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Sarah Seidmann
La mostra ripercorre le tappe della ricerca estetico-culturale dell’artista
Comunicato stampa
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Dal 4 al 16 Novembre, l’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia propone un’ampia personale (oltre quaranta opere) dell’artista Sarah Seidmann.
La mostra, a cura di Francesca Brandes, ripercorre le tappe della ricerca estetico-culturale dell' artista: dai grandi quadri blu, realizzati con la penna biro, alle installazioni, ai Materassi, alla Lettera-documento di My Mother Passport, ai Nidi alle opere cosiddette “tascabili” (tele di grandi dimensioni ripiegate, e ridotte allo spazio di un libro).E ancora, la Sedia su cui non ci si può materialmente sedere perche' sottolinea solo il perimetro di cio' che non c'e', tavole imbandite (ma di feltro e cera) e ricercati Pacchi-dono : un universo dai contorni precisi, in cui la varietà immaginifica si coniuga alla perfezione con i tempi lunghi della memoria ed una proprietà analitica raffinata.
Ne emerge un confronto puntuale e serio con sé, prima ancora che con l’ambiente circostante; un viaggio paradigmatico e rivelatore.
L’esposizione ‐ articolata al piano nobile di Palazzo Correr e nel nuovo spazio espositivo a pianterreno ‐ è corredata da catalogo co un testo introduttivo di Francesca Brandes e Miryam Zerbi
Fino in fondo
Note su Sarah Seidmann
Ciò che serve è pensare l’arte fino in fondo.
Marcel Duchamp
Le finestre sullo studio, d’incidentale ma sontuosa bellezza, si aprono alle forme del tempo, lievemente turbinose, come sono i ricordi. Vaghe e leggere in apparenza, le visioni di Seidmann rincorrono, invece, una semplicità complicata e ricca, sicuramente élitaria. C’è stile, nonsense, alcun provincialismo in queste opere.
Sarah crede all’integrità ed al lavoro duro, e ne trae una forza di cristallo, senza esitazioni. Una realtà compiuta in se stessa, qualcosa che stabilisce le proprie leggi integralmente. Lo definirei un pensiero-progetto ‐ da cucire con mani operose e fili colorati ad annodar le dita, da segnare pazientemente (blu su infinita traccia blu), da plasmare in glasse cerose ‐ in cui l’artista è tutto: pittore, scultore, architetto, grafico, designer. Ciò che Sarah realizza non è una sintesi, si badi bene, né una riduzione ad uniformità stilistica. Quel che conta, a mio parere, sono la specificità e l’assolutezza, la struttura primaria del suo lavoro. In questa direzione, lo spettro linguistico può apparire anche ampio, mai minimale: il nucleo dell’agire sembra porsi nella relazione dialettica (sempre dialettica, fino allo spaesamento, talora…) tra il concetto che prende forma nell’immaginario dell’artista e la sua attuazione fenomenica.
Torna alla mente la purezza di Mondrian, in cui il problema sostanziale era quell’incredibile corto circuito che si manifestava tra il pensiero matematico e la sua rappresentazione. In Sarah, il passaggio avviene tra un principio quantitativo (pensieri come onde, ricordi, oggetti di cui non ci si disfa, occasioni neuronali, stimoli olfattivi: rammento l’odor di neve di certi suoi interni blu, attraverso i vetri) e la qualità del manufatto finale. Non si tratta di una proiezione: troppo facile l’equazione memoriale delle origini che, nell’artista, è sempre pudico accenno, non manifesto urlato. Piuttosto, quello di Seidmann è un approccio discorsivo. La forma che ne deriva ‐ pacco-dono, scala, nido ‐ possiede certamente la chiarezza squadernata di una proposizione geometrica, ma resta fenomeno, non monumento autoreferenziale.
Quest’arte è immaginazione, nel senso più serio e meditato; ciò significa che il filo rosso che collega idea e prassi deriva da un processo induttivo, quindi in grado di progettare. Un po’ come un anello di Moebius, in cui si evidenzi il rapporto forte tra finito ed infinito, ed emerga la responsabilità di ciò che si espone. L’atteggiamento dell’artista mi appare, allora, portatore di una fiducia logico-razionale che pone in atto una splendida utopia conoscitiva: il progetto di Seidmann si apre, sempre, ad una costante verifica dei metodi scelti per la comunicazione. Tutto ciò vuol dire anche che, nel proprio operare, Sarah utilizza un limpido impegno verso i valori della conoscenza e lo coniuga con uno spirito di trasformazione che esclude ‐ volutamente ‐ ogni pensiero estetico dogmatico. Pensare l’arte fino in fondo, questa è la necessità, e l’eco duchampiana accompagna un atto creativo inteso come genesi, come immersione nelle forme naturali, infinite, che Sarah accoglie con meraviglia. La sua è una concreta, misurata armonia, che pare esercitata con levità. Tuttavia, il metodo della leggerezza di Seidmann (di quelle lettere piegate con cura, sedie che evocano pesi senza peso, e nidi di sogni, e dolori), non è certo la leggerezza. Il mantenimento di ciò che appare come una perfetta ingenuità ‐ ma il corridoio di certe sue tele è abitato dal vento e dalle voci ‐ è invece il risultato di una disciplina ferrea e ha come premessa il dubbio. Quel dubbio che, in Sarah, pone sempre in discussione i modelli.
La poliedricità ideativa dell’artista, nell’essenziale unità metodologica, evidenzia allora una sorta di spiazzamento operativo, che avvince e commuove. All’univocità di un’analisi formale meditata, ma il più delle volte riduttiva, Seidmann contrappone l’indicazione di un territorio di libertà. Nelle sue installazioni, il mondo è creato ed articolato secondo le coordinate dell’esperienza, del gusto e del trascorrere del tempo, ma con modalità del tutto autonome: l’osservatore esamina le opere alla ricerca della chiave d’accesso, e talora trova altre domande.
Sarah ‐ dal canto suo ‐ sta al gioco, ancora una volta fino in fondo, quel gioco profondo e serio che si ricava dalle qualità fisiche dell’opera non meno che dalla griglia compositiva o dai significati. È il libero armonizzarsi delle varie facoltà umane a fare la differenza, un modo capace di racchiudere in sé ‐ in perfetto equilibrio ‐ le istanze opposte della necessità e della libertà, della regola e dell’imprevisto, dell’unità e del molteplice. In breve, il gioco nobile che tali lavori esemplificano è quello dei princìpi formativi. A questo punto, ancora una volta spiazzante, ancora interlocutoria ed ironica, Seidmann regala nelle sue opere dell’altro, una traccia supplementare, quasi un filo lanciato al di sopra della superficie tessuta (lei che ha esercitato la fiber art e l’ha declinata con ragionamenti di grande sensibilità estetica). È un motto di spirito liberatorio, non so quanto progettato, ma anch’esso significativo: la trina di merletto-cera, il disegno celato, la materia che sbuca tra le mani. Di lì sprizza il miracolo del racconto, con quell’idioma fatto d’idiomi, di echi, di umorosi sogni. Come i tre principi di Sarendip, che trovano per caso ‐ nel racconto omonimo di Walpole ‐ proprio ciò che vale di più, i tesori del mondo.
Francesca Brandes
La mostra, a cura di Francesca Brandes, ripercorre le tappe della ricerca estetico-culturale dell' artista: dai grandi quadri blu, realizzati con la penna biro, alle installazioni, ai Materassi, alla Lettera-documento di My Mother Passport, ai Nidi alle opere cosiddette “tascabili” (tele di grandi dimensioni ripiegate, e ridotte allo spazio di un libro).E ancora, la Sedia su cui non ci si può materialmente sedere perche' sottolinea solo il perimetro di cio' che non c'e', tavole imbandite (ma di feltro e cera) e ricercati Pacchi-dono : un universo dai contorni precisi, in cui la varietà immaginifica si coniuga alla perfezione con i tempi lunghi della memoria ed una proprietà analitica raffinata.
Ne emerge un confronto puntuale e serio con sé, prima ancora che con l’ambiente circostante; un viaggio paradigmatico e rivelatore.
L’esposizione ‐ articolata al piano nobile di Palazzo Correr e nel nuovo spazio espositivo a pianterreno ‐ è corredata da catalogo co un testo introduttivo di Francesca Brandes e Miryam Zerbi
Fino in fondo
Note su Sarah Seidmann
Ciò che serve è pensare l’arte fino in fondo.
Marcel Duchamp
Le finestre sullo studio, d’incidentale ma sontuosa bellezza, si aprono alle forme del tempo, lievemente turbinose, come sono i ricordi. Vaghe e leggere in apparenza, le visioni di Seidmann rincorrono, invece, una semplicità complicata e ricca, sicuramente élitaria. C’è stile, nonsense, alcun provincialismo in queste opere.
Sarah crede all’integrità ed al lavoro duro, e ne trae una forza di cristallo, senza esitazioni. Una realtà compiuta in se stessa, qualcosa che stabilisce le proprie leggi integralmente. Lo definirei un pensiero-progetto ‐ da cucire con mani operose e fili colorati ad annodar le dita, da segnare pazientemente (blu su infinita traccia blu), da plasmare in glasse cerose ‐ in cui l’artista è tutto: pittore, scultore, architetto, grafico, designer. Ciò che Sarah realizza non è una sintesi, si badi bene, né una riduzione ad uniformità stilistica. Quel che conta, a mio parere, sono la specificità e l’assolutezza, la struttura primaria del suo lavoro. In questa direzione, lo spettro linguistico può apparire anche ampio, mai minimale: il nucleo dell’agire sembra porsi nella relazione dialettica (sempre dialettica, fino allo spaesamento, talora…) tra il concetto che prende forma nell’immaginario dell’artista e la sua attuazione fenomenica.
Torna alla mente la purezza di Mondrian, in cui il problema sostanziale era quell’incredibile corto circuito che si manifestava tra il pensiero matematico e la sua rappresentazione. In Sarah, il passaggio avviene tra un principio quantitativo (pensieri come onde, ricordi, oggetti di cui non ci si disfa, occasioni neuronali, stimoli olfattivi: rammento l’odor di neve di certi suoi interni blu, attraverso i vetri) e la qualità del manufatto finale. Non si tratta di una proiezione: troppo facile l’equazione memoriale delle origini che, nell’artista, è sempre pudico accenno, non manifesto urlato. Piuttosto, quello di Seidmann è un approccio discorsivo. La forma che ne deriva ‐ pacco-dono, scala, nido ‐ possiede certamente la chiarezza squadernata di una proposizione geometrica, ma resta fenomeno, non monumento autoreferenziale.
Quest’arte è immaginazione, nel senso più serio e meditato; ciò significa che il filo rosso che collega idea e prassi deriva da un processo induttivo, quindi in grado di progettare. Un po’ come un anello di Moebius, in cui si evidenzi il rapporto forte tra finito ed infinito, ed emerga la responsabilità di ciò che si espone. L’atteggiamento dell’artista mi appare, allora, portatore di una fiducia logico-razionale che pone in atto una splendida utopia conoscitiva: il progetto di Seidmann si apre, sempre, ad una costante verifica dei metodi scelti per la comunicazione. Tutto ciò vuol dire anche che, nel proprio operare, Sarah utilizza un limpido impegno verso i valori della conoscenza e lo coniuga con uno spirito di trasformazione che esclude ‐ volutamente ‐ ogni pensiero estetico dogmatico. Pensare l’arte fino in fondo, questa è la necessità, e l’eco duchampiana accompagna un atto creativo inteso come genesi, come immersione nelle forme naturali, infinite, che Sarah accoglie con meraviglia. La sua è una concreta, misurata armonia, che pare esercitata con levità. Tuttavia, il metodo della leggerezza di Seidmann (di quelle lettere piegate con cura, sedie che evocano pesi senza peso, e nidi di sogni, e dolori), non è certo la leggerezza. Il mantenimento di ciò che appare come una perfetta ingenuità ‐ ma il corridoio di certe sue tele è abitato dal vento e dalle voci ‐ è invece il risultato di una disciplina ferrea e ha come premessa il dubbio. Quel dubbio che, in Sarah, pone sempre in discussione i modelli.
La poliedricità ideativa dell’artista, nell’essenziale unità metodologica, evidenzia allora una sorta di spiazzamento operativo, che avvince e commuove. All’univocità di un’analisi formale meditata, ma il più delle volte riduttiva, Seidmann contrappone l’indicazione di un territorio di libertà. Nelle sue installazioni, il mondo è creato ed articolato secondo le coordinate dell’esperienza, del gusto e del trascorrere del tempo, ma con modalità del tutto autonome: l’osservatore esamina le opere alla ricerca della chiave d’accesso, e talora trova altre domande.
Sarah ‐ dal canto suo ‐ sta al gioco, ancora una volta fino in fondo, quel gioco profondo e serio che si ricava dalle qualità fisiche dell’opera non meno che dalla griglia compositiva o dai significati. È il libero armonizzarsi delle varie facoltà umane a fare la differenza, un modo capace di racchiudere in sé ‐ in perfetto equilibrio ‐ le istanze opposte della necessità e della libertà, della regola e dell’imprevisto, dell’unità e del molteplice. In breve, il gioco nobile che tali lavori esemplificano è quello dei princìpi formativi. A questo punto, ancora una volta spiazzante, ancora interlocutoria ed ironica, Seidmann regala nelle sue opere dell’altro, una traccia supplementare, quasi un filo lanciato al di sopra della superficie tessuta (lei che ha esercitato la fiber art e l’ha declinata con ragionamenti di grande sensibilità estetica). È un motto di spirito liberatorio, non so quanto progettato, ma anch’esso significativo: la trina di merletto-cera, il disegno celato, la materia che sbuca tra le mani. Di lì sprizza il miracolo del racconto, con quell’idioma fatto d’idiomi, di echi, di umorosi sogni. Come i tre principi di Sarendip, che trovano per caso ‐ nel racconto omonimo di Walpole ‐ proprio ciò che vale di più, i tesori del mondo.
Francesca Brandes
04
novembre 2008
Sarah Seidmann
Dal 04 al 16 novembre 2008
arte contemporanea
Location
ISTITUTO ROMENO DI CULTURA E RICERCA UMANISTICA – PALAZZO CORRER
Venezia, Campo Santa Fosca (Cannaregio), 2214, (Venezia)
Venezia, Campo Santa Fosca (Cannaregio), 2214, (Venezia)
Orario di apertura
tutti i giorni 10-12 e 16-19
Vernissage
4 Novembre 2008, ore 18.30
Autore
Curatore