoncino di base, fondo anonimo e uniforme, piano di appoggio che funziona per distanziare la pittura, come la parete per le grandi opere.
La ricerca di variazioni luminose ricavate dalla sovrapposizione del bianco su bianco è uno dei climi espressivi che De Alexandris adotta per comunicare pensieri che trapelano da una condizione di estrema concentrazione sul peso di minime trasparenze.
Una parte preliminare della composizione può essere coperta dal tono opaco di una carta fissata in alto da alcuni frammenti e fermata in basso da un traccia di diversa consistenza. Talvolta un terzo ritaglio di carta trasparente conferisce alla composizione una profondità che accentua la presenza di ulteriori piccoli frammenti che stanno sospesi sopra il tutto. Altrove si formano addensamenti di strisce tagliate, strappate, dipinte o anche lasciate al loro stato naturale, mentre reperti di tessuto e garze un poco sfilacciate fanno pensare a brandelli di colori che si rincorrono opera dopo opera, come elementi di una scena dove la pittura recita se stessa.
E’ una pittura fatta di richiami, di cifre interne, di sottili nascondimenti e di aperture improvvise, di tremiti che sollevano i lembi per un attimo e subito li richiudono nel sigillo della superficie. Il trattamento della carta risponde alla ricerca del quoziente poetico della materia, l’ondulazione indica il lieve movimento del pensiero intorno alle pulsioni della luce e dell’ombra. L’increspatura mette in rilievo gli andamenti spontanei del materiale, le suture sembrano cicatrici della mente, le stropicciature rivelano i segni del vissuto, quella corrispondenza d’animo che l’artista filtra nello stupore di ogni frammento, nell’andamento discontinuo dei tagli e delle posizioni.
Il piacere di sovrapporre comporta l’arte del nascondere, dunque anche la sorpresa di scorgere ciò che sta sotto, ma mai del tutto: infatti più un frammento è coperto dall’altro, maggiore è il risalto dato al margine che rimane visibile. Questo è il punto di massima tensione dialettica tra vedere e intravedere, osservare e immaginare, guardare e lasciare che sia il lettore a inventare i meccanismi di lettura, i modi e i tempi di avvistamento dei movimenti costruttivi dello spazio instabile.
Non bisogna credere che non vi sia estrema sapienza in questo vagare e divagare intorno alle materie della pittura, in questo approssimarsi alla soglia dell’immagine con l’ossessione di selezionare il pieno ed il vuoto, togliendo il superfluo prima ancora di metterlo. Anche l’uso degli aspetti fortuiti presenti nei materiali non è di poco conto: le righe di un tessuto, lo strappo informe della tela, il bordo consumato della carta, il filo che si stacca dall’ordito, l’alone del colore o un’impronta involontaria. Tutto rientra nel piano predisposto dall’artista, ogni scelta è paziente attesa per un incontro con la materia che prima o poi De Alexandris sa di poter fare.
L’operazione pittorica è coscienza di saper condurre ogni residuo del visibile verso la purezza stupefatta dello sguardo, di poter restituire al piano creativo ogni complicità con il mondo ma soprattutto con la soglia della pittura intesa come giardino di luce, stanza di interminabili silenzi.
Quella del silenzio è una questione perfino ovvia per un tipo di pittura che si nutre degli umori segreti del monocromo, mettendo a distanza l’assordante spettacolo del mondo, anzi spegnendo ogni suo clamore nelle variazioni impercettibili del bianco e del nero, con qualche grigio che gli può stare accanto. Il silenzio è condizione per pensare il destino della pittura, per comporre e ricomporre i frammenti della storia privata e collettiva, per costruire il futuro attraverso le carte sparse del presente.
In effetti, la categoria del futuro non è mai stata amata da De Alexandris, il suo procedere senza bisogno di collocarsi o di rispecchiarsi in qualche tendenza creativa indica un diverso progetto artistico. Non certo l’utopia di un’avanguardia che mette a soqquadro gli statuti del linguaggio e neppure la nostalgia verso una tradizione che si difende dalle ansie della sperimentazione, piuttosto l’aspirazione a parlare del tempo soggettivo, la tensione a cercare la visione interiore nella coscienza profonda dell’essere.
Il grande silenzio del tempo soggettivo sembra guidare l’esperienza creativa come volontà di cogliere un’altra temporalità dentro la misura essenziale dello spazio pittorico, anche a rischio di ripetere gli stessi gesti, di utilizzare le stesse materie, di calcolare gli stessi spazi d’ombra e di luce. Un rischio che l’artista non ha mai evitato di correre preferendo interrogare lo spazio ai margini dell’infinito, per rimarcare il senso del fare arte nelle latitudini della poesia, seguendo i passi del viaggiatore incantato, là dove la pittura abita attraverso il gesto sospeso del suo linguaggio indicibile.
4. Veli dell’aria, isole della memoria
Collocati a distanza di dieci anni (1993-2003), incontriamo altri due cicli di carte dedicate a nuove giustapposizioni immaginative, sommovimenti di forme che sopravvivono alle derive del senso che la pittura cerca all’interno del proprio perimetro. Questa fase di lavoro non comporta evoluzioni e neppure scarti di tipo linguistico ma depositi di segni in cui l’atto creativo ascolta se stesso nell’esilio della sua realtà inafferrabile, in cui la verità dell’opera sta nel ricominciare sempre daccapo, nel ricongiungersi sempre al primo gesto. L’impressione è che il tempo lineare non esista in queste opere che nascono dalla necessità di raccogliere ritagli della memoria, frammenti del cuore, parole essenziali per continuare a sostenere l’inattualità della pittura nell’epoca della sua più drammatica estraneità rispetto al potere delle nuove tecnologie.
Tra gli artisti della sua generazione, De Alexandris è tra quelli che hanno vissuto e continuano a sostenere l’esperienza della pittura come ricerca della propria essenza, senza cercare risposte ma tenendo sempre aperta la questione della forma possibile, dello spazio e del tempo come dialogo tra conoscenza e smarrimento, razionalità ed emozione, certezza del pensiero e immaginazione senza limiti.
L’istinto di costruire spazi con elementi di sorpresa dialoga con il livello di abitudine con cui il linguaggio della pittura è costretto a fare i conti, vale a dire mezzi e materiali d’affezione che differiscono solo quando l’artista sa evocarne una diversa presenza. Questo è il territorio di ricerca che De Alexandris sa aprire a nuove invenzioni organizzando stimoli diversi all’interno del suo collaudato sistema formale, con l’accentuare -per esempio- il tema della fragilità e della leggerezza attraverso la sensibilizzazione sempre più intensa delle materie adottate.
Per garantire molteplici variazioni è decisivo il repertorio delle materie, la diversa qualità delle textures, il liscio e il ruvido, la seta e il lino, la carta sofisticata e il semplice giornale ritagliato e dipinto, varianti che acquistano peso nel lavoro minuzioso intorno ai nutrimenti della pittura.
Tutto può esser degno di nuova vita nel laboratorio dell’artista che seleziona, taglia, strappa, mette da parte, costruisce un alfabeto di carte e di stoffe pronte per entrare a far parte di nuove pagine di scrittura pittorica.
La pittura che cresce su se stessa, si muove da una campitura compatta ad un lieve sgretolarsi del pigmento, da impronte ben definite a lievi sottrazioni di colore, tracce che si modificano durante il tempo di lavoro, segni di verifica dei procedimenti creativi dell’artista. Attraverso le sue modalità compositive è possibile immaginare il cosiddetto processo esecutivo, pare di vederlo in studio, circondato dai propri strumenti, scegliere l’ocra per il bianco, il grigio per fissare un’ombra lucente del nero, un nucleo materico per bilanciare una zona vuota, una lieve traccia di carbone per fermare l’ombra del bordo.
Non si tratta di descrivere retoricamente il comportamento del pittore alle prese con il proprio spazio operativo ma di segnalare –almeno- la flagranza dei materiali presenti in studio come indicazione di una circolarità del fare e del pensare che si trasforma attraverso nuovi stimoli, senza mai uscire dal giro d’orizzonte progetto-materia-opera-artista.
Conta l’ossessività del comporre in presenza del già fatto, la persistenza di materie che si ripresentano sotto altra veste, lo stare dentro l’officina del pittore come dimora totale, insostituibile, per comprendere il susseguirsi degli atti e delle ipotesi che De Alexandris risolve a modo suo.
I tagli non sono mai gli stessi eppure l’atto di tagliare è il più semplice possibile, forse è la tensione del gesto che modifica gli esiti e procura andamenti sempre diversi: segni volanti sottolineano l’obliquità dei profili, le parti sfrangiate delle stoffe, i lembi irregolari, le tracce immediate di colore puro, le geometrie ridotte al minimo indispensabile.
I colori esprimono meditazione e malinconia ma anche serenità e disincanto, hanno toni lievi e pacati, alludono alla cenere dei giorni trascorsi senza emozione ma anche al ritorno delle passioni, al mutamento che nasce quando tutto è azzerato o avvolto dall’oblio.
Inconfondibile è l’aria satura di azzurro, d’indaco o di rosa che sembra talvolta condurre verso un’immagine mistica, se non fosse che la visione di De Alexandris non consente questa direzione, ha senso in ciò che la pittura esprime, in ciò che è in grado di mostrare come schermo corporeo del visibile. Anche quando sfiora l’inesprimibile, la cosiddetta soglia del “non detto”, essa non allude ad alcuna simbologia, non evoca il sacro, esprime una “alterità” del colore senza alludere a nessun altro ordine possibile. L’evocazione- semmai- riguarda sempre la pittura, il trasalimento cromatico come luogo dello spaesamento, la misura essenziale in cui il colore si modifica nella verità fisica degli strumenti pittorici.
Nelle “osservazioni sui colori” Ludwig Wittengstein, un autore amato da De Alexandris, parla di “matematica del colore” e certo allude agli equilibri che si instaurano tra un colore e l’altro in rapporto alla misura e al peso della loro qualità visiva. Pur non volendo giungere a definire nessuna teoria fisiologica o psicologica dei colori emerge il fatto che ogni pittore crea una logica che sostiene le loro differenti relazioni. Questo vale anche se si tratta di una logica intuitiva basata sulle verifiche empiriche del linguaggio, sui meccanismi di funzionamento delle regole che presiedono gli accordi o i contrasti, la armonie o le dissonanze, le congiunzioni o le divergenze.
Nel caso, per esempio, della presenza di tracce di rosso in molteplici carte del 1993 si nota che esse agiscono come segnali vibranti rispetto alla luce trasparente del bianco e del grigio, ma anche verso i punti profondi del nero che danno l’impressione di stare dietro la superficie.
La luminosità non è più assorbita dalle velate leggerezze del bianco ma si tramuta in un campo ovattato dove il rosso squilla, tanto più intensamente quanto breve è la sua traccia. In qualche composizione basta una goccia di rosso per sigillare la superficie intorno al suo punto d’azione, in altre la sua presenza è distribuita in modo sgranato sulle strisce che pendono dall’alto e dominano con il peso espressivo dell’espansione cromatica.
Il segno rosso s’appunta volentieri al centro, spesso occupa il margine alto del foglio, in qualche caso può starsene fuori, senza mai diminuire l’efficacia della sua presenza, oppure collega gli opposti fondamenti del bianco e del nero, è in tutti i casi un elemento dominante.
Nel ciclo di carte del 2003 De Alexandris riafferma il canto sospeso della pittura nell’ampia gamma del suo respiro, lo spazio è lo specchio trasparente e leggero della messa in forma del colore, a sua volta la luce dilata i confini delle apparizioni che ogni volta si incrinano e ridefiniscono nella continua gestazione del visibile. Tornano filtrati dai sedimenti del colore materie e gesti, maniere e procedure di un passato che non si stacca dai segni inesorabili del dipingere, si rinnovano cifre e metodologie del fare che diventano parvenze mute di un discorso senza fine.
Del resto, perché dovrebbe interrompersi il viaggio dentro le stanze dell’infinito? Tutto è ancora in gioco in questo spazio che lascia intravedere lacerti di superfici consumate dal pensiero, echi di geometrie disperse, simulacri di materie sottratte all’atto del dipingere e restituite ad una diversa seduzione del colore. Il bisogno di pittura non tralascia alcuna fonte di scrittura, eleva le tracce del quotidiano a livello di una contemplazione senza tempo, “senza descrivere altro che l’atto del dipingere –ha scritto l’artista- l’ininterrotto movimento di questo atto in cui la pittura si dispiega e si riconosce”.
Questo esercizio di rispecchiamento interiore avviene anche quando lo sguardo è implicato da sollecitazioni esterne, come nelle ventisette piccole carte che compongono l’opera dedicata al “marchese ritrovato” di Finale Ligure. In questo caso De Alexandris frantuma la struttura dell’albero genealogico nella sua immagine allusiva, dispone segni e colori come tracce che si ramificano nello spazio dell’installazione parietale.
Per quanto l’unità di questi frammenti corrisponda alla totalità dell’immagine, la vera identità sta nella particolarità di ogni singola carta, nelle minime sensazioni che attraversano la loro breve misura (17x25): archeologia privata del dipingere, ricerca del tempo ritrovato nell’equilibrio di molteplici reperti.
I colori si staccano dalla struttura del segno, vanno disgregandosi nel vuoto
sospinti nel bianco come attimi sottratti allo spazio, d’altro lato le tensioni circoscritte del nero oscillano tra la fermezza compositiva e l’evocazione di luoghi segreti, altre materie fissano le coordinate del visibile attraverso fenditure in cui lo sguardo si smarrisce e si interroga.
Altre temperature emergono quando l’immagine va saturandosi nel monocromo, in zone di luce che variano di poco, come nel caso del grigio su grigio con un tocco di nero, del rosa su rosa tra due lembi di rosso, del bianco su bianco con minime tracce di altri colori, fissati l’uno dopo l’altro.
Le grammatiche d’invenzione mostrano libertà d’azione proprio in occasione di un soggetto tematico come questo, l’alfabeto delle forme è libero di trarre ispirazione dalla pittura in quanto tale, dai suoi automatismi ma anche dalle vaghezze che la poesia riserva.
Qui sta la felicità delle cose impenetrabili, la persistenza dei frammenti che sono e non significano nulla di definito, isole della memoria e luci dell’aurora- ama dire De Alexandris - presenze prossime a svanire, assenze pronte a tornare in scena, forme del silenzio interiore, carte sospese sui margini dell’infinito.
Claudio Cerritelli
colori resi al monocromo, superfici
elementari, regole e moduli semplificati,
a fronte di un’intensa vitalità pittorica.”
( Paolo Fossati, 1990)
1. La carta come genesi della pittura
Che l’uso della carta sia uno dei moventi originari della visione pittorica di Sandro De Alexandris lo indicano le ricerche iniziali del suo percorso, orientate sul valore percettivo degli spessori e sul rigore essenziale della superficie, senza che nulla all’infuori dei propri attributi fisici possa interferire o alterare la pura presenza dell’immagine.
Il metodo analitico a cui è sottoposta la forma elabora minime vibrazioni di luce, impercettibili variazioni cromatiche, differenti implicazioni fisiche della carta, specialmente quando le sue consistenze sembrano immutabili.
Siamo intorno al 1964-1965, la carta è il supporto totale per investigare il campo visivo, strumento empirico che permette a De Alexandris di concepire l’arte come luogo distante dal mondo, spazio elementare per conoscere la complessità dell’atto percettivo messo di fronte all’assenza di ogni elemento espressivo. La carta non è supporto modificabile dal gesto o dal colore ma struttura primaria che presenta se stessa, superficie assoluta dove linee segnate in modo impersonale fanno sentire il peso impalpabile della luce. I rilievi sono ottenuti dalle impronte della fustellatura ma anche da calcolate sovrapposizioni che sollecitano uno slittamento regolare della superficie tra i piani costruttivi dell’immagine.
Più che un’aspirazione tridimensionale si tratta di esplorare il registro del supporto attraverso una lieve giustapposizione che non incrina il processo di semplificazione della forma, anzi ne esalta la primarietà.
Pur oscillando dalla soluzione di “due spessori orizzontali al centro” fino alle variazioni di linee parallele l’intenzione di De Alexandris non è mai di portarsi verso il grado zero della superficie. Semmai, il progetto è quello di concentrarsi sulla soglia mentale dell’immagine, di radicalizzare la pittura senza rinunciare al suo stupore fisico, sostenendo il corpo della luce con mezzi astratti e con minime apparizioni, valori radicali comunque estranei alle logiche dell’arte concettuale.
A queste sottigliezze percettive l’artista si dedica fin dalle prime mosse della sua partita con i fondamenti pittorici, i limpidi esperimenti analitici sull’identità della carta non sono che strumenti possibili tra quelli a disposizione della sua sensibilità, mezzi per captare i meccanismi del pensiero in rapporto ai ritmi dello spazio e alle relazioni del tempo.
Il fatto che misure, moduli e variazioni lineari adottate nel periodo appena successivo (1965-1969) siano esperienze svolte con altri materiali – tavole di legno, vernici acriliche, ferri, resine, laminati plastici, poliesteri- significa che i progetti sono sostenuti da soluzioni tecniche adatte a realizzare – nel modo più efficace possibile - il mutevole strutturarsi delle forme geometriche in relazione allo spazio circostante.
Nel momento in cui la superficie esige una più evidente oggettivazione delle componenti strutturali, è la plasticità della forma ad assumere una relazione attiva e dinamica con l’ambiente. Questa scelta richiede una diversa tecnologia, una tensione costruttiva capace di giocare sull’impatto delle forme primarie, senza mai spingersi verso soluzioni minimaliste.
Anche in queste proiezioni plastiche De Alexandris rimane legato ad una sensibilità di tipo pittorico, al valore espansivo della luce e dell’ombra come mezzi di sconfinamento dai perimetri della razionalità.
Le immagini generano spostamenti e incursioni dentro le pieghe della superficie, movimenti di esplorazione nelle zone sconosciute della visione, seguendo percorsi nascosti tra il progetto dell’opera e la sua realizzazione.
Quando l’uso della carta è finalizzato a sostenere l’idea di “riverberazione cromatica” (1969) l’artista ritrova nella purezza connaturale e incontaminata di questo supporto la dimensione adeguata per materializzare le vibrazioni luminose, al limite della possibilità di lettura.
Allo stesso modo, nella successiva stagione delle “superfici incise” che dal 1974 giunge fino al 1981, l’uso del cartone è decisivo almeno quanto la punta della lama che ne svela la sostanza interna, il silenzio interiore, la potenzialità non detta, il significato sospeso sul filo dell’inesprimibile.
In questo caso, l’immagine non nasce dallo spostamento delle ortogonali, non scaturisce neppure dal gioco esatto delle diagonali che s’incrociano o delle orizzontali che ripartiscono la superficie secondo intervalli uguali; nemmeno la fisicità tattile dei rilievi è utilizzata per continuare a generare variazioni di luce nel segno del bianco.
Tutto si svela nel tempo-lavoro che coincide con la vita del progetto, ovvero con il progetto del vissuto, flusso esistenziale oggettivato nella misura del cartone-schermo dove la tensione esecutiva mette a dura prova l’artista. Egli predispone la superficie come limite di ciò che sarà possibile, conosce il peso fisico della luce, la qualità della materia che - pur in assenza di colore- riesce a trasmettere trasparenze e spessori plastici.
De Alexandris sta di fronte al supporto come spazio analogo al corpo, l’affronta senza enfasi, lo modifica con una successione di linee incise ad intervalli uguali e costanti. Lo controlla dunque ma, per deliberata costrizione, si lascia condurre nel procedimento operativo fino all’esaurimento di ogni energia psico-fisica.
L’opera nasce dal fitto strutturarsi dei solchi che l’atto di incidere lascia in evidenza come traccia fisica di una determinazione manuale che porta con sé la misura soggettiva del fare, il farsi dell’immagine attraverso la messa in opera delle possibilità della superficie.
La fisicità ossessiva del gesto agisce sul cartone con il bisturi e con l’uso del righello, il campo d’azione è delimitato da ritmi fitti e implacabili che lasciano respirare in modo diverso il perimetro, infatti i margini vengono spesso preservati dai tagli, indubbia memoria del quadro e conseguente necessità di concentrare l’immagine dentro una specie di cornice luminosa.
La luce non è dipinta ma deriva dallo stato di assenza di qualunque configurazione, scaturisce dalla consistenza della materia-supporto che si modifica e si attua come metodo in divenire, regola aperta che accetta scarti e pause all’interno del differente incidere/incedere delle linee.
Allo spettatore non resta che assumere questo procedimento di costruzione come processo di lettura soggettivo, infatti l’atto percettivo non si consuma nel colpo d’occhio, richiede tempi successivi e prolungati, tempi che fanno sprofondare il pensiero visivo in se stesso, richiuso nel proprio codice genetico almeno quanto lo è il reticolo dei segni di lama sul cartone.
2. Carte su carta e altre consonanze
Dopo la riflessione intorno alla misura mentale della pittura, senza racconto da seguire, senza storia da interpretare, si apre una differente stagione di lavoro che, a ben guardare, non si priva degli esiti raggiunti ma li riconverte in un altro ordine referenziale. E’ una fase dove l’uso della carta prende una direzione parallela, non è più matrice primaria ed estensione totale del pensiero pittorico ma ricopre un ruolo che corre con autonoma libertà d’invenzione accanto alle opere di maggiore dimensione.
Questa divaricazione avviene senza alcuna preclusione ideologica, la carta rimane un mezzo di magica sospensione che segue tutte le operazioni di De Alexandris, non esce mai di scena, anzi si rinnova nel dialogo con frammenti di tela, legni e altre materie in attesa di senso.
Il discorso dedicato al gruppo di carte documentato in questo libro non può che tenere conto di questo complesso destino della carta, al tempo stesso bisogna aver presente questo doppio piano di lavoro, interno l’uno all’altro, duplice verifica degli stessi principi costruttivi su dimensioni diverse: da un lato il formato delle “opere” oscilla tra 64x100 e 163x200 cm., dall’altro la dimensione delle “carte” varia da 14,8x19,9 a 36x62 cm.
All’inizio di questa nuova fase stanno alcuni lavori che De Alexandris realizza nel periodo 1985-89, opere sperimentate con tecniche miste che è preferibile chiamare sovrapposizioni, e non collages, in quanto i materiali non sono fissati interamente ma lasciati liberi di oscillare, di respirare, di stare sospesi in posizioni lievemente mosse, instabili, quasi in bilico.
Quasi tutte queste carte sono prive di titolo ma non è arduo riferirle ad alcuni cicli della produzione cosiddetta maggiore: tavole del poeta, passi d’ombra, fermagli del tempo, memorie del viaggiatore.
Il viaggio avviene sempre intorno alla pittura, all’interno delle sue componenti micro-fisiche, in compagnia degli strumenti operativi consueti e dei materiali in via di definizione. L’attenzione è per le stratificazioni dei frammenti trattati come ritagli del tempo, senza rinunciare alla tentazione dei colori che interferiscono con il rigore analitico del bianco e del nero.
Se si confrontano con le opere grandi si avverte che le materie delle carte sono quelle delle “sovrapposizioni” che a metà degli anni Ottanta esprimono un senso di apertura e di sconfinamento, un profondo fermento immaginativo. Non più castigata visione di analitiche presenze-assenze ma dialogo stupefatto con la dimensione tattile delle materie: varietà sorprendente di carte, cartoncini colorati, frammenti di stoffe, bastoncini di legno, velature di acquerello, tracce di inchiostro, segni di carboncino.
A questo proposito potrebbe aprirsi una ulteriore tipologia di carte, un diverso versante operativo che riguarda olii e pastelli che s’interpongono come fogli di studio, esercizi di preparazione alle tele. In questo caso, la carta è soltanto supporto senz’altra funzione che quella di esprimere una qualità del colore e delle sue variazioni segniche, materiche, espressive.
Si tratta dunque di una ricerca da considerare all’interno del concetto di studio cromatico o di bozzetto pittorico, senza ovviamente limitare l’importanza di queste prove che raggiungono esiti di forte sensibilità.
Tornando al nostro ciclo di carte, esse non vanno considerate progetti o modi provvisori in funzione delle grandi tele ma opere di breve dimensione già in se stesse compiute, partiture di note materiche e di frammenti dispersi che evocano fruscii e silenzi interni alle risonanze del colore.
La varietà degli spessori è studiata in relazione agli accordi luminosi che vanno a mano a mano definendo uno spazio carico di umori ombrosi e di bagliori intermittenti, di forme che stanno in primo piano e di altre tenute sullo sfondo, apparizioni lontane che sostengono la memoria stratificata di altre soglie, altri suoni, ulteriore parvenze che nascono quasi dal nulla.
Il termine soglia è quello che meglio comunica ciò che l’artista va fissando come limite di un racconto che non può essere detto altrimenti, sistema mutevole di tracce che mostrano l’origine e nascondono il destino o, perlomeno, guardano verso spazi di destinazione ignota. Non a caso, la struttura preferita è un piano provvisorio dove sono sovrapposte pagine che provengono da tempi e spazi lontani, fogli di diversa consistenza che si toccano l’uno con l’altro fissando istanti di pittura, presenze al margine dei margini, congiunzioni raggiunte dopo aver vagato per le vie immaginarie di altri possibili universi.
I modi in cui le carte sono assemblate seguono meccanismi compositivi di tipo istintivo, non sono più rigidamente geometriche ma tracce esitanti che galleggiano nel vuoto attraverso bilanciamenti sempre attenti a negare la simmetria tra pieni e vuoti. L’artista sottrae il visibile al puro e semplice ragionamento ottico-percettivo, può usare tutto lo spazio a disposizione oppure solo una parte di esso, misura il vuoto con il pieno, incrina l’equilibrio armonico con dissonanze all’interno di uno stesso colore.
Quello che si vede in ognuna di queste carte è il risultato di un processo ritmico di accostamenti e distanze dove i materiali sono messi in luce per suggerire una diversa pelle pittorica. I dettagli assumono un’aria instabile, stabilmente incerta sul filo delle verticali mostrando l’importanza dei bordi irregolari, le impronte imprevedibili, gli spessori incisi senza precisione, i perimetri strappati in modo che l’infinito possa entrare nel foglio.
Sulla superficie talvolta si infittiscono le strisce di carta e il loro lieve sovrapporsi fa pensare all’ansia di fermare l’andare del tempo, di tenere insieme pensieri dispersi e tracce sfuggite al vissuto, come se la memoria fosse costretta a comprimere lo spazio, fino al limite del sostenibile.
In altri casi, come per due composizioni orizzontali del 1989 (36x62 cm.), bastano pochi elementi a suggerire infiniti respiri, minime sovrapposizioni di carte dove il bianco è esaltato da lievi presenze di nero e di grigio, valori luminosi che si sottraggono alla tentazione indocile del colore. L’intenzione di De Alexandris è quella di dare durata a questa realtà sospesa sulla fragilità del tempo, di far capire che l’unico spazio possibile è quello che non ha un programma da seguire, una teoria estetica da dimostrare, un orientamento convincente per dar soluzione alle inquietudini del pensiero creativo.
Le carte giapponesi sono attimi di incanto, la leggerezza delle veline stupisce anche là dove la superficie si raggrinza sotto l’effetto del pigmento liquido, i fili che trapelano dalla carta di riso sono trame imprevedibili che l’artista sottomette al vago fluire del pensiero. La fragilità visiva di questi materiali mostra le interferenze della luce esterna a contatto con la matrice interna delle forme, nel contempo lascia emergere le vibrazioni nascoste, le qualità invisibili della carta che spesso rischiano di non essere viste.
3. Stanze e giardini, luoghi del silenzio
In una consistente serie di carte del 1990 torna il conforto dei titoli che sono in perfetta sintonia con quanto sta verificandosi nelle opere di grande dimensione, dall’astratta evocazione di soglie, margini del tempo e trasparenti elegie si passa a stanze e giardini, luoghi sospesi nel fisiologico ritmo del dipingere dove l’artista sogna l’infinito accadimento della luce.
Le sovrapposizioni sono ridotte al minimo e occupano perlopiù la parte laterale della composizione, grande rilevanza assumono i veli di carta fissati sul cartoncino di base, fondo anonimo e uniforme, piano di appoggio che funziona per distanziare la pittura, come la parete per le grandi opere.
La ricerca di variazioni luminose ricavate dalla sovrapposizione del bianco su bianco è uno dei climi espressivi che De Alexandris adotta per comunicare pensieri che trapelano da una condizione di estrema concentrazione sul peso di minime trasparenze.
Una parte preliminare della composizione può essere coperta dal tono opaco di una carta fissata in alto da alcuni frammenti e fermata in basso da un traccia di diversa consistenza. Talvolta un terzo ritaglio di carta trasparente conferisce alla composizione una profondità che accentua la presenza di ulteriori piccoli frammenti che stanno sospesi sopra il tutto. Altrove si formano addensamenti di strisce tagliate, strappate, dipinte o anche lasciate al loro stato naturale, mentre reperti di tessuto e garze un poco sfilacciate fanno pensare a brandelli di colori che si rincorrono opera dopo opera, come elementi di una scena dove la pittura recita se stessa.
E’ una pittura fatta di richiami, di cifre interne, di sottili nascondimenti e di aperture improvvise, di tremiti che sollevano i lembi per un attimo e subito li richiudono nel sigillo della superficie. Il trattamento della carta risponde alla ricerca del quoziente poetico della materia, l’ondulazione indica il lieve movimento del pensiero intorno alle pulsioni della luce e dell’ombra. L’increspatura mette in rilievo gli andamenti spontanei del materiale, le suture sembrano cicatrici della mente, le stropicciature rivelano i segni del vissuto, quella corrispondenza d’animo che l’artista filtra nello stupore di ogni frammento, nell’andamento discontinuo dei tagli e delle posizioni.
Il piacere di sovrapporre comporta l’arte del nascondere, dunque anche la sorpresa di scorgere ciò che sta sotto, ma mai del tutto: infatti più un frammento è coperto dall’altro, maggiore è il risalto dato al margine che rimane visibile. Questo è il punto di massima tensione dialettica tra vedere e intravedere, osservare e immaginare, guardare e lasciare che sia il lettore a inventare i meccanismi di lettura, i modi e i tempi di avvistamento dei movimenti costruttivi dello spazio instabile.
Non bisogna credere che non vi sia estrema sapienza in questo vagare e divagare intorno alle materie della pittura, in questo approssimarsi alla soglia dell’immagine con l’ossessione di selezionare il pieno ed il vuoto, togliendo il superfluo prima ancora di metterlo. Anche l’uso degli aspetti fortuiti presenti nei materiali non è di poco conto: le righe di un tessuto, lo strappo informe della tela, il bordo consumato della carta, il filo che si stacca dall’ordito, l’alone del colore o un’impronta involontaria. Tutto rientra nel piano predisposto dall’artista, ogni scelta è paziente attesa per un incontro con la materia che prima o poi De Alexandris sa di poter fare.
L’operazione pittorica è coscienza di saper condurre ogni residuo del visibile verso la purezza stupefatta dello sguardo, di poter restituire al piano creativo ogni complicità con il mondo ma soprattutto con la soglia della pittura intesa come giardino di luce, stanza di interminabili silenzi.
Quella del silenzio è una questione perfino ovvia per un tipo di pittura che si nutre degli umori segreti del monocromo, mettendo a distanza l’assordante spettacolo del mondo, anzi spegnendo ogni suo clamore nelle variazioni impercettibili del bianco e del nero, con qualche grigio che gli può stare accanto. Il silenzio è condizione per pensare il destino della pittura, per comporre e ricomporre i frammenti della storia privata e collettiva, per costruire il futuro attraverso le carte sparse del presente.
In effetti, la categoria del futuro non è mai stata amata da De Alexandris, il suo procedere senza bisogno di collocarsi o di rispecchiarsi in qualche tendenza creativa indica un diverso progetto artistico. Non certo l’utopia di un’avanguardia che mette a soqquadro gli statuti del linguaggio e neppure la nostalgia verso una tradizione che si difende dalle ansie della sperimentazione, piuttosto l’aspirazione a parlare del tempo soggettivo, la tensione a cercare la visione interiore nella coscienza profonda dell’essere.
Il grande silenzio del tempo soggettivo sembra guidare l’esperienza creativa come volontà di cogliere un’altra temporalità dentro la misura essenziale dello spazio pittorico, anche a rischio di ripetere gli stessi gesti, di utilizzare le stesse materie, di calcolare gli stessi spazi d’ombra e di luce. Un rischio che l’artista non ha mai evitato di correre preferendo interrogare lo spazio ai margini dell’infinito, per rimarcare il senso del fare arte nelle latitudini della poesia, seguendo i passi del viaggiatore incantato, là dove la pittura abita attraverso il gesto sospeso del suo linguaggio indicibile.
4. Veli dell’aria, isole della memoria
Collocati a distanza di dieci anni (1993-2003), incontriamo altri due cicli di carte dedicate a nuove giustapposizioni immaginative, sommovimenti di forme che sopravvivono alle derive del senso che la pittura cerca all’interno del proprio perimetro. Questa fase di lavoro non comporta evoluzioni e neppure scarti di tipo linguistico ma depositi di segni in cui l’atto creativo ascolta se stesso nell’esilio della sua realtà inafferrabile, in cui la verità dell’opera sta nel ricominciare sempre daccapo, nel ricongiungersi sempre al primo gesto. L’impressione è che il tempo lineare non esista in queste opere che nascono dalla necessità di raccogliere ritagli della memoria, frammenti del cuore, parole essenziali per continuare a sostenere l’inattualità della pittura nell’epoca della sua più drammatica estraneità rispetto al potere delle nuove tecnologie.
Tra gli artisti della sua generazione, De Alexandris è tra quelli che hanno vissuto e continuano a sostenere l’esperienza della pittura come ricerca della propria essenza, senza cercare risposte ma tenendo sempre aperta la questione della forma possibile, dello spazio e del tempo come dialogo tra conoscenza e smarrimento, razionalità ed emozione, certezza del pensiero e immaginazione senza limiti.
L’istinto di costruire spazi con elementi di sorpresa dialoga con il livello di abitudine con cui il linguaggio della pittura è costretto a fare i conti, vale a dire mezzi e materiali d’affezione che differiscono solo quando l’artista sa evocarne una diversa presenza. Questo è il territorio di ricerca che De Alexandris sa aprire a nuove invenzioni organizzando stimoli diversi all’interno del suo collaudato sistema formale, con l’accentuare -per esempio- il tema della fragilità e della leggerezza attraverso la sensibilizzazione sempre più intensa delle materie adottate.
Per garantire molteplici variazioni è decisivo il repertorio delle materie, la diversa qualità delle textures, il liscio e il ruvido, la seta e il lino, la carta sofisticata e il semplice giornale ritagliato e dipinto, varianti che acquistano peso nel lavoro minuzioso intorno ai nutrimenti della pittura.
Tutto può esser degno di nuova vita nel laboratorio dell’artista che seleziona, taglia, strappa, mette da parte, costruisce un alfabeto di carte e di stoffe pronte per entrare a far parte di nuove pagine di scrittura pittorica.
La pittura che cresce su se stessa, si muove da una campitura compatta ad un lieve sgretolarsi del pigmento, da impronte ben definite a lievi sottrazioni di colore, tracce che si modificano durante il tempo di lavoro, segni di verifica dei procedimenti creativi dell’artista. Attraverso le sue modalità compositive è possibile immaginare il cosiddetto processo esecutivo, pare di vederlo in studio, circondato dai propri strumenti, scegliere l’ocra per il bianco, il grigio per fissare un’ombra lucente del nero, un nucleo materico per bilanciare una zona vuota, una lieve traccia di carbone per fermare l’ombra del bordo.
Non si tratta di descrivere retoricamente il comportamento del pittore alle prese con il proprio spazio operativo ma di segnalare –almeno- la flagranza dei materiali presenti in studio come indicazione di una circolarità del fare e del pensare che si trasforma attraverso nuovi stimoli, senza mai uscire dal giro d’orizzonte progetto-materia-opera-artista.
Conta l’ossessività del comporre in presenza del già fatto, la persistenza di materie che si ripresentano sotto altra veste, lo stare dentro l’officina del pittore come dimora totale, insostituibile, per comprendere il susseguirsi degli atti e delle ipotesi che De Alexandris risolve a modo suo.
I tagli non sono mai gli stessi eppure l’atto di tagliare è il più semplice possibile, forse è la tensione del gesto che modifica gli esiti e procura andamenti sempre diversi: segni volanti sottolineano l’obliquità dei profili, le parti sfrangiate delle stoffe, i lembi irregolari, le tracce immediate di colore puro, le geometrie ridotte al minimo indispensabile.
I colori esprimono meditazione e malinconia ma anche serenità e disincanto, hanno toni lievi e pacati, alludono alla cenere dei giorni trascorsi senza emozione ma anche al ritorno delle passioni, al mutamento che nasce quando tutto è azzerato o avvolto dall’oblio.
Inconfondibile è l’aria satura di azzurro, d’indaco o di rosa che sembra talvolta condurre verso un’immagine mistica, se non fosse che la visione di De Alexandris non consente questa direzione, ha senso in ciò che la pittura esprime, in ciò che è in grado di mostrare come schermo corporeo del visibile. Anche quando sfiora l’inesprimibile, la cosiddetta soglia del “non detto”, essa non allude ad alcuna simbologia, non evoca il sacro, esprime una “alterità” del colore senza alludere a nessun altro ordine possibile. L’evocazione- semmai- riguarda sempre la pittura, il trasalimento cromatico come luogo dello spaesamento, la misura essenziale in cui il colore si modifica nella verità fisica degli strumenti pittorici.
Nelle “osservazioni sui colori” Ludwig Wittengstein, un autore amato da De Alexandris, parla di “matematica del colore” e certo allude agli equilibri che si instaurano tra un colore e l’altro in rapporto alla misura e al peso della loro qualità visiva. Pur non volendo giungere a definire nessuna teoria fisiologica o psicologica dei colori emerge il fatto che ogni pittore crea una logica che sostiene le loro differenti relazioni. Questo vale anche se si tratta di una logica intuitiva basata sulle verifiche empiriche del linguaggio, sui meccanismi di funzionamento delle regole che presiedono gli accordi o i contrasti, la armonie o le dissonanze, le congiunzioni o le divergenze.
Nel caso, per esempio, della presenza di tracce di rosso in molteplici carte del 1993 si nota che esse agiscono come segnali vibranti rispetto alla luce trasparente del bianco e del grigio, ma anche verso i punti profondi del nero che danno l’impressione di stare dietro la superficie.
La luminosità non è più assorbita dalle velate leggerezze del bianco ma si tramuta in un campo ovattato dove il rosso squilla, tanto più intensamente quanto breve è la sua traccia. In qualche composizione basta una goccia di rosso per sigillare la superficie intorno al suo punto d’azione, in altre la sua presenza è distribuita in modo sgranato sulle strisce che pendono dall’alto e dominano con il peso espressivo dell’espansione cromatica.
Il segno rosso s’appunta volentieri al centro, spesso occupa il margine alto del foglio, in qualche caso può starsene fuori, senza mai diminuire l’efficacia della sua presenza, oppure collega gli opposti fondamenti del bianco e del nero, è in tutti i casi un elemento dominante.
Nel ciclo di carte del 2003 De Alexandris riafferma il canto sospeso della pittura nell’ampia gamma del suo respiro, lo spazio è lo specchio trasparente e leggero della messa in forma del colore, a sua volta la luce dilata i confini delle apparizioni che ogni volta si incrinano e ridefiniscono nella continua gestazione del visibile. Tornano filtrati dai sedimenti del colore materie e gesti, maniere e procedure di un passato che non si stacca dai segni inesorabili del dipingere, si rinnovano cifre e metodologie del fare che diventano parvenze mute di un discorso senza fine.
Del resto, perché dovrebbe interrompersi il viaggio dentro le stanze dell’infinito? Tutto è ancora in gioco in questo spazio che lascia intravedere lacerti di superfici consumate dal pensiero, echi di geometrie disperse, simulacri di materie sottratte all’atto del dipingere e restituite ad una diversa seduzione del colore. Il bisogno di pittura non tralascia alcuna fonte di scrittura, eleva le tracce del quotidiano a livello di una contemplazione senza tempo, “senza descrivere altro che l’atto del dipingere –ha scritto l’artista- l’ininterrotto movimento di questo atto in cui la pittura si dispiega e si riconosce”.
Questo esercizio di rispecchiamento interiore avviene anche quando lo sguardo è implicato da sollecitazioni esterne, come nelle ventisette piccole carte che compongono l’opera dedicata al “marchese ritrovato” di Finale Ligure. In questo caso De Alexandris frantuma la struttura dell’albero genealogico nella sua immagine allusiva, dispone segni e colori come tracce che si ramificano nello spazio dell’installazione parietale.
Per quanto l’unità di questi frammenti corrisponda alla totalità dell’immagine, la vera identità sta nella particolarità di ogni singola carta, nelle minime sensazioni che attraversano la loro breve misura (17x25): archeologia privata del dipingere, ricerca del tempo ritrovato nell’equilibrio di molteplici reperti.
I colori si staccano dalla struttura del segno, vanno disgregandosi nel vuoto
sospinti nel bianco come attimi sottratti allo spazio, d’altro lato le tensioni circoscritte del nero oscillano tra la fermezza compositiva e l’evocazione di luoghi segreti, altre materie fissano le coordinate del visibile attraverso fenditure in cui lo sguardo si smarrisce e si interroga.
Altre temperature emergono quando l’immagine va saturandosi nel monocromo, in zone di luce che variano di poco, come nel caso del grigio su grigio con un tocco di nero, del rosa su rosa tra due lembi di rosso, del bianco su bianco con minime tracce di altri colori, fissati l’uno dopo l’altro.
Le grammatiche d’invenzione mostrano libertà d’azione proprio in occasione di un soggetto tematico come questo, l’alfabeto delle forme è libero di trarre ispirazione dalla pittura in quanto tale, dai suoi automatismi ma anche dalle vaghezze che la poesia riserva.
Qui sta la felicità delle cose impenetrabili, la persistenza dei frammenti che sono e non significano nulla di definito, isole della memoria e luci dell’aurora- ama dire De Alexandris - presenze prossime a svanire, assenze pronte a tornare in scena, forme del silenzio interiore, carte sospese sui margini dell’infinito.
Claudio Cerritelli
11
giugno 2006
Sandro De Alexandris – Percezione quale pulsante
Dall'undici giugno al 23 luglio 2006
arte contemporanea
Location
VALENTE ARTE CONTEMPORANEA
Finale Ligure, Via Anton Giulio Barrili, 12, (Savona)
Finale Ligure, Via Anton Giulio Barrili, 12, (Savona)
Orario di apertura
tutti i giorni 9.30-13 e 15-19
Vernissage
11 Giugno 2006, ore 11
Autore
Curatore