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Sebastiano Favitta / Attilio Gerbino – Ti regalerò una rosa
Una selezione di trenta immagini da una reportage, lungo un anno, nella realtà delle Case Famiglia e delle Comunità Terapeutiche di pertinenza del Dipartimento di Salute Mentale di Caltagirone.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
La Galleria Fotografica Luigi Ghirri di Caltagirone CT,
nella sua ultradecennale esperienza di promozione della cultura fotografica, non di rado caratterizza il suo operato, e i suoi ricorrenti progetti espositivi, con una sperimentazione progettuale che si arricchisce nel confronto con altre realtà culturali attive nel territorio. In tale modus operandi appare evidente quanto la stessa fotografia – oggetto e al contempo soggetto della GHIRRI – rappresenti il medium privilegiato per specchiarsi e riflettere l’immagine dell’altro oltre il confine e il limite della propria identità.
Guardare e, a propria volta, essere traguardati dagli sguardi altrui – sguardi che, in questa occasione, come porte ora ammiccanti ora ostili si spalancano sui recessi più oscuri della mente – disegna pertanto una sfida “coraggiosa” cui il fondatore e curatore “storico” della GHIRRI – Sebastiano FAVITTA – non si sottrae tanto quanto l’oramai “storicizzato” Attilio GERBINO.
L’occasione che si fa progetto, nasce in questo caso dal confronto con una delle realtà più significative del panorama sociale del calatino, quel Dipartimento di Salute Mentale che da decenni si caratterizza per l’eccellenza delle realtà che ve ne fanno capo.
Personalmente, da molti anni, vivo a contatto di adulti ospiti nel Centro di Igiene Mentale della città in cui lavoro. Ho imparato nel tempo a rapportarmi con loro, a conquistarne la fiducia a piccoli passi. Diventare amico di una persona affetta da disagio costituisce un dono speciale per chi ne diviene destinatario: spesso le carenze che caratterizzano questi pazienti rispetto ai canoni di ciò che viene definita “normalità” sono compensate infatti da sensibilità, dolcezza, lealtà e affetto non comuni. Con gli ospiti del C. I. M., insieme ad altri colleghi, abbiamo costruito esperienze teatrali, abbiamo festeggiato i nostri successi attorno a tavolate allegre, imparando a convivere con ansia e gioia; da allora, ogni mattina all’alba condivido con alcuni di loro la colazione nello stesso bar. Dormono poco, mi raccontano. Dormono poco e male. Perché li tormentano voci, sogni oscuri, paure ricorrenti, affanno, inquietudine. E’ difficile immaginare il loro mondo, specie se non li si conosce da vicino.
Così, arricchita da questa personale esperienza, nei visi di coloro che hanno accettato di farsi ritrarre per la mostra “Ti regalerò una rosa” io riesco a leggere tutti questi stati d’animo: l’angoscia universale che accomuna queste persone divorate da una sensibilità particolare, i pochi momenti di gioia dei loro sorrisi rari e per questo più preziosi, il pudore nel mettersi in posa, la ritrosia, il dolore, lo sperdimento.
E’ di sicuro un successo che essi abbiano accolto in modo positivo i fotografi che li hanno ritratti; nel momento stesso che un paziente affetto da disagio accetti di prendere parte a una qualsiasi attività (un laboratorio teatrale, la pratica sportiva, la posa per una fotografia) questo scatto motivazionale è già segno che qualcosa in loro si è mosso verso un’apertura positiva. Essi temono e fuggono a priori la novità, il mettersi in gioco, il confronto con persone sconosciute. Nell’attimo in cui riescono a superare questa barriera emotiva, di sicuro vivranno le nuove esperienze come un successo senza confine, e la loro autostima crescerà.
Superare la paura di trovarsi su uno spazio scenico, porsi al centro della ribalta, accettare di mettersi in posa, fissare l’obiettivo di una camera sapendo che si verrà fotografati, consente di varcare con il proprio corpo una dimensione altra rispetto al quotidiano modo di vivere di chi trascorre la sua esistenza in una struttura psichiatrica. Mettendo in moto questa capacità decisionale, la mente inizia a “captare” i segnali positivi, ci si sente accolti in un gruppo e al contempo ci si muove alla ricerca di un'identità e di una fisionomia propria. Per sentirsi parte del tutto ci si deve affidare agli altri, cancellare provvisoriamente i confini dell’Io, concedersi libertà espressiva. Ciò consente, in ultima istanza, un’accettazione di sé spesso negata, e il coinvolgimento in un’esperienza che lascerà un segno positivo nel vissuto di chi soffre il disagio. E un accrescimento interiore per chi è stato loro accanto nel condividerla.
Una volta ti dissi:
non arrabbiarti, amore,
s’io sono diversa.
Forse sono una colonna di fumo,
ma la legna che sotto di me arde
è la legna dorata dei boschi,
e tu non hai voluto ascoltarmi.
Guardavi la mia pelle candida
con l’incredulità di un sacerdote,
e volevi affondarvi il coltello
e così la tua vittima è morta
sotto il peso della tua stoltezza,
o malaccorto amore.
Prendevo in giro l’ebrietà della forma
e sapevo che ero di lutto,
eppure il lutto mi doleva dentro
con la dolcezza di uno sparviero.
Quante volte fui scoperta e mangiata,
quante volte servii di pasto agli empi;
e anche tu adesso sei empio,
o mio corollario di amore.
Dov’è la tua religione
per la mia povera croce?
Alda Merini
Marina BENEDETTO
Galleria Fotografica Luigi GHIRRI
Savona, marzo 2013
E sarà “una rosa blu”, come nella poesia di Gerda Klein.
Per farci perdonare tutte le colpe e le responsabilità che abbiamo come fotografi, come membri di una confraternita che ha creduto di definire il mondo solo perché guardando un segmento poco ortodosso della comune esistenza hanno tirato fuori un’immagine strana e non ha capito che ha fotografato solo l’immagine di un insensato stupore, di un ingenuo sbigottimento, di una volontà di non comprendere.
Eh sì, abbiamo tanto da farci perdonare noi e quelle macchinette che ci mettiamo al collo; noi con la nostra voglia di classificare, di studiare l’insolito, l’irrazionale e il grottesco e non capire ancora che così facendo, violentiamo l’altrui libertà creando, ahinoi, una falsa rappresentazione. E l’abbiamo messa al servizio del potere mafioso e della medicina repressiva.
Poi, un bel giorno, dopo tanta fotografia lombrosiana o, nel più benevolo dei casi, di colore e di costume (anche Nadar fu protagonista di queste ricerche), grazie a Basaglia, all’esperienza di Gorizia, a Marco Cavalo e a Giuliano Scabia (mi sembra di scrivere da un posto fuori dal tempo) fotografi come Berengo Gardin e Carla Cerati ci consegnarono quel minuscolo catalogo di fotografie dove è racchiuso “morire di classe”. Fu un terremoto!
Un quadratino di celluloide ci diceva quanto eravamo stati folli, autenticamente folli; e continuavamo a esserlo.
E, quindi, vennero fuori Enzo Cei, D’Alessandro, Buscarino, Papa, Majoli, Iodice, Scianna, Bolondi, Mirisola, e si recuperò anche un certo E.W. Smith e si assistette a ciò che io chiamai “giro di boa” ovvero una differente visione documentativa ormai liberalizzante e sicuramente comunicativa.
E “guardami”, del calatino Roberto Strano, fu il libro con il quale realizzammo il nostro giro di boa per quella fotografia che voleva ancora insistere sul volto del dolore (la prefazione la curò F. Scianna).
Ma, ormai, la parola d’ordine era differente e la responsabilità dello sguardo si faceva più chiara: la comunità ritratta era, infatti, la nostra e interloquiva con l’obiettivo e il “cosa” ritratto non era il nostro stupore ma la sorpresa di chi accosta una realtà diversa, nuova, senz’altro difficile ma con la quale occorreva convivere, con la quale si doveva convivere.
Quindi una fotografia, quella dei nostri amici, come documento di un anniversario, di una festa, del piacere di un incontro, di un ricorrente riconoscimento; e quindi una fotografia civile, civica, colorata, leggera, moderna dove non può esserci spazio per il disagio ipocrita né per l’imbarazzata convenienza ma solo un posto per il ritratto collettivo e per il piacere di rivedersi.
Già, rivedersi. Ovvero scoprire i limiti e i confini dell’impegno: che brutte parole, sembrano quelle della politica.
Sediamoci, allora, e incominciamo a parlarne. Proprio qui perché a Caltagirone siamo stati pionieri. Perché in questo impegno ci sarà sempre da fare.
E, peraltro, mancano ancora i nostri ritratti: ma ci saranno stiamone certi! E quando ci saranno fioriranno le rose blu e ci accorgeremo che non sono differenti dalle altre rose.
Pippo PAPPALARDO
per la Galleria Fotografica Luigi GHIRRI
Catania, marzo 2013
nella sua ultradecennale esperienza di promozione della cultura fotografica, non di rado caratterizza il suo operato, e i suoi ricorrenti progetti espositivi, con una sperimentazione progettuale che si arricchisce nel confronto con altre realtà culturali attive nel territorio. In tale modus operandi appare evidente quanto la stessa fotografia – oggetto e al contempo soggetto della GHIRRI – rappresenti il medium privilegiato per specchiarsi e riflettere l’immagine dell’altro oltre il confine e il limite della propria identità.
Guardare e, a propria volta, essere traguardati dagli sguardi altrui – sguardi che, in questa occasione, come porte ora ammiccanti ora ostili si spalancano sui recessi più oscuri della mente – disegna pertanto una sfida “coraggiosa” cui il fondatore e curatore “storico” della GHIRRI – Sebastiano FAVITTA – non si sottrae tanto quanto l’oramai “storicizzato” Attilio GERBINO.
L’occasione che si fa progetto, nasce in questo caso dal confronto con una delle realtà più significative del panorama sociale del calatino, quel Dipartimento di Salute Mentale che da decenni si caratterizza per l’eccellenza delle realtà che ve ne fanno capo.
Personalmente, da molti anni, vivo a contatto di adulti ospiti nel Centro di Igiene Mentale della città in cui lavoro. Ho imparato nel tempo a rapportarmi con loro, a conquistarne la fiducia a piccoli passi. Diventare amico di una persona affetta da disagio costituisce un dono speciale per chi ne diviene destinatario: spesso le carenze che caratterizzano questi pazienti rispetto ai canoni di ciò che viene definita “normalità” sono compensate infatti da sensibilità, dolcezza, lealtà e affetto non comuni. Con gli ospiti del C. I. M., insieme ad altri colleghi, abbiamo costruito esperienze teatrali, abbiamo festeggiato i nostri successi attorno a tavolate allegre, imparando a convivere con ansia e gioia; da allora, ogni mattina all’alba condivido con alcuni di loro la colazione nello stesso bar. Dormono poco, mi raccontano. Dormono poco e male. Perché li tormentano voci, sogni oscuri, paure ricorrenti, affanno, inquietudine. E’ difficile immaginare il loro mondo, specie se non li si conosce da vicino.
Così, arricchita da questa personale esperienza, nei visi di coloro che hanno accettato di farsi ritrarre per la mostra “Ti regalerò una rosa” io riesco a leggere tutti questi stati d’animo: l’angoscia universale che accomuna queste persone divorate da una sensibilità particolare, i pochi momenti di gioia dei loro sorrisi rari e per questo più preziosi, il pudore nel mettersi in posa, la ritrosia, il dolore, lo sperdimento.
E’ di sicuro un successo che essi abbiano accolto in modo positivo i fotografi che li hanno ritratti; nel momento stesso che un paziente affetto da disagio accetti di prendere parte a una qualsiasi attività (un laboratorio teatrale, la pratica sportiva, la posa per una fotografia) questo scatto motivazionale è già segno che qualcosa in loro si è mosso verso un’apertura positiva. Essi temono e fuggono a priori la novità, il mettersi in gioco, il confronto con persone sconosciute. Nell’attimo in cui riescono a superare questa barriera emotiva, di sicuro vivranno le nuove esperienze come un successo senza confine, e la loro autostima crescerà.
Superare la paura di trovarsi su uno spazio scenico, porsi al centro della ribalta, accettare di mettersi in posa, fissare l’obiettivo di una camera sapendo che si verrà fotografati, consente di varcare con il proprio corpo una dimensione altra rispetto al quotidiano modo di vivere di chi trascorre la sua esistenza in una struttura psichiatrica. Mettendo in moto questa capacità decisionale, la mente inizia a “captare” i segnali positivi, ci si sente accolti in un gruppo e al contempo ci si muove alla ricerca di un'identità e di una fisionomia propria. Per sentirsi parte del tutto ci si deve affidare agli altri, cancellare provvisoriamente i confini dell’Io, concedersi libertà espressiva. Ciò consente, in ultima istanza, un’accettazione di sé spesso negata, e il coinvolgimento in un’esperienza che lascerà un segno positivo nel vissuto di chi soffre il disagio. E un accrescimento interiore per chi è stato loro accanto nel condividerla.
Una volta ti dissi:
non arrabbiarti, amore,
s’io sono diversa.
Forse sono una colonna di fumo,
ma la legna che sotto di me arde
è la legna dorata dei boschi,
e tu non hai voluto ascoltarmi.
Guardavi la mia pelle candida
con l’incredulità di un sacerdote,
e volevi affondarvi il coltello
e così la tua vittima è morta
sotto il peso della tua stoltezza,
o malaccorto amore.
Prendevo in giro l’ebrietà della forma
e sapevo che ero di lutto,
eppure il lutto mi doleva dentro
con la dolcezza di uno sparviero.
Quante volte fui scoperta e mangiata,
quante volte servii di pasto agli empi;
e anche tu adesso sei empio,
o mio corollario di amore.
Dov’è la tua religione
per la mia povera croce?
Alda Merini
Marina BENEDETTO
Galleria Fotografica Luigi GHIRRI
Savona, marzo 2013
E sarà “una rosa blu”, come nella poesia di Gerda Klein.
Per farci perdonare tutte le colpe e le responsabilità che abbiamo come fotografi, come membri di una confraternita che ha creduto di definire il mondo solo perché guardando un segmento poco ortodosso della comune esistenza hanno tirato fuori un’immagine strana e non ha capito che ha fotografato solo l’immagine di un insensato stupore, di un ingenuo sbigottimento, di una volontà di non comprendere.
Eh sì, abbiamo tanto da farci perdonare noi e quelle macchinette che ci mettiamo al collo; noi con la nostra voglia di classificare, di studiare l’insolito, l’irrazionale e il grottesco e non capire ancora che così facendo, violentiamo l’altrui libertà creando, ahinoi, una falsa rappresentazione. E l’abbiamo messa al servizio del potere mafioso e della medicina repressiva.
Poi, un bel giorno, dopo tanta fotografia lombrosiana o, nel più benevolo dei casi, di colore e di costume (anche Nadar fu protagonista di queste ricerche), grazie a Basaglia, all’esperienza di Gorizia, a Marco Cavalo e a Giuliano Scabia (mi sembra di scrivere da un posto fuori dal tempo) fotografi come Berengo Gardin e Carla Cerati ci consegnarono quel minuscolo catalogo di fotografie dove è racchiuso “morire di classe”. Fu un terremoto!
Un quadratino di celluloide ci diceva quanto eravamo stati folli, autenticamente folli; e continuavamo a esserlo.
E, quindi, vennero fuori Enzo Cei, D’Alessandro, Buscarino, Papa, Majoli, Iodice, Scianna, Bolondi, Mirisola, e si recuperò anche un certo E.W. Smith e si assistette a ciò che io chiamai “giro di boa” ovvero una differente visione documentativa ormai liberalizzante e sicuramente comunicativa.
E “guardami”, del calatino Roberto Strano, fu il libro con il quale realizzammo il nostro giro di boa per quella fotografia che voleva ancora insistere sul volto del dolore (la prefazione la curò F. Scianna).
Ma, ormai, la parola d’ordine era differente e la responsabilità dello sguardo si faceva più chiara: la comunità ritratta era, infatti, la nostra e interloquiva con l’obiettivo e il “cosa” ritratto non era il nostro stupore ma la sorpresa di chi accosta una realtà diversa, nuova, senz’altro difficile ma con la quale occorreva convivere, con la quale si doveva convivere.
Quindi una fotografia, quella dei nostri amici, come documento di un anniversario, di una festa, del piacere di un incontro, di un ricorrente riconoscimento; e quindi una fotografia civile, civica, colorata, leggera, moderna dove non può esserci spazio per il disagio ipocrita né per l’imbarazzata convenienza ma solo un posto per il ritratto collettivo e per il piacere di rivedersi.
Già, rivedersi. Ovvero scoprire i limiti e i confini dell’impegno: che brutte parole, sembrano quelle della politica.
Sediamoci, allora, e incominciamo a parlarne. Proprio qui perché a Caltagirone siamo stati pionieri. Perché in questo impegno ci sarà sempre da fare.
E, peraltro, mancano ancora i nostri ritratti: ma ci saranno stiamone certi! E quando ci saranno fioriranno le rose blu e ci accorgeremo che non sono differenti dalle altre rose.
Pippo PAPPALARDO
per la Galleria Fotografica Luigi GHIRRI
Catania, marzo 2013
22
marzo 2013
Sebastiano Favitta / Attilio Gerbino – Ti regalerò una rosa
Dal 22 marzo al 14 aprile 2013
fotografia
Location
MACC – MUSEO D’ARTE CONTEMPORANEA – OSPEDALE DELLE DONNE
Caltagirone, Via Luigi Sturzo, 167, (Catania)
Caltagirone, Via Luigi Sturzo, 167, (Catania)
Orario di apertura
a lunedì a sabato: 9.30 - 13,30
domenica 9.30 - 12.30
martedì, venerdì, sabato e domenica 16.00 - 19.00
mercoledì: chiuso
Vernissage
22 Marzo 2013, ore 18.00
Autore
Curatore