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Scultura lingua morta. Scultura nell’Italia fascista
L’esposizione – che raccoglie oltre quaranta opere realizzate con materiali e tecniche diverse (bronzo, terracotta, ceramica, gesso, mosaico, policromia, doratura, ecc.) – cerca di guardare con animo sereno, privo da un lato di pregiudizi, dall’altro di finalità revisionistiche, ad un periodo storico-artistico importante del nostro paese…
Comunicato stampa
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"Poesia, musica, architettura e pittura si tradussero come le lingue antiche nei successivi volgari, aderendo alla vita. Soltanto la scultura restò immobile nei secoli, lingua aulica e sacerdotale, simbolica scrittura incapace di svolgersi nei moti quotidiani... La scultura resta quello che è: lingua morta che non ha volgare, nè potrà mai essere parola spontanea fra gli uomini".
Così scriveva Arturo Martini nel 1945, in una breve raccolta di riflessioni intitolata appunto “Scultura lingua morta”. Considerazioni amare, inevitabile conseguenza anche del ruolo aulico e celebrativo che all’arte scultorea era stato affidato dal regime fascista, per il quale lo stesso Martini aveva realizzato numerosi lavori. Tuttavia Martini fu anche il primo a realizzare un monumento alla Resistenza e resta comunque il fatto che gli artisti che operarono anche su committenza fascista seppero mantenere e sviluppare una loro personalità ed autonomia di linguaggio, nonostante le “indicazioni” e le direttive del regime.
L’approccio alla monumentalità, reso necessario in questo periodo, è stato comunque diverso da parte di ciascun dei grandi maestri attorno alla cui opera pubblica si sviluppa la mostra intitolata “Scultura lingua morta. Scultura nell’Italia fascista”, che si aprirà al Mart di Rovereto dal 28 ottobre 2003 al 14 dicembre 2003: Libero Andreotti, Arturo Martini, Fausto Melotti e Lucio Fontana, tra i principali protagonisti dell’arte italiana del ‘900.
Alcune tra le più significative opere commissionate dal regime di Mussoli a questi artisti, spesso in collegamento con le grandi iniziative architettoniche dell’epoca e con la pianificazione urbana di molte città, saranno esposte a Rovereto, affiancate ai lavori di altri autori del periodo come Eugenio Baroni, Marino Marini, Giò Ponti, Giacomo Manzù, ecc.
La mostra, promossa dallo Henry Moore Institute di Leeds - dove è stata allestita in prima sede - giunge in Italia grazie ai proficui rapporti di scambio e di collaborazione scientifica, instaurati dal Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto con alcune importanti istituzioni internazionali, soprattutto in relazione all’apertura della nuova e prestigiosa sede firmata da Mario Botta e Giulio Andreolli.
Curata da Penelope Curtis, direttrice dell’Istituto inglese, l’esposizione - che raccoglie oltre quaranta opere realizzate con materiali e tecniche diverse (bronzo, terracotta, ceramica, gesso, mosaico, policromia, doratura, ecc.) - cerca di guardare con animo sereno, privo da un lato di pregiudizi, dall’altro di finalità revisionistiche, ad un periodo storico-artistico importante del nostro paese e ad una produzione scultorea che, pur influenzata dai desideri, dalle aspirazioni e dalle esigenze di propaganda del regime, ha inciso nei successivi sviluppi dell’arte scultorea del ‘900 italiano, sviluppandosi tra monumentalità e modernismo.
La mostra si struttura in tre momenti, tematicamente distinti e definiti: l'eredità del passato, l'immagine della vittoria e la questione aperta sul futuro della scultura in epoca moderna, questione sintetizzata appunto nel famoso pamphlet di Arturo Martini.
Il rapporto con il classicismo all’epoca fu ambivalente. La cultura classica fu ripresa con finalità celebrative e trionfalistiche ma anche contestata ed oggetto di dibattiti accesi sul ruolo e sul significato che ad essa andava attribuito. C’è chi scelse un ‘italianità ed un nazionalismo eclatante ed imperialistico, fatto di colossali sculture, e chi invece optò per un nazionalismo più intimo e familiare, trovando gli uni e gli altri le loro fonti nelle contemporanee scoperte archeologiche (dalla monumentali ville di Ostia e Pompei fino ai reperti etruschi legati maggiormente alla quotidianità). All’insegna di uno stile nazionale più “intimo” e “familiare” fu, per esempio, la collaborazione tra Giò Ponti e Libero Andreotti, come evidenziano la gioiosa urna disegnata dai due artisti, dal titolo “Conversazione classica” – che mostra tutta l’ambiguità delle tematiche del classicismo - e più generalmente le allegre sirenette in gesso di Andreotti, di cui vi sono alcuni esempi in mostra e che hanno un riferimento sufficientemente serio alla tradizione marinara del “mare nostrum”.
Il tema dell’atleta, tema classico e moderno, strettamente associato sia all’antica Roma che al regime fascista, fu ripreso e svolto in modi molto diversi: spinto fino al ridicolo nello “Sciatore alpino nudo ” di Baroni, per il Foro Mussolini (di cui verrà esposto il bozzetto in gesso, assieme ad un altro Sciatore, alla Fiocina e al Giavellotto) oppure ambivalente, come nel “Pugile” di Marini: opera del ’35 della collezione del Mart.
La figura del David (tema affrontato in mostra da Venanzio Crocetta, Mirko Basaldella e Giacomo Manzù) e quella dei lottatori (significativa l’opera in bronzo di Aroldo Bellini per il Podio del Duce allo Stadio dei Marmi) creano il collegamento con il classicismo rinascimentale, mentre la rappresentazione di Polimnia, musa degli inni e della pantomima di Melotti, sembra rifarsi non solo alla posa classica ma anche ad un famoso ritrovamento marino di quegli anni, per quanto riguarda il sostegno.
Melotti spingeva per un classicismo più legato al “linguaggio” greco che a quello romano, fondato sulla cultura anziché sull’Impero: l’opera “Senza titolo” (marmo, mosaico, gesso dipinto e ottone) è appunto una riflessione sul ruolo dell’artista attraverso i diversi tipi di linguaggio, astratto e figurativo.
Presenti al Mart di Rovereto in quest’occasione anche le opere che Melotti realizzò per la Triennale del ’40: figure rappresentanti le Arti, che evidenziano, in quegli anni, una produzione ormai “imbavagliata” e un linguaggio sostanzialmente limitato; lo stesso Lucio Fontana, ormai trasferito in Argentina, inviò per l’esposizione un mosaico con la Medusa: ben poca cosa rispetto alla partecipazione alla Triennale del ’36. “ L’arte - scrive nel suo saggio in catalogo Penelope Curtis.- era tornata a interpretare un ruolo rappresentativo e allegorico separato e singolare.
La scultura italiana riuscì tuttavia a mantenere una sua identità anche in questa fase grazie all’interscambio tra le arti e soprattutto allo sviluppo delle arti decorative o applicate alle quali si dedicarono con maggior fervore, anche per ragioni economiche, molti artisti del tempo
La collaborazione di Melotti, Fontana e Andreotti con società commerciali, la ricerca svolta sulle ceramiche coloratissime e sugli smalti o il ricorso alla malleabile creta hanno comunque conferito all’opera scultorea di quegli anni spazi di originalità e di alta qualità, basti pensare alle sculture in argilla di Fontana, sia profane che sacre, come quelle realizzate per le lapidi del cimitero monumentale di Milano, tra le quali l’ ”Angelo per la Tomba Chinelli”, esposto in mostra.
L’immagine della scultura di Lucio Fontana per la “Sala della Vittoria”, nel Salone d’onore della Triennale di Milano del 1935, inaugurata a pochi giorni dal rientro del Duce conquistatore di Addis Abeba, divenne presto l’icona di un’epoca. Il gruppo di Fontana era in gesso e non esiste più: opera realizzata per far colpo, non per durare.
La sezione della mostra dedicata alla Vittoria propone figure legate ai momenti principali della storia monumentale dell’Italia fascista: l’Arco memoriale del 1928 a Milano, il Monumento al Duca d’Aosta del 1932, la Sala della Vittoria del ’36 e l’Esposizione internazionale del 1942.
Singolare la “Vittoria “per il Monumento al Fante, di Eugenio Baroni: si tratta di uno degli studi esposti alla Biennale di Venezia del ’26, per un progetto cui Baroni aveva lavorato fin dal 1920, partecipando al concorso nazionale per il monumento destinato al Monte San Michele, in ricordo della Prima Guerra Mondiale.
La sua idea di una via crucis laica, basata su un realismo sintetico ed espressivo, aveva incontrato tuttavia forti pareri negativi anche da parte di critici come la Sarfatti e, nonostante l’appoggio del comitato promotore e di diverse associazioni di combattenti, le accuse di “disfattismo e di leninismo” fecero sì che il suo progetto non fosse accettato.
I bozzetti in gesso di Libero Andreotti - che si definiva con rassegnazione e sarcasmo “monumentajo per forza” e che mal sopportava le invadenze e le pressioni della committenza fascista - rappresentano l’estremo tentativo dell’artista toscano di affermare la propria libertà d’immaginazione. Nel Monumento che Milano intendeva dedicare ai Caduti e alla Vittoria, egli voleva bandire la retorica dei gesti e degli sguardi, ridurre i simboli, confidare nella sola bellezza del corpo: invece ancora una volta si trovò soffocato da troppe idee celebrative e paludate, tanto che i due gruppi con “L’intervento “ e “il ritorno dell’eroe” non venero portati a termine. Sempre esposti in quest’occasione anche un bronzo, alto poco più di un’ottantina di centimetri, di Arturo Martini (in collezione privata), raffigurante la “Vittoria che cammina” e lavori di Broggini e Arpesani. Strettamente connesso al tema della Vittoria vi è quello del Cavallo: altro simbolo ricorrente dell’iconogafia ufficiale e celebrativa, legato all’idea del condottiero ma anche alla tradizione imperiale di Roma, al mito della fondazione della Città Eterna, ricordato dal monumentale gruppo dei Dioscuri a cavallo, in Campidoglio.
I Cavalli di Marini, di cui uno sarà in mostra, così come quelli di Morbiducci rientrano in questa contesto simbolico.
L’ultima sezione della mostra allestita al Mart di Rovereto, dà spazio alla sensazione di una fine vicina, espressa da Martini nel suo libello del ’46.
Nel suo testo Martini sembra aver sviluppato un orrore per le forme rigide e ripetitive della scultura, considerandola inseparabilmente legata alla morte.
Così, saranno esposte tre opere emblematiche di questo “sentire”: una scultura che ricorda un aviatore italiano morto a Dagahbur nel ’35 e decapitato dagli etiopi; la tomba di una ballerina ribattezzata Tersicore, come la musa greca della danza, e la famosissima “Morte di Saffo”. Morte e richiamo all’antico ma anche tentativo di far sopravvivere la scultura – come sembra emergere dal testo dello stesso artista – liberandola dalla statua.
L’invenzione di “Saffo è appunto il tentativo di trascendere la forma pura e semplice della statua, di astrarsi dalla materia e dai confini della rappresentazione, aspirando forse ad un arte senza vincoli.
In occasione della mostra “Scultura lingua morta. Scultura nell’Italia fascista” il Mart rende omaggio a Othmar Winkler, scultore altoatesino tra i più noti del secolo appena passato. Attraverso un nucleo di opere provenienti da importanti collezioni pubbliche e private, la rassegna intende ricostruire la stagione romana dello scultore, che soggiornò nella capitale negli anni Trenta.
Nato a Brunico – allora parte dell’Austria asburgica - nel 1907, Winkler fu pienamente partecipe del dibattito artistico che si sviluppò a Roma nel periodo dell’affermazione del regime fascista, pur mantenendo un’originalità di linguaggio che costantemente richiama la tradizione storica e artistica della sua terra.
Ne sono testimonianza le prime prove giovanili, Beduino (1928, collezione privata) e Madonna (1928, collezione privata), realizzate ad Ortisei negli anni dell’apprendistato presso la bottega di un intagliatore del legno.
Con opere quali Il vendicatore (1930, Roma, Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea), lo scultore si accosta ai temi e ai modi dominanti nel periodo della costruzione del consenso, declinati tuttavia in maniera del tutto personale, attraverso l’uso espressionistico del legno, nel quale si legge la matrice nordica della sua ricerca.
Infine, una Madonna lignea (1938) di collezione privata introduce il discorso sul rapporto di Winkler con l’arte sacra, tra i più fecondi e dibattuti nel panorama artistico italiano del Novecento, fino alla realizzazione dei celebri cicli della Via crucis di Lavis, Bressanone, e Trento.
Così scriveva Arturo Martini nel 1945, in una breve raccolta di riflessioni intitolata appunto “Scultura lingua morta”. Considerazioni amare, inevitabile conseguenza anche del ruolo aulico e celebrativo che all’arte scultorea era stato affidato dal regime fascista, per il quale lo stesso Martini aveva realizzato numerosi lavori. Tuttavia Martini fu anche il primo a realizzare un monumento alla Resistenza e resta comunque il fatto che gli artisti che operarono anche su committenza fascista seppero mantenere e sviluppare una loro personalità ed autonomia di linguaggio, nonostante le “indicazioni” e le direttive del regime.
L’approccio alla monumentalità, reso necessario in questo periodo, è stato comunque diverso da parte di ciascun dei grandi maestri attorno alla cui opera pubblica si sviluppa la mostra intitolata “Scultura lingua morta. Scultura nell’Italia fascista”, che si aprirà al Mart di Rovereto dal 28 ottobre 2003 al 14 dicembre 2003: Libero Andreotti, Arturo Martini, Fausto Melotti e Lucio Fontana, tra i principali protagonisti dell’arte italiana del ‘900.
Alcune tra le più significative opere commissionate dal regime di Mussoli a questi artisti, spesso in collegamento con le grandi iniziative architettoniche dell’epoca e con la pianificazione urbana di molte città, saranno esposte a Rovereto, affiancate ai lavori di altri autori del periodo come Eugenio Baroni, Marino Marini, Giò Ponti, Giacomo Manzù, ecc.
La mostra, promossa dallo Henry Moore Institute di Leeds - dove è stata allestita in prima sede - giunge in Italia grazie ai proficui rapporti di scambio e di collaborazione scientifica, instaurati dal Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto con alcune importanti istituzioni internazionali, soprattutto in relazione all’apertura della nuova e prestigiosa sede firmata da Mario Botta e Giulio Andreolli.
Curata da Penelope Curtis, direttrice dell’Istituto inglese, l’esposizione - che raccoglie oltre quaranta opere realizzate con materiali e tecniche diverse (bronzo, terracotta, ceramica, gesso, mosaico, policromia, doratura, ecc.) - cerca di guardare con animo sereno, privo da un lato di pregiudizi, dall’altro di finalità revisionistiche, ad un periodo storico-artistico importante del nostro paese e ad una produzione scultorea che, pur influenzata dai desideri, dalle aspirazioni e dalle esigenze di propaganda del regime, ha inciso nei successivi sviluppi dell’arte scultorea del ‘900 italiano, sviluppandosi tra monumentalità e modernismo.
La mostra si struttura in tre momenti, tematicamente distinti e definiti: l'eredità del passato, l'immagine della vittoria e la questione aperta sul futuro della scultura in epoca moderna, questione sintetizzata appunto nel famoso pamphlet di Arturo Martini.
Il rapporto con il classicismo all’epoca fu ambivalente. La cultura classica fu ripresa con finalità celebrative e trionfalistiche ma anche contestata ed oggetto di dibattiti accesi sul ruolo e sul significato che ad essa andava attribuito. C’è chi scelse un ‘italianità ed un nazionalismo eclatante ed imperialistico, fatto di colossali sculture, e chi invece optò per un nazionalismo più intimo e familiare, trovando gli uni e gli altri le loro fonti nelle contemporanee scoperte archeologiche (dalla monumentali ville di Ostia e Pompei fino ai reperti etruschi legati maggiormente alla quotidianità). All’insegna di uno stile nazionale più “intimo” e “familiare” fu, per esempio, la collaborazione tra Giò Ponti e Libero Andreotti, come evidenziano la gioiosa urna disegnata dai due artisti, dal titolo “Conversazione classica” – che mostra tutta l’ambiguità delle tematiche del classicismo - e più generalmente le allegre sirenette in gesso di Andreotti, di cui vi sono alcuni esempi in mostra e che hanno un riferimento sufficientemente serio alla tradizione marinara del “mare nostrum”.
Il tema dell’atleta, tema classico e moderno, strettamente associato sia all’antica Roma che al regime fascista, fu ripreso e svolto in modi molto diversi: spinto fino al ridicolo nello “Sciatore alpino nudo ” di Baroni, per il Foro Mussolini (di cui verrà esposto il bozzetto in gesso, assieme ad un altro Sciatore, alla Fiocina e al Giavellotto) oppure ambivalente, come nel “Pugile” di Marini: opera del ’35 della collezione del Mart.
La figura del David (tema affrontato in mostra da Venanzio Crocetta, Mirko Basaldella e Giacomo Manzù) e quella dei lottatori (significativa l’opera in bronzo di Aroldo Bellini per il Podio del Duce allo Stadio dei Marmi) creano il collegamento con il classicismo rinascimentale, mentre la rappresentazione di Polimnia, musa degli inni e della pantomima di Melotti, sembra rifarsi non solo alla posa classica ma anche ad un famoso ritrovamento marino di quegli anni, per quanto riguarda il sostegno.
Melotti spingeva per un classicismo più legato al “linguaggio” greco che a quello romano, fondato sulla cultura anziché sull’Impero: l’opera “Senza titolo” (marmo, mosaico, gesso dipinto e ottone) è appunto una riflessione sul ruolo dell’artista attraverso i diversi tipi di linguaggio, astratto e figurativo.
Presenti al Mart di Rovereto in quest’occasione anche le opere che Melotti realizzò per la Triennale del ’40: figure rappresentanti le Arti, che evidenziano, in quegli anni, una produzione ormai “imbavagliata” e un linguaggio sostanzialmente limitato; lo stesso Lucio Fontana, ormai trasferito in Argentina, inviò per l’esposizione un mosaico con la Medusa: ben poca cosa rispetto alla partecipazione alla Triennale del ’36. “ L’arte - scrive nel suo saggio in catalogo Penelope Curtis.- era tornata a interpretare un ruolo rappresentativo e allegorico separato e singolare.
La scultura italiana riuscì tuttavia a mantenere una sua identità anche in questa fase grazie all’interscambio tra le arti e soprattutto allo sviluppo delle arti decorative o applicate alle quali si dedicarono con maggior fervore, anche per ragioni economiche, molti artisti del tempo
La collaborazione di Melotti, Fontana e Andreotti con società commerciali, la ricerca svolta sulle ceramiche coloratissime e sugli smalti o il ricorso alla malleabile creta hanno comunque conferito all’opera scultorea di quegli anni spazi di originalità e di alta qualità, basti pensare alle sculture in argilla di Fontana, sia profane che sacre, come quelle realizzate per le lapidi del cimitero monumentale di Milano, tra le quali l’ ”Angelo per la Tomba Chinelli”, esposto in mostra.
L’immagine della scultura di Lucio Fontana per la “Sala della Vittoria”, nel Salone d’onore della Triennale di Milano del 1935, inaugurata a pochi giorni dal rientro del Duce conquistatore di Addis Abeba, divenne presto l’icona di un’epoca. Il gruppo di Fontana era in gesso e non esiste più: opera realizzata per far colpo, non per durare.
La sezione della mostra dedicata alla Vittoria propone figure legate ai momenti principali della storia monumentale dell’Italia fascista: l’Arco memoriale del 1928 a Milano, il Monumento al Duca d’Aosta del 1932, la Sala della Vittoria del ’36 e l’Esposizione internazionale del 1942.
Singolare la “Vittoria “per il Monumento al Fante, di Eugenio Baroni: si tratta di uno degli studi esposti alla Biennale di Venezia del ’26, per un progetto cui Baroni aveva lavorato fin dal 1920, partecipando al concorso nazionale per il monumento destinato al Monte San Michele, in ricordo della Prima Guerra Mondiale.
La sua idea di una via crucis laica, basata su un realismo sintetico ed espressivo, aveva incontrato tuttavia forti pareri negativi anche da parte di critici come la Sarfatti e, nonostante l’appoggio del comitato promotore e di diverse associazioni di combattenti, le accuse di “disfattismo e di leninismo” fecero sì che il suo progetto non fosse accettato.
I bozzetti in gesso di Libero Andreotti - che si definiva con rassegnazione e sarcasmo “monumentajo per forza” e che mal sopportava le invadenze e le pressioni della committenza fascista - rappresentano l’estremo tentativo dell’artista toscano di affermare la propria libertà d’immaginazione. Nel Monumento che Milano intendeva dedicare ai Caduti e alla Vittoria, egli voleva bandire la retorica dei gesti e degli sguardi, ridurre i simboli, confidare nella sola bellezza del corpo: invece ancora una volta si trovò soffocato da troppe idee celebrative e paludate, tanto che i due gruppi con “L’intervento “ e “il ritorno dell’eroe” non venero portati a termine. Sempre esposti in quest’occasione anche un bronzo, alto poco più di un’ottantina di centimetri, di Arturo Martini (in collezione privata), raffigurante la “Vittoria che cammina” e lavori di Broggini e Arpesani. Strettamente connesso al tema della Vittoria vi è quello del Cavallo: altro simbolo ricorrente dell’iconogafia ufficiale e celebrativa, legato all’idea del condottiero ma anche alla tradizione imperiale di Roma, al mito della fondazione della Città Eterna, ricordato dal monumentale gruppo dei Dioscuri a cavallo, in Campidoglio.
I Cavalli di Marini, di cui uno sarà in mostra, così come quelli di Morbiducci rientrano in questa contesto simbolico.
L’ultima sezione della mostra allestita al Mart di Rovereto, dà spazio alla sensazione di una fine vicina, espressa da Martini nel suo libello del ’46.
Nel suo testo Martini sembra aver sviluppato un orrore per le forme rigide e ripetitive della scultura, considerandola inseparabilmente legata alla morte.
Così, saranno esposte tre opere emblematiche di questo “sentire”: una scultura che ricorda un aviatore italiano morto a Dagahbur nel ’35 e decapitato dagli etiopi; la tomba di una ballerina ribattezzata Tersicore, come la musa greca della danza, e la famosissima “Morte di Saffo”. Morte e richiamo all’antico ma anche tentativo di far sopravvivere la scultura – come sembra emergere dal testo dello stesso artista – liberandola dalla statua.
L’invenzione di “Saffo è appunto il tentativo di trascendere la forma pura e semplice della statua, di astrarsi dalla materia e dai confini della rappresentazione, aspirando forse ad un arte senza vincoli.
In occasione della mostra “Scultura lingua morta. Scultura nell’Italia fascista” il Mart rende omaggio a Othmar Winkler, scultore altoatesino tra i più noti del secolo appena passato. Attraverso un nucleo di opere provenienti da importanti collezioni pubbliche e private, la rassegna intende ricostruire la stagione romana dello scultore, che soggiornò nella capitale negli anni Trenta.
Nato a Brunico – allora parte dell’Austria asburgica - nel 1907, Winkler fu pienamente partecipe del dibattito artistico che si sviluppò a Roma nel periodo dell’affermazione del regime fascista, pur mantenendo un’originalità di linguaggio che costantemente richiama la tradizione storica e artistica della sua terra.
Ne sono testimonianza le prime prove giovanili, Beduino (1928, collezione privata) e Madonna (1928, collezione privata), realizzate ad Ortisei negli anni dell’apprendistato presso la bottega di un intagliatore del legno.
Con opere quali Il vendicatore (1930, Roma, Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea), lo scultore si accosta ai temi e ai modi dominanti nel periodo della costruzione del consenso, declinati tuttavia in maniera del tutto personale, attraverso l’uso espressionistico del legno, nel quale si legge la matrice nordica della sua ricerca.
Infine, una Madonna lignea (1938) di collezione privata introduce il discorso sul rapporto di Winkler con l’arte sacra, tra i più fecondi e dibattuti nel panorama artistico italiano del Novecento, fino alla realizzazione dei celebri cicli della Via crucis di Lavis, Bressanone, e Trento.
29
ottobre 2003
Scultura lingua morta. Scultura nell’Italia fascista
Dal 29 ottobre al 14 dicembre 2003
Location
MART – Museo di Arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Rovereto, Corso Angelo Bettini, 43, (Trento)
Rovereto, Corso Angelo Bettini, 43, (Trento)
Orario di apertura
martedì-giovedì 10.00/18.00, venerdì-domenica 10.00 /21.00. Lunedì chiuso