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Se
GALLERIA 291 EST prosegue il suo programma d’inaugurazioni parlando di Se, primo appuntamento curato e ideato da Roberto D’Onorio e Vania Caruso riservato ad artisti emergenti volti a condividere l’esperienza quale terreno eterogeneo di confronto.
Comunicato stampa
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L’esposizione limitata a sette giorni rappresenta uno strumento analitico aperto all'indagine antinomica dell’arte presente, dando respiro alle possibilità che nascono dalla cooperazione e dallo scambio diretto tra diversi artisti.
Se rispecchia la volontà della Galleria 291 est di avere un occhio attento alle libere espressioni tuttora distanti dal peso e dalle convinzioni dell’attuale sistema.
A tal fine gli appuntamenti programmati aderiscono all'individuazione di possibili identità in cammino verso una progressiva ricerca di metodo e forma.
Ai tre giovani artisti scelti per il Se è stato chiesto di “competere”: secondo il suo etimo cum petere, camminare insieme, cercare insieme. Il processo spontaneo del confronto porta Lele D’Alò, Robberto Atzori e Giulio Bensasson all’atto di creare un racconto partendo dal proprio vissuto personale, attivato in un dialogo che riconosca una coscienza collettiva.
Le opere in mostra sono legate intimamente dall'indagine formale su sorte, natura e fato, che si fa strada tra l’interiorità e l’esteriorità, tra la profondità e la superficie della propria ricerca individuale.
Lele D’Alò parla di se attraverso il rimando ludico al giocattolo. La serie di cinque teche, contenenti la costruzione 3D di scheletri appartenenti a improbabili animali preistorici, apre la mostra suggerendo un nuovo sviluppo intellettivo. Il modellino di legno elevato a reliquia, chiuso e sigillato da un contenitore in vetro, si allontana dalla trasmissione di comportamenti culturalizzati, agendo sul rito del gioco quale messa in scena del conflitto edipico. L’elemento sessuale, suggerito in forma voyeuristica e aperto ai modelli di sviluppo, sottende la futura abitudine al trauma. I protagonisti di Lele D'Alò parlano alle spoglie in mutamento di Giulio Bensasson divenendo parte di un’archeologia del fantastico, in cui l’immaginario coinvolge i modelli naturali conosciuti: l’innesto di materiale organico diviene documentazione scientifica di possibili creature proveniente da universi futuri o passati. I resti scarnificati sono offerti all'osservatore che può studiarne l’anatomia come accadrebbe in laboratorio. L’evasione dalla realtà a favore di una possibile reinvenzione dell’estetica più consona alle tendenze del presente, non esula dal moto perpetuo che agisce sull'opera rendendola sempre diversa, come accade nell'aspetto delle diapositive che accompagnano i cinque lavori diventando paradigma di evoluzione. Le immagini retro illuminate vivono la trasformazione di un istante, una vera e propria metamorfosi, dovuta ad un lungo processo di alterazione in cui le tracce del tempo sotto forma di muffe, funghi e altri microorganismi permettono la visualizzazione delle energie sottostanti. L’opera di Giulio Bensasson domanda all'istallazione di Robberto Atzori di raccontare la memoria del suo passaggio. Nell’opera “Il Piccolo Principe” l’autore usa la traccia del proprio vissuto recuperando i resti della natura coltivata durante la permanenza a Roma. L’archivio vegetale pone in evidenza la radice quale misterioso filo di rinascita spirituale per giungere all'armonia finale con se stesso e con la natura. Atzori utilizza da sempre il gesto come rito apotropaico dove il tempo, la memoria e il dolore, così come la gioia, divengono espressioni libere, spontanee e a volte violente.
Se rispecchia la volontà della Galleria 291 est di avere un occhio attento alle libere espressioni tuttora distanti dal peso e dalle convinzioni dell’attuale sistema.
A tal fine gli appuntamenti programmati aderiscono all'individuazione di possibili identità in cammino verso una progressiva ricerca di metodo e forma.
Ai tre giovani artisti scelti per il Se è stato chiesto di “competere”: secondo il suo etimo cum petere, camminare insieme, cercare insieme. Il processo spontaneo del confronto porta Lele D’Alò, Robberto Atzori e Giulio Bensasson all’atto di creare un racconto partendo dal proprio vissuto personale, attivato in un dialogo che riconosca una coscienza collettiva.
Le opere in mostra sono legate intimamente dall'indagine formale su sorte, natura e fato, che si fa strada tra l’interiorità e l’esteriorità, tra la profondità e la superficie della propria ricerca individuale.
Lele D’Alò parla di se attraverso il rimando ludico al giocattolo. La serie di cinque teche, contenenti la costruzione 3D di scheletri appartenenti a improbabili animali preistorici, apre la mostra suggerendo un nuovo sviluppo intellettivo. Il modellino di legno elevato a reliquia, chiuso e sigillato da un contenitore in vetro, si allontana dalla trasmissione di comportamenti culturalizzati, agendo sul rito del gioco quale messa in scena del conflitto edipico. L’elemento sessuale, suggerito in forma voyeuristica e aperto ai modelli di sviluppo, sottende la futura abitudine al trauma. I protagonisti di Lele D'Alò parlano alle spoglie in mutamento di Giulio Bensasson divenendo parte di un’archeologia del fantastico, in cui l’immaginario coinvolge i modelli naturali conosciuti: l’innesto di materiale organico diviene documentazione scientifica di possibili creature proveniente da universi futuri o passati. I resti scarnificati sono offerti all'osservatore che può studiarne l’anatomia come accadrebbe in laboratorio. L’evasione dalla realtà a favore di una possibile reinvenzione dell’estetica più consona alle tendenze del presente, non esula dal moto perpetuo che agisce sull'opera rendendola sempre diversa, come accade nell'aspetto delle diapositive che accompagnano i cinque lavori diventando paradigma di evoluzione. Le immagini retro illuminate vivono la trasformazione di un istante, una vera e propria metamorfosi, dovuta ad un lungo processo di alterazione in cui le tracce del tempo sotto forma di muffe, funghi e altri microorganismi permettono la visualizzazione delle energie sottostanti. L’opera di Giulio Bensasson domanda all'istallazione di Robberto Atzori di raccontare la memoria del suo passaggio. Nell’opera “Il Piccolo Principe” l’autore usa la traccia del proprio vissuto recuperando i resti della natura coltivata durante la permanenza a Roma. L’archivio vegetale pone in evidenza la radice quale misterioso filo di rinascita spirituale per giungere all'armonia finale con se stesso e con la natura. Atzori utilizza da sempre il gesto come rito apotropaico dove il tempo, la memoria e il dolore, così come la gioia, divengono espressioni libere, spontanee e a volte violente.
15
novembre 2013
Se
Dal 15 al 22 novembre 2013
arte contemporanea
Location
GALLERIA 291 EST
Roma, Viale Dello Scalo San Lorenzo, 45, (Roma)
Roma, Viale Dello Scalo San Lorenzo, 45, (Roma)
Orario di apertura
da lunedì a sabato dalle 10.00 alle 20.00
Vernissage
15 Novembre 2013, ore 19.30
Autore
Curatore