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Sandro Peracchio – Scarti della ragione
Le fotografie di Peracchio fissano la materia delle cose in composizioni che si pongono come momento conclusivo di una sofferta esperienza metafisica: l’immagine è la traduzione di una visione concettuale dell’anima e invita lo spettatore a inoltrarsi nella sfera dei grandi assiomi della vita.
Comunicato stampa
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Le fotografie di Sandro Peracchio fissano la materia delle cose in composizioni che si pongono come momento conclusivo di una sofferta esperienza metafisica: l’immagine è la traduzione di una visione concettuale dell’anima e invita lo spettatore a inoltrarsi nella sfera dei grandi assiomi della vita.
In Scarti della ragione gli oggetti scelti da Peracchio rientrano nei soggetti cari al genere della natura morta; egli focalizza la sua attenzione su elementi dalla vita breve e ne cristallizza a volte il momento di piena compostezza, altre volte la loro decadenza, altre ancora semplicemente il loro essere essenzialmente materia. La natura morta è qui solo un pretesto inevitabile alla messa in scena e alla concretizzazione di un’idea che può essere definita universale, ma che si riveste della poetica personale e soggettiva dell’artista; Peracchio opera come un chirurgo o un matematico, ha cioè un approccio quasi scientifico nei confronti di ciò che sceglie di fotografare riducendone ai minimi termini l’aspetto formale e costruendo geometrie che si fanno passaggi semantici. Il vero soggetto degli scatti è quindi una ricerca esistenziale che ha come atto solo finale e fisico la rappresentazione attraverso il mezzo fotografico vissuto dall’autore come un “male necessario” alla resa del suo universo concettuale.
Le foto esposte si dividono in tre gruppi che, partendo tutti dalla medesima osservazione della materia, indagano temi differenti. Il primo è composto da una serie di scatti che immortalano la carne, cruda: il soggetto qui è posto prepotentemente in primo piano, rivela la sostanza così com’è, senza frapporre filtri correttivi alla sua nudità spregiudicata. Eppure questa scelta trova dei precedenti illustri nella storia della pittura di genere, primo fra tutti il Bue squartato di Rembrandt, il quale fece del soggetto di genere motivo di tragica verità materiale.
Prima un lembo di carne domina tutta la scena, annullando la necessità dell’intrusione di alcun tipo di scenografia, o distrazione, e di porre dei limiti all’immagine; poi compare insospettabile un secondo elemento: una lama che si insinua con inquietante timidezza; infine tutto muore in un liquido indefinibile. In Il cervello nella vasca l’apparenza della visione è soggetta ad un processo di ribaltamento e vi è un’allusione alla Teoria del Riferimento di Putnam, la quale diffida che le rappresentazioni mentali si riferiscano necessariamente a specifici fenomeni esterni non dipendenti dalla mente umana stessa.
Nella seconda sessione il soggetto è una mela che gradualmente si dischiude da una pagina di giornale per apparire infine unica protagonista della composizione, la quale è caratterizzata in tutti i casi da una sospensione degli oggetti, ossia da una mancanza assoluta di piani d’appoggio e di punti fisici di riferimento, e dall’alternanza di pieni e vuoti. I titoli degli scatti diventano il verbo di un’allegoria iconografica dell’Odissea dell’essere umano che ha come fine ultimo la presa di coscienza dell’essere al mondo e la conquista di un Io dominante.
L’ultimo gruppo di fotografie è interamente dedicato alla giustapposizione di pezzi di ortaggi e frutta disposti a comporre mosaici che emergono anche qui da un fondo scuro: gli oggetti vengono decontestualizzati tanto da non essere facilmente riconoscibili, diventano colore e forma e sono disposti nello spazio in modo tale da rispondere a semplici regole geometriche che non hanno nulla a che fare con una certa “naturalezza” o spontaneità, ma che adempiono efficacemente al loro compito, ovvero esemplificare un più ampio progetto intuitivo. Eppure i tasselli di tali composizioni astratte non nascondono il loro essere materia organica destinata a perire: nei mosaici di finocchio è visibile più che altrove l’allusione alle stagioni della vita; infatti qui si insinua con prepotenza la tematica del Tempo che si dispiega nell’ “evoluzione” progressiva dei soggetti delle immagini, le quali conservano però ognuna la sua autonomia.
Peracchio trasforma gli scarti della vita quotidiana in passaggi segreti verso una riflessione esistenziale spoglia di ogni tipo di orpello e che si rivela chiara e necessaria come un assioma geometrico, una verità dunque che non può essere dimostrata ma che semplicemente è.
Sandro Peracchio nasce nel Maggio del ’62 e utilizza il mezzo fotografico da ben venticinque anni con la passione e la purezza dell’amatore ma con l’inventiva del filosofo e dell’artista; partecipa a concorsi nazionali, quale il Premio Arte della Cairo Editore nel 2009, dove alcune delle immagini in mostra, sono arrivate nella selezione finale, inoltre le sue foto vengono pubblicate su testate specifiche come Progresso Fotografico
In Scarti della ragione gli oggetti scelti da Peracchio rientrano nei soggetti cari al genere della natura morta; egli focalizza la sua attenzione su elementi dalla vita breve e ne cristallizza a volte il momento di piena compostezza, altre volte la loro decadenza, altre ancora semplicemente il loro essere essenzialmente materia. La natura morta è qui solo un pretesto inevitabile alla messa in scena e alla concretizzazione di un’idea che può essere definita universale, ma che si riveste della poetica personale e soggettiva dell’artista; Peracchio opera come un chirurgo o un matematico, ha cioè un approccio quasi scientifico nei confronti di ciò che sceglie di fotografare riducendone ai minimi termini l’aspetto formale e costruendo geometrie che si fanno passaggi semantici. Il vero soggetto degli scatti è quindi una ricerca esistenziale che ha come atto solo finale e fisico la rappresentazione attraverso il mezzo fotografico vissuto dall’autore come un “male necessario” alla resa del suo universo concettuale.
Le foto esposte si dividono in tre gruppi che, partendo tutti dalla medesima osservazione della materia, indagano temi differenti. Il primo è composto da una serie di scatti che immortalano la carne, cruda: il soggetto qui è posto prepotentemente in primo piano, rivela la sostanza così com’è, senza frapporre filtri correttivi alla sua nudità spregiudicata. Eppure questa scelta trova dei precedenti illustri nella storia della pittura di genere, primo fra tutti il Bue squartato di Rembrandt, il quale fece del soggetto di genere motivo di tragica verità materiale.
Prima un lembo di carne domina tutta la scena, annullando la necessità dell’intrusione di alcun tipo di scenografia, o distrazione, e di porre dei limiti all’immagine; poi compare insospettabile un secondo elemento: una lama che si insinua con inquietante timidezza; infine tutto muore in un liquido indefinibile. In Il cervello nella vasca l’apparenza della visione è soggetta ad un processo di ribaltamento e vi è un’allusione alla Teoria del Riferimento di Putnam, la quale diffida che le rappresentazioni mentali si riferiscano necessariamente a specifici fenomeni esterni non dipendenti dalla mente umana stessa.
Nella seconda sessione il soggetto è una mela che gradualmente si dischiude da una pagina di giornale per apparire infine unica protagonista della composizione, la quale è caratterizzata in tutti i casi da una sospensione degli oggetti, ossia da una mancanza assoluta di piani d’appoggio e di punti fisici di riferimento, e dall’alternanza di pieni e vuoti. I titoli degli scatti diventano il verbo di un’allegoria iconografica dell’Odissea dell’essere umano che ha come fine ultimo la presa di coscienza dell’essere al mondo e la conquista di un Io dominante.
L’ultimo gruppo di fotografie è interamente dedicato alla giustapposizione di pezzi di ortaggi e frutta disposti a comporre mosaici che emergono anche qui da un fondo scuro: gli oggetti vengono decontestualizzati tanto da non essere facilmente riconoscibili, diventano colore e forma e sono disposti nello spazio in modo tale da rispondere a semplici regole geometriche che non hanno nulla a che fare con una certa “naturalezza” o spontaneità, ma che adempiono efficacemente al loro compito, ovvero esemplificare un più ampio progetto intuitivo. Eppure i tasselli di tali composizioni astratte non nascondono il loro essere materia organica destinata a perire: nei mosaici di finocchio è visibile più che altrove l’allusione alle stagioni della vita; infatti qui si insinua con prepotenza la tematica del Tempo che si dispiega nell’ “evoluzione” progressiva dei soggetti delle immagini, le quali conservano però ognuna la sua autonomia.
Peracchio trasforma gli scarti della vita quotidiana in passaggi segreti verso una riflessione esistenziale spoglia di ogni tipo di orpello e che si rivela chiara e necessaria come un assioma geometrico, una verità dunque che non può essere dimostrata ma che semplicemente è.
Sandro Peracchio nasce nel Maggio del ’62 e utilizza il mezzo fotografico da ben venticinque anni con la passione e la purezza dell’amatore ma con l’inventiva del filosofo e dell’artista; partecipa a concorsi nazionali, quale il Premio Arte della Cairo Editore nel 2009, dove alcune delle immagini in mostra, sono arrivate nella selezione finale, inoltre le sue foto vengono pubblicate su testate specifiche come Progresso Fotografico
08
febbraio 2010
Sandro Peracchio – Scarti della ragione
Dall'otto febbraio al 06 marzo 2010
fotografia
Location
GALLERIA LUXARDO
Roma, Via Di Tor Di Nona, 39, (Roma)
Roma, Via Di Tor Di Nona, 39, (Roma)
Orario di apertura
da martedì a sabato ore 16 - 19,30
Vernissage
8 Febbraio 2010, ore 18,30
Autore