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Santimatti studio – Residui
La mostra presenta un percorso fotografico attraverso gli ex ospedali psichiatrici a trent’anni dalla legge Basaglia. Immagini nutrite di quei residui fatti di stanze, di suppellettili abbandonati, di attrezzature sanitarie che la legge 180 e il tempo hanno lasciato dietro di sé.
Comunicato stampa
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Domenica 14 marzo alle ore 17,30 verrà inaugurata la mostra Residui a cura del Santimatti studio. La mostra presenta un percorso fotografico attraverso gli ex ospedali psichiatrici a trent'anni dalla legge Basaglia.
Nell’introdurre brevemente questa mostra è necessario partire dallo stimolo che ha portato Filippo Giansanti e Fabrizio Pelamatti, i due componenti dello studio fotografico Santimatti, ad affrontare un tema, così inusuale, come quello delle ex strutture per la salute mentale dismesse dal 1978, in seguito alla legge 180.
A prescindere dal piacere personale per le passeggiate autunnali attraverso questi monumenti alla decadenza positivista, capaci d’infondere una pace inquietante, è indubbio che l’idea abbia preso le mosse dalla ricorrenza del trentesimo anniversario di tale legge e ad essa si riferisca, proprio perché nutritasi di quei residui fatti di stanze, di suppellettili abbandonate, di attrezzature sanitarie che sembrano uscite da un romanzo di M. Shelley , che la 180 e il tempo hanno lasciato dietro di sé.
Tuttavia Il debito con questa e con gli aspetti documentaristici che trascina con sé si esaurisce in definitiva qui, l’idea si è sviluppata in maniera del tutto distante da quella di una mostra descrittiva o dal carattere sociale con il quale avrebbe potuto facilmente presentarsi. In realtà già nello stadio embrionale e successivamente per tutta la fase di raccolta del materiale e di postproduzione, concretizzatasi fra l’autunno 2008 e l’estate 2009, è stato chiaro a entrambi l’intento di generare un lavoro dal carattere più intimistico che descrittivo. Gli stessi luoghi visitati suggerivano un approccio di questo tipo: le stanze, i corridoi, i pochi oggetti rimasti abbandonati da anni, vivevano del dramma umano che vi si era svolto e che aveva contribuito a costituire una dimensione altra, ricca di una bellezza soprannaturale e spaventosa, in cui le possibilità diventavano infinite. Le atmosfere vissute in quei momenti rimandavano alle immagini del regista e fotografo russo Andrei Tarkovsky e non è un caso che i processi stilistici adottati scoprano numerosi punti di contatto con la sua poetica fotografica.
In primis lo svuotamento progressivo della tavolozza dei colori, che spesso si riduce a freddi toni marroni o grigi su cui si posano diafane tonalità giallastre o azzurrine o in altri casi risultano desaturati fino al confine dell’assenza, essi non spariscono completamente ma si fanno slavati, evanescenti, al limite della percettibilità, non annullandosi ma riducendosi a fantasmi di se stessi accentuando ancora di più il sinistro senso della loro mancanza.
Tutto è sempre illuminato da una luce pallida e tenue che spesso lascia che sia l’ombra a descrivere gli spazi. Il silenzio dei colori rappresenta in qualche modo l’approdo ad una dimensione percettiva più quieta e raccolta, meditativa, che fa seguito al chiudersi dell’azione nell’interiorità.
Il secondo aspetto che caratterizza fortemente il loro lavoro è la composizione delle inquadrature, che sono costruite quasi sempre mediante una strutturazione dello spazio per piani paralleli in cui l’osservatore si pone con rigorosa frontalità e spesso in totale assenza della terza dimensione, quasi come icone, porzioni di realtà data. Giova a questo punto citare M. Manieri Elia il quale, con riferimento al contesto del barocco architettonico del meridione d'Italia, scrive: “La frontalità (...) esprime la declamazione di un assoluto che resta intangibile, è allegoria di un valore dato come inattingibile…”. E’ proprio questo il punto di vista che queste immagini come quelle di Tarkovsky mirano a cogliere: la realtà nel suo molteplice darsi (da qui la necessità occorsa saltuariamente di rappresentare più punti di vista del medesimo soggetto) è comunque data e drammaticamente intangibile e inattingibile per l’uomo che da questo trae una sensazione di spaventosa meraviglia. Ad accentuare la drammaticità si unisce la totale assenza di figure umane che sottolinea l’esclusione dal processo creativo e la presenza degli elementi naturali primari come l’acqua, la terra o poche tracce di vegetazione elementare, che rimandano alla greve neutralità della materia primigenia.
Il santimatti studio nasce dall’amicizia di Filippo Giansanti e Fabrizio Pelamatti, due fotografi toscani che fino al 2007 hanno svolto indipendentemente la loro attività.
Dall'autunno 2008 , per circa un anno, hanno esplorato e fotografato i resti di alcuni ospedali psichiatrici a trent'anni dalla legge Basaglia.
Il risultato è un percorso tra stanze, corridoi, suppellettili abbandonate e attrezzature sanitarie che sembrano uscite da un romanzo di M. Shelley, che il tempo e la 180 hanno lasciato dietro di sé.
Nell’introdurre brevemente questa mostra è necessario partire dallo stimolo che ha portato Filippo Giansanti e Fabrizio Pelamatti, i due componenti dello studio fotografico Santimatti, ad affrontare un tema, così inusuale, come quello delle ex strutture per la salute mentale dismesse dal 1978, in seguito alla legge 180.
A prescindere dal piacere personale per le passeggiate autunnali attraverso questi monumenti alla decadenza positivista, capaci d’infondere una pace inquietante, è indubbio che l’idea abbia preso le mosse dalla ricorrenza del trentesimo anniversario di tale legge e ad essa si riferisca, proprio perché nutritasi di quei residui fatti di stanze, di suppellettili abbandonate, di attrezzature sanitarie che sembrano uscite da un romanzo di M. Shelley , che la 180 e il tempo hanno lasciato dietro di sé.
Tuttavia Il debito con questa e con gli aspetti documentaristici che trascina con sé si esaurisce in definitiva qui, l’idea si è sviluppata in maniera del tutto distante da quella di una mostra descrittiva o dal carattere sociale con il quale avrebbe potuto facilmente presentarsi. In realtà già nello stadio embrionale e successivamente per tutta la fase di raccolta del materiale e di postproduzione, concretizzatasi fra l’autunno 2008 e l’estate 2009, è stato chiaro a entrambi l’intento di generare un lavoro dal carattere più intimistico che descrittivo. Gli stessi luoghi visitati suggerivano un approccio di questo tipo: le stanze, i corridoi, i pochi oggetti rimasti abbandonati da anni, vivevano del dramma umano che vi si era svolto e che aveva contribuito a costituire una dimensione altra, ricca di una bellezza soprannaturale e spaventosa, in cui le possibilità diventavano infinite. Le atmosfere vissute in quei momenti rimandavano alle immagini del regista e fotografo russo Andrei Tarkovsky e non è un caso che i processi stilistici adottati scoprano numerosi punti di contatto con la sua poetica fotografica.
In primis lo svuotamento progressivo della tavolozza dei colori, che spesso si riduce a freddi toni marroni o grigi su cui si posano diafane tonalità giallastre o azzurrine o in altri casi risultano desaturati fino al confine dell’assenza, essi non spariscono completamente ma si fanno slavati, evanescenti, al limite della percettibilità, non annullandosi ma riducendosi a fantasmi di se stessi accentuando ancora di più il sinistro senso della loro mancanza.
Tutto è sempre illuminato da una luce pallida e tenue che spesso lascia che sia l’ombra a descrivere gli spazi. Il silenzio dei colori rappresenta in qualche modo l’approdo ad una dimensione percettiva più quieta e raccolta, meditativa, che fa seguito al chiudersi dell’azione nell’interiorità.
Il secondo aspetto che caratterizza fortemente il loro lavoro è la composizione delle inquadrature, che sono costruite quasi sempre mediante una strutturazione dello spazio per piani paralleli in cui l’osservatore si pone con rigorosa frontalità e spesso in totale assenza della terza dimensione, quasi come icone, porzioni di realtà data. Giova a questo punto citare M. Manieri Elia il quale, con riferimento al contesto del barocco architettonico del meridione d'Italia, scrive: “La frontalità (...) esprime la declamazione di un assoluto che resta intangibile, è allegoria di un valore dato come inattingibile…”. E’ proprio questo il punto di vista che queste immagini come quelle di Tarkovsky mirano a cogliere: la realtà nel suo molteplice darsi (da qui la necessità occorsa saltuariamente di rappresentare più punti di vista del medesimo soggetto) è comunque data e drammaticamente intangibile e inattingibile per l’uomo che da questo trae una sensazione di spaventosa meraviglia. Ad accentuare la drammaticità si unisce la totale assenza di figure umane che sottolinea l’esclusione dal processo creativo e la presenza degli elementi naturali primari come l’acqua, la terra o poche tracce di vegetazione elementare, che rimandano alla greve neutralità della materia primigenia.
Il santimatti studio nasce dall’amicizia di Filippo Giansanti e Fabrizio Pelamatti, due fotografi toscani che fino al 2007 hanno svolto indipendentemente la loro attività.
Dall'autunno 2008 , per circa un anno, hanno esplorato e fotografato i resti di alcuni ospedali psichiatrici a trent'anni dalla legge Basaglia.
Il risultato è un percorso tra stanze, corridoi, suppellettili abbandonate e attrezzature sanitarie che sembrano uscite da un romanzo di M. Shelley, che il tempo e la 180 hanno lasciato dietro di sé.
14
marzo 2010
Santimatti studio – Residui
Dal 14 marzo al 09 aprile 2010
fotografia
Location
LO SPAZIO DI VIA DELL’OSPIZIO
Pistoia, Via Dell'ospizio, 26, (Pistoia)
Pistoia, Via Dell'ospizio, 26, (Pistoia)
Orario di apertura
da lunedì a domenica ore 9.30-13 e 16-20
chiuso lunedì e domenica mattina
Vernissage
14 Marzo 2010, ore 17.30
Autore