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Savino Marseglia – Gli uccelli non fanno rumore
L’artista si auto-fotografa, lungo una striscia di bituminoso asfalto, con in mano una scatola di sementi, si china e inizia a dare da mangiare agli uccelli. L’asfalto si carica di ogni connotazione negativa possibile, metafora di un territorio “cementificato” da un uomo, che ha sfidato ogni legame con la natura.
Comunicato stampa
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Gli uccelli non fanno rumore
Al pari di altri artisti appartenenti alla generazione degli anni settanta, Savino Marseglia ha finalizzato la sua ricerca creativa verso l’arte concettuale, privilegiando una dimensione squisitamente mentale e speculativa, che tende alla scomposizione di una realizzazione poetica, più che ad incarnarsi in un embrione formale preciso, tangibile e percettivamente fruibile. Un’esperienza artistica che disdegna la produzione di opere in senso tradizionale, e che trova la propria ragion d’essere in una molteplicità di linguaggi e visioni spesso accomunati da una volontà in cui domina l’assenza del preconcetto e che si pone in maniera disincantata nei confronti della realtà culturale e dell’immagine quotidiana della società.
Marseglia propone una dimensione della sperimentazione che va ben oltre il puro godimento estetico, avviando lo spettatore ad una riflessione sul rapporto problematico e conflittuale con il reale, caricandosi in questo di valenze dichiaratamente provocatorie, ma anche simboliche che attingono a molteplici ambiti, come quello della politica, della cultura, dei media e dell’ambiente. Questi intenti trovano la loro esplicitazione in particolari forme artistiche che privilegiano la gestualità del corpo, o a particolari operazioni che coinvolgono il linguaggio e la parola, con attenzione particolare alla letteratura libertaria.
Pur trattandosi di un artista eclettico e dotato di tecnica stupefacente, Marseglia non ha mai voluto soggiacere ad una sperequazione stilistica improduttiva e insoddisfacente: egli infatti ha da sempre finalizzato gli esiti della propria ricerca linguistica al primato dell’evento, che vede nell’ambiente urbano il palcoscenico muto di un’azione, basata sulle dimensioni dello spazio, del tempo, del corpo e della relazione tra artista e pubblico. Uno spazio esterno quasi sempre, costituito da piazze, giardini, strade immortalate dal gesto dell’artista in un microcosmo costituito da piccoli e grandi elementi naturali e artificiali. Il corpo diventa l’epicentro dell’azione teatrale, un corpo imprevedibile e flessibile, a seconda del punto di vista in cui viene ripreso, calato in una sorta di dinamica attesa.
L’artista si auto-fotografa, lungo una striscia di bituminoso asfalto, con in mano una scatola di sementi, si china e inizia a dare da mangiare agli uccelli. L’asfalto si carica di ogni connotazione negativa possibile, metafora di un territorio “cementificato” da un uomo, che ha sfidato ogni legame con la natura. Le piante che “bucano” l’asfalto ci lasciano capire che la natura è invincibile ed è sempre pronta a riprendersi quello che le è stato tolto. Ad un certo punto l’artista si avvicina alle piante che affiorano dal catrame: il suo è un gesto lento, discreto, pieno del rispetto che si deve al mistero che si cela attorno a lui. Nella fessura del catrame, egli pone dei semi, da cui germoglierà una pianta che sarà il futuro nutrimento di uccelli e altri organismi viventi. Con sé ha una bottiglia di acqua, che versa nella fessura. L’acqua consentirà al seme di dare i suoi frutti, continuando a produrre nutrimento. Un gesto antico quello dell’annaffiare come antica è la vita. Un gesto che porta con sé il senso profondo della dedizione e della responsabilità nei confronti del proprio ambiente: un gesto così antico che rende l’artista strumento di una nuova vita in un simbolico giardino delle origini. Dietro alla piantina, imprigionata tra i granuli neri di catrame, vi è il senso ultimo del rapporto tra uomo, società e ambiente, dinanzi ad un pianeta costantemente minacciato e assediato. L’artista invita gli uomini a mutare il proprio atteggiamento nei confronti di uno sfruttamento indiscriminato della natura e dell’ambiente.
Marseglia propone uno sguardo nuovo e antico a un tempo: il pianeta deve essere percepito come un giardino, da custodire e amare con dedizione e cura. Davvero l’artista dimostra qui di saper leggere i segni dei tempi e di saper render comprensibile il senso profondo del legame che ci lega all’ambiente. Così procede Marseglia che potremo fino in fondo dire nostro contemporaneo.
Al pari di altri artisti appartenenti alla generazione degli anni settanta, Savino Marseglia ha finalizzato la sua ricerca creativa verso l’arte concettuale, privilegiando una dimensione squisitamente mentale e speculativa, che tende alla scomposizione di una realizzazione poetica, più che ad incarnarsi in un embrione formale preciso, tangibile e percettivamente fruibile. Un’esperienza artistica che disdegna la produzione di opere in senso tradizionale, e che trova la propria ragion d’essere in una molteplicità di linguaggi e visioni spesso accomunati da una volontà in cui domina l’assenza del preconcetto e che si pone in maniera disincantata nei confronti della realtà culturale e dell’immagine quotidiana della società.
Marseglia propone una dimensione della sperimentazione che va ben oltre il puro godimento estetico, avviando lo spettatore ad una riflessione sul rapporto problematico e conflittuale con il reale, caricandosi in questo di valenze dichiaratamente provocatorie, ma anche simboliche che attingono a molteplici ambiti, come quello della politica, della cultura, dei media e dell’ambiente. Questi intenti trovano la loro esplicitazione in particolari forme artistiche che privilegiano la gestualità del corpo, o a particolari operazioni che coinvolgono il linguaggio e la parola, con attenzione particolare alla letteratura libertaria.
Pur trattandosi di un artista eclettico e dotato di tecnica stupefacente, Marseglia non ha mai voluto soggiacere ad una sperequazione stilistica improduttiva e insoddisfacente: egli infatti ha da sempre finalizzato gli esiti della propria ricerca linguistica al primato dell’evento, che vede nell’ambiente urbano il palcoscenico muto di un’azione, basata sulle dimensioni dello spazio, del tempo, del corpo e della relazione tra artista e pubblico. Uno spazio esterno quasi sempre, costituito da piazze, giardini, strade immortalate dal gesto dell’artista in un microcosmo costituito da piccoli e grandi elementi naturali e artificiali. Il corpo diventa l’epicentro dell’azione teatrale, un corpo imprevedibile e flessibile, a seconda del punto di vista in cui viene ripreso, calato in una sorta di dinamica attesa.
L’artista si auto-fotografa, lungo una striscia di bituminoso asfalto, con in mano una scatola di sementi, si china e inizia a dare da mangiare agli uccelli. L’asfalto si carica di ogni connotazione negativa possibile, metafora di un territorio “cementificato” da un uomo, che ha sfidato ogni legame con la natura. Le piante che “bucano” l’asfalto ci lasciano capire che la natura è invincibile ed è sempre pronta a riprendersi quello che le è stato tolto. Ad un certo punto l’artista si avvicina alle piante che affiorano dal catrame: il suo è un gesto lento, discreto, pieno del rispetto che si deve al mistero che si cela attorno a lui. Nella fessura del catrame, egli pone dei semi, da cui germoglierà una pianta che sarà il futuro nutrimento di uccelli e altri organismi viventi. Con sé ha una bottiglia di acqua, che versa nella fessura. L’acqua consentirà al seme di dare i suoi frutti, continuando a produrre nutrimento. Un gesto antico quello dell’annaffiare come antica è la vita. Un gesto che porta con sé il senso profondo della dedizione e della responsabilità nei confronti del proprio ambiente: un gesto così antico che rende l’artista strumento di una nuova vita in un simbolico giardino delle origini. Dietro alla piantina, imprigionata tra i granuli neri di catrame, vi è il senso ultimo del rapporto tra uomo, società e ambiente, dinanzi ad un pianeta costantemente minacciato e assediato. L’artista invita gli uomini a mutare il proprio atteggiamento nei confronti di uno sfruttamento indiscriminato della natura e dell’ambiente.
Marseglia propone uno sguardo nuovo e antico a un tempo: il pianeta deve essere percepito come un giardino, da custodire e amare con dedizione e cura. Davvero l’artista dimostra qui di saper leggere i segni dei tempi e di saper render comprensibile il senso profondo del legame che ci lega all’ambiente. Così procede Marseglia che potremo fino in fondo dire nostro contemporaneo.
08
marzo 2009
Savino Marseglia – Gli uccelli non fanno rumore
08 marzo 2009
arte contemporanea
performance - happening
performance - happening
Location
VIA GALILEO FERRARIS
Prato, Via Galileo Ferraris, (Prato)
Prato, Via Galileo Ferraris, (Prato)
Vernissage
8 Marzo 2009, ore 15
Autore
Curatore