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Sedna – Contemporaneity: Signs of modern Times
La Galleria MeS3 di Livorno partecipa con orgoglio alle celebrazioni del 2013 “ Year of Italian Culture in the USA”, con una mostra al Museo Italo Americano di San Francisco, California, permettendo di affrontare il dibattito sul Conscious“ là dove l’etico non emergeva o veniva dimenticato.
Comunicato stampa
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Si inaugura al Museo di Cultura Italoamericana di S. Francisco, la mostra del Gruppo Sedna: "Contemporaneity: Signs of modern Times", alla presenza del Console Generale d'Italia a S. Francisco e delle autorità del Museo e cittadine.
Un treno che ha scelto di percorrere una lunga strada in salita e durante le varie fermate si è impegnato ad accrescere il numero dei suoi vagoni, così si presenta il Gruppo SEDNA a questo appuntamento oltre oceano sui segni della contemporaneità.
Per chi non lo conoscesse ancora, SEDNA è un gruppo qui rappresentato da cinque artisti diversi per stile e formazione, ma fortemente motivati, che si riconoscono in un “pensiero unificante” che si può definire come “una comune ricerca linguistica, all’interno della quale la parola e il linguaggio sono affidati all’uso del colore e di supporti di ogni tipo, assunti a determinare e costruire l’individualità del singolo”.
Nelle loro opere il colore ha assunto “valenze” che si sono sostituite “alla forma”, la loro sperimentazione di materiali diversi e più attuali si presta al superamento della pittura o alla forma tradizionale del quadro, e non procedono seguendo la ricerca spesso ossessiva di un “nuovo” tout court, né facendo propria la visione tipicamente borghese di un’arte da tempo superata, che si è distinta per aver adottato come segno significante il taglio od ogni altra forma di violenza contro la tela o l’installazione da licenziare. Il rischio sarebbe stato quello di ripetere azioni trasgressive eclatanti e autoreferenziali.
Sedna va invece contro la logica del mercato; la ricerca dei suoi artisti è sicuramente “anti” o “non allineata”, impegnata piuttosto a praticare i meccanismi dell’analogia universale, perché ciò che conta non è la forma, l’involucro esteriore, ma il contenuto, ovvero il progetto e un pensiero forte.
Due sono i sedimenti di tale pensiero che contraddistinguono il “fare arte” dei suoi artisti: l’impiego dei mezzi linguistici utilizzati nell’atto comunicativo, in un processo di astrazione del dato reale, al fine di realizzare una vera opera d’arte, e l’ampliamento della propria sfera d’indagine al rapporto arte-società, alla funzione dell’arte pura, alla ricerca della valenza comunicativa del colore.
Segno importante e “pensante” che definisce l’identità di questo gruppo e finisce per contestualizzare un elemento chiave della contemporaneità, cioè la riconoscibilità e la serialità di un gesto o di una traccia, è la costante ricerca di senso di un fare e di un processo che si manifesta in perfetta mimesi giocata su continue sovrapposizioni cromatiche, giochi di livelli visivi, essenzialità plastiche, allusività carnali. Un’eterogeneità di stili che rispecchiano i rimandi continui a una filosofia comune e ne determina la coralità
Si tratta di fondamenti sostanziali, affidati alla contemporaneità dell’atto comunicativo, piuttosto che a un atto creativo,che non è mai esistito, poiché nulla viene lasciato all’ispirazione, ma è architettato e costruito dentro un progetto e dietro un pensiero.
I segni che vivono nelle opere della mostra non sono segni gessati, seriali e facilmente riconoscibili, ma segni che vivono e perciò mutevoli, che mettono continuamente a fuoco la loro carica polisemica, in funzione di un nuovo processo e di un diverso e diversamente significante messaggio.
Artisti espositori: Paride Bianco, Sylvia Cossich Goodman, Milena Pedrollo, Maurizio Piccirillo, Ivano Emilio Zanetti.
Paride Bianco nasce il 2 marzo 1944 a Martellago (Venezia) . Dopo le prime esperienze che lo porteranno a riflettere e rivedere l’impostazione scolastica del concetto di luce, si immerge completamente nel colore. Ristudia i metodi per fabbricare i colori, mesticare le tele, usare le colle vegetali come la resina di pino o la lacca sciolta in alcool. Inizia a studiare i grandi filosofi, da Chomsky a Ulmann, da Benjamin a Popper, ma è di Benveniste per il quale “la realtà di un oggetto non è separabile dal metodo impiegato a definirlo” la porta che apre alla stagione dell’Ostatismo (termine che già ho avuto modo di codificare nel 1986), imperniata sulla verifica della possibilità di usare il calco come unica certezza e fattibilità di essere nel vero.
Se Max Ernst suppone per buono “… qualsiasi mezzo … come il rilevamento dell’immagine … del frottage, dedotto dal gioco infantile, consistente nello strofinare una matita su una carta … su una superficie ruvida o con lieve risalti …” in Paride il frottage diventa un procedimento calcolato e pensato dal quale ricava forme concluse (ritratti o paesaggi) o forme aperte più vicine ad un astrattismo di tipo espressionista e cromatico.
La tecnica del frottage è portata alla compiutezza stilistica: l’ostatismo. Il bassorilievo su cui indaga con una matita o un raschietto, usando ora la carta, ora la tela, deve essere progettato per dare “quella” forma e non altre. Il calco restituisce in tutto l’immagine voluta e pensata e diventa una struttura sublimata, perché separa l’abilità del fare dal vigore dell’ispirazione. Nei lavori “astratti”, infatti, tutto il frottage viene riscattato da un’operazione stilistica segnata dal piacevole, dal bello. Tutto ciò però, in conformità con l’esperienza di un vero che ogni artista è in dovere di praticare come palestra, per metabolizzare forme e contenuti. La palestra diventa allora un serbatoio di accenti contenutistici da dove “trarre fuori”.
Così, parafrasando Kant, occorre guardare l’opera astratta di Paride non dal libero “gioco tra sensibilità e intelletto, ma dal libero conflitto tra sensibilità e ragione”, in forza di una emozione costitutiva della natura umana.
Da allora è sempre stato il segno iconico a decidere i momenti significativi della sua ricerca e a farlo propendere per una composizione a dominanza coloristica o segnica, talora equipresenti in tele o carte su tavola di alto spessore artistico e lirico, oggi universalmente riconosciuti.
Silvia Cossich Goodman nasce a Newburgh New York nel 1962. Vive e lavora in San Francisco (U.S.A.) dove insegna arte in una scuola italiana. Ha conseguito il diploma di laurea nel 1991 presso la scuola d'arte Otis Parson di Los Angeles, dove si è specializzata come "textile-designer" e"illustrator". Conseguentemente ha lavorato come designer nel campo della moda per 6 anni nella città di Los Angeles, dedicandosi al disegno di tessuti. Le sue prime mostre la aprono alle esperienze di Santa Monica e Malibù.
A partire dal 1996 manifesta un vivo interesse per la ceramica e di lì a poco comincia a fare sculture, sviluppando temi legati alla continua esplorazione della figura umana, lavorando su una “corporeità”, ridotta all’essenzialità di un’interpretazione plastica, che continua ancor oggi a interessarla. In questi ultimi anni ha cominciato a partecipare agli workshop di artisti impegnati nello studio anatomico, ed ha allargato le sue esperienze al mondo dell’arte americano, con un occhio vigile ma nostalgico all’arte italiana.
La sua produzione più recente evoca sensazioni e percezioni, materiali e immagini dello spazio dove le forme vuote hanno lo stesso valore plastico delle piene, che rimandano profondamente al mondo femminile, alla figura coricata, alla madre con il bambino. La scultrice non inizia l’opera guardando il suo modello, guarda la pietra e tenta di scoprire cosa la pietra vuole, magari conservando qualcosa della solidità e della semplicità che le è propria. Non vuole tirare fuori una donna di pietra o di alabastro, ma vuole realizzare una pietra che suggerisca una donna, rimandando all’originaria unità dell’uomo con il mondo.
Le sue figure, le sue composizioni vivono oggi di un’energia spirituale e operativa che è il segno di un processo di lenta e progressiva maturazione; parlano con lucidità di una serenità che è armonia con il passato, sintonia con il futuro, equilibrio con l’ambiente. Si offrono come una varietà di forme plastiche e di realtà poetiche, frutto di una ricerca diversa, ricca di spirito e di forza interiore: una produzione intessuta di invisibili fili che legano una scultura all'altra, e queste ai dipinti “scolpiti”, e le forme tra loro, nel ripetersi sempre diverse, sempre rispettose di un senso di intimità e di adesione alla carezza dell’aria.
Formate da elementi staccati e pur strette nella continuità del corpo, le figure giacenti, chiuse in un unico blocco articolato in pieni e in vuoti, vestite di luce e di ombre vivono in una scultura a incastro e trovano tutte nella loro maggiore dimensione una misura di perfetta armonia e potenza.
Con le sue ultime creazioni la scultrice sembra perseguire la bellezza dell' espressione e, soprattutto la potenza dell' espressione. Perché, come insegna Moore, se “la prima tende a compiacere i sensi, la seconda possiede una vitalità spirituale che (…) va più in profondo”. E come in Moore il tema della Reclining figure, o seduta, è sempre un corpo femminile ripetuto infinite volte, che si carica di una qualità di variazioni e di metamorfosi che rendono un'opera diversa dall' altra. Esso rappresenta, nel modo più formalmente bello, il corpo umano, la donna, il rapporto plastico del pieno e del vuoto, la creazione tridimensionale dello spazio, la natura dove il corpo femminile si adagia per diventare paesaggio,
Milena Pedrollo, nasce a Cles TN il 05/04/1976, ha frequentato l’Accademia di Belle Arti Cignaroli a Verona; attualmente vive e lavora a Villa Lagarina TN. Nel suo lavoro, coniugazioni di immagini fotografiche e pittura indagano l’esperienza dell’uomo dentro la dimensione del cibo, dell’alimentazione, del pasto, alla ricerca espressiva delle più intime emozioni e delle relazioni interpersonali che questa dimensione scaturisce.
Temi come alimentazione, stretta relazione con il cibo, approccio antropologico alla simbologia, alla semantica, all’emotività individuale e sociale intrecciate alla sfera culturale, politica, sociale ed economica, sono gli ingredienti principi della sua visione artistica. Come performer collabora assiduamente, come duo artistico, con l’artista e poetessa Barbara Cappello in azioni performatiche, come momenti di socializzazione, di scambio e di analisi individuale e sociale.
La ricerca della Pedrollo si avvicina ad una realtà fatta di prossimità e di lontananza dagli oggetti e dalle emozioni superficiali legati ad una realtà contingente, per risvegliare, scuotere lo spettatore e costringerlo ad una presa di coscienza, e lo fa realizzando la sua dimensione interiore con gli oggetti della sua visione, che si offrono come mediatori tra una percezione sensoriale ed un pensiero riflesso.
Alcune opere appartenenti alla serie delle bocche o degli occhi concentrano nei segni e negli interventi pittorici una forza comunicativa coinvolgente, spesso trasgressiva.
Nei pannelli superiori i corpi che Milena Pedrollo seziona e realizza con interventi acrilici su basi fotografiche sono opere dalla natura visivamente impattante. In essi l'allusione sempre presente al pasto e alla carnalità costituiscono il suo leitmotiv e tradiscono un'emotività che scava con impeto lacerante, per poi scivolare sulla "pelle" di acetato di figurazioni che ama imbrigliare sulla tela o tra il plexiglas.
Il processo che caratterizza i suoi lavori più recenti restituisce un corpo mutilato, specchio involontario del cibo, impreziosito talvolta – come spiega la stessa artista – “da un rammendo meticoloso e accurato nella scelta del punto del ricamo e nella precisione quasi chirurgica del disegno”. Un corpo, quindi, che con le sue lacerazioni e le sue ferite è chiamato ad esprimere tutta la violenza e la forza bruta del mondo.
In particolare nei disegni della serie “DNA transgenico” e “OGM, organismi geneticamente modificati” l’indagine affronta il concetto di modificazione genetica e formale del cibo e del corpo, il cui focus va ben oltre la stessa struttura molecolare, alla ricerca dell’essenza, in un vortice di immagini e di rituali simbolici, di esaltazione del piacere e della carnalità.
In sintesi, il sentimento evocato dalla rappresentazione del soggetto (corpo o cibo), che corrisponde ad una esigenza tutta kantiana di finalità, va cercato muovendo dal particolare all’universale dell’opera compiuta. Ne risulta la denuncia delle risonanze e delle contraddizioni di una società poco incline a mantenere l'ordine eccellente dell'Universo creato, un urlo di pensieri segreti, di emozioni e di convincimenti che non riesce e non vuole trattenere: manifestazione visibile e tangibile del suo modo esemplare di essere e di essere al mondo.
Maurizio Piccirillo – nasce a Cercola (NA) il 09/10/1968. Le sue opere indagano con il segno espressivo e la musicalità dei frattali le prospettive futuribili dell’arte digitale. Scopo della geometria frattale è fin da subito, quello di riunire e restituire al mondo dell’arte il suono, le parole e le immagini. In esse il “fare” del loro ideatore è affidato da un lato alle contaminazioni fra tecnica e arte, al cui orizzonte si stagliano il lirismo dei versi e l’evocazione della parola e della scrittura digitale, dall’altra la ricerca rigorosa e la sperimentazione instancabile di nuovi materiali e delle loro possibili risposte. Proiettano inoltre con ampio respiro un percorso esperienziale e di studio minuzioso e unitario, dove il frattale è sostenuto e s’accompagna con una concezione interdisciplinare e multisensoriale dell’arte. La multisensorialità si pone come dialogo nuovo con un pubblico che va emotivamente coinvolto e guidato nella compartecipazione di un ruolo diverso di fruire l’arte. Ruolo sempre più lanciato verso il connubio arte/ricerca tecnica e orientato all’indagine profonda dell’essere (sein) e dell’esserci (da sein).
La vita, la morte (come parte della vita), l’amore e l’incomunicabilità del nostro mondo sono i temi centrali della poetica dell’artista che sonda e rende con metafore crepuscolari – non del poeta-fanciullo piangente di corazziniana memoria – ma dell’uomo “cosciente”, che si nutre, vede, sente, riconosce, condivide: tutte azioni alimentate da una forza interiore, originata da una sensibilità educata e da una sofferenza intima di chi teme non ci sia alcuno in ascolto, e per queste traslate, sia nel lirismo di segni e di colori rapidi, quanto delicati, che nelle visioni esangui di fluidi che lasciano la vita, aprendo alla grande riflessione sulla malattia e la morte.
La visione delle opere costituisce dunque un dialogo creativo e invita, agevolandola, un’immersione totale nel mondo unico e universale dell’arte.
Ivano Emilio Zanetti. Nasce a Volongo (Cremona) il 26 aprile 1962. Si diletta fin da giovanissimo nei ritratti e nel figurativo per approdare in maturità all’astrattismo Informale che ancora lo contraddistingue, conservando però dei tratti della figura. Partecipa a numerose collettive e a premi, tra i quali il “premio critica” alla Galleria Eustacchi, Milano; alla collettiva al palazzo “Centro Museale a Monselice” (PD), a “Conc.IdeAndre” (FE) con opera esposta nel calendario 2010 ded. A Fabrizio De André”; inoltre alle collettive “Incontri 2009”, Galleria GAMeC - CentroArteModerna Pisa, alla “mini Quadro 2009” Galleria Eustacchi Milano. Ottiene inoltre una menzione speciale “Conc. 30x30”, Galleria Poliedro (TS)
La sperimentazione informale del lavoro di Ivano Emilio Zanetti trova la sua origine nella ricerca di una forma rapida e intensa, spesso sfuggente, che indaga con pennellature acriliche, e dove il tratto e il colore dicono un’urgenza espressiva, che gli permettono nel contempo di evadere oltre la dimensione spaziale del quadro.
Oggi si assiste allo svelamento della forma: i lavori più recenti mostrano una chiara dispersione dell’originale materico, una perdita della presenza autoritaria del soggetto che lo obbligava a ri-produrre, a vantaggio di una analisi che tende a produrre, grazie ad un grafismo poetico ed emozionale.
L’accezione verbale è data dal fatto che la stesura del testo risulta più personale e del tutto autonoma dalla riproduzione fotografica. In tal senso lo svelamento della rappresentazione dei soggetti (viso, corpo, oggetto, scena..), che tanto hanno contribuito alle prime opere intrise di colori squillanti, si trasformano in oggetti grafici, in grandi stesure di pennellate energiche che creano la trama come luogo di accoglienza dei predicati che vanno a costituire una lenta ma energica tessitura dell’opera. In essa si configura l’espressione interiore di un suo moto perpetuo che riconduce alla fonte della sua ispirazione. I temi sono alimentati da una forte tensione che va al di là del reale, per restituirci le diverse declinazioni della relazione soggettiva arte-vita.
Passione, sensualità e malinconia, spesso compresenti, sono generate dall’impronta biografica della memoria e diventano le forme metaforiche utili a indirizzare l’indagine personale verso una dimensione visionaria dell’altrove.
Giuliana Donzello
Un treno che ha scelto di percorrere una lunga strada in salita e durante le varie fermate si è impegnato ad accrescere il numero dei suoi vagoni, così si presenta il Gruppo SEDNA a questo appuntamento oltre oceano sui segni della contemporaneità.
Per chi non lo conoscesse ancora, SEDNA è un gruppo qui rappresentato da cinque artisti diversi per stile e formazione, ma fortemente motivati, che si riconoscono in un “pensiero unificante” che si può definire come “una comune ricerca linguistica, all’interno della quale la parola e il linguaggio sono affidati all’uso del colore e di supporti di ogni tipo, assunti a determinare e costruire l’individualità del singolo”.
Nelle loro opere il colore ha assunto “valenze” che si sono sostituite “alla forma”, la loro sperimentazione di materiali diversi e più attuali si presta al superamento della pittura o alla forma tradizionale del quadro, e non procedono seguendo la ricerca spesso ossessiva di un “nuovo” tout court, né facendo propria la visione tipicamente borghese di un’arte da tempo superata, che si è distinta per aver adottato come segno significante il taglio od ogni altra forma di violenza contro la tela o l’installazione da licenziare. Il rischio sarebbe stato quello di ripetere azioni trasgressive eclatanti e autoreferenziali.
Sedna va invece contro la logica del mercato; la ricerca dei suoi artisti è sicuramente “anti” o “non allineata”, impegnata piuttosto a praticare i meccanismi dell’analogia universale, perché ciò che conta non è la forma, l’involucro esteriore, ma il contenuto, ovvero il progetto e un pensiero forte.
Due sono i sedimenti di tale pensiero che contraddistinguono il “fare arte” dei suoi artisti: l’impiego dei mezzi linguistici utilizzati nell’atto comunicativo, in un processo di astrazione del dato reale, al fine di realizzare una vera opera d’arte, e l’ampliamento della propria sfera d’indagine al rapporto arte-società, alla funzione dell’arte pura, alla ricerca della valenza comunicativa del colore.
Segno importante e “pensante” che definisce l’identità di questo gruppo e finisce per contestualizzare un elemento chiave della contemporaneità, cioè la riconoscibilità e la serialità di un gesto o di una traccia, è la costante ricerca di senso di un fare e di un processo che si manifesta in perfetta mimesi giocata su continue sovrapposizioni cromatiche, giochi di livelli visivi, essenzialità plastiche, allusività carnali. Un’eterogeneità di stili che rispecchiano i rimandi continui a una filosofia comune e ne determina la coralità
Si tratta di fondamenti sostanziali, affidati alla contemporaneità dell’atto comunicativo, piuttosto che a un atto creativo,che non è mai esistito, poiché nulla viene lasciato all’ispirazione, ma è architettato e costruito dentro un progetto e dietro un pensiero.
I segni che vivono nelle opere della mostra non sono segni gessati, seriali e facilmente riconoscibili, ma segni che vivono e perciò mutevoli, che mettono continuamente a fuoco la loro carica polisemica, in funzione di un nuovo processo e di un diverso e diversamente significante messaggio.
Artisti espositori: Paride Bianco, Sylvia Cossich Goodman, Milena Pedrollo, Maurizio Piccirillo, Ivano Emilio Zanetti.
Paride Bianco nasce il 2 marzo 1944 a Martellago (Venezia) . Dopo le prime esperienze che lo porteranno a riflettere e rivedere l’impostazione scolastica del concetto di luce, si immerge completamente nel colore. Ristudia i metodi per fabbricare i colori, mesticare le tele, usare le colle vegetali come la resina di pino o la lacca sciolta in alcool. Inizia a studiare i grandi filosofi, da Chomsky a Ulmann, da Benjamin a Popper, ma è di Benveniste per il quale “la realtà di un oggetto non è separabile dal metodo impiegato a definirlo” la porta che apre alla stagione dell’Ostatismo (termine che già ho avuto modo di codificare nel 1986), imperniata sulla verifica della possibilità di usare il calco come unica certezza e fattibilità di essere nel vero.
Se Max Ernst suppone per buono “… qualsiasi mezzo … come il rilevamento dell’immagine … del frottage, dedotto dal gioco infantile, consistente nello strofinare una matita su una carta … su una superficie ruvida o con lieve risalti …” in Paride il frottage diventa un procedimento calcolato e pensato dal quale ricava forme concluse (ritratti o paesaggi) o forme aperte più vicine ad un astrattismo di tipo espressionista e cromatico.
La tecnica del frottage è portata alla compiutezza stilistica: l’ostatismo. Il bassorilievo su cui indaga con una matita o un raschietto, usando ora la carta, ora la tela, deve essere progettato per dare “quella” forma e non altre. Il calco restituisce in tutto l’immagine voluta e pensata e diventa una struttura sublimata, perché separa l’abilità del fare dal vigore dell’ispirazione. Nei lavori “astratti”, infatti, tutto il frottage viene riscattato da un’operazione stilistica segnata dal piacevole, dal bello. Tutto ciò però, in conformità con l’esperienza di un vero che ogni artista è in dovere di praticare come palestra, per metabolizzare forme e contenuti. La palestra diventa allora un serbatoio di accenti contenutistici da dove “trarre fuori”.
Così, parafrasando Kant, occorre guardare l’opera astratta di Paride non dal libero “gioco tra sensibilità e intelletto, ma dal libero conflitto tra sensibilità e ragione”, in forza di una emozione costitutiva della natura umana.
Da allora è sempre stato il segno iconico a decidere i momenti significativi della sua ricerca e a farlo propendere per una composizione a dominanza coloristica o segnica, talora equipresenti in tele o carte su tavola di alto spessore artistico e lirico, oggi universalmente riconosciuti.
Silvia Cossich Goodman nasce a Newburgh New York nel 1962. Vive e lavora in San Francisco (U.S.A.) dove insegna arte in una scuola italiana. Ha conseguito il diploma di laurea nel 1991 presso la scuola d'arte Otis Parson di Los Angeles, dove si è specializzata come "textile-designer" e"illustrator". Conseguentemente ha lavorato come designer nel campo della moda per 6 anni nella città di Los Angeles, dedicandosi al disegno di tessuti. Le sue prime mostre la aprono alle esperienze di Santa Monica e Malibù.
A partire dal 1996 manifesta un vivo interesse per la ceramica e di lì a poco comincia a fare sculture, sviluppando temi legati alla continua esplorazione della figura umana, lavorando su una “corporeità”, ridotta all’essenzialità di un’interpretazione plastica, che continua ancor oggi a interessarla. In questi ultimi anni ha cominciato a partecipare agli workshop di artisti impegnati nello studio anatomico, ed ha allargato le sue esperienze al mondo dell’arte americano, con un occhio vigile ma nostalgico all’arte italiana.
La sua produzione più recente evoca sensazioni e percezioni, materiali e immagini dello spazio dove le forme vuote hanno lo stesso valore plastico delle piene, che rimandano profondamente al mondo femminile, alla figura coricata, alla madre con il bambino. La scultrice non inizia l’opera guardando il suo modello, guarda la pietra e tenta di scoprire cosa la pietra vuole, magari conservando qualcosa della solidità e della semplicità che le è propria. Non vuole tirare fuori una donna di pietra o di alabastro, ma vuole realizzare una pietra che suggerisca una donna, rimandando all’originaria unità dell’uomo con il mondo.
Le sue figure, le sue composizioni vivono oggi di un’energia spirituale e operativa che è il segno di un processo di lenta e progressiva maturazione; parlano con lucidità di una serenità che è armonia con il passato, sintonia con il futuro, equilibrio con l’ambiente. Si offrono come una varietà di forme plastiche e di realtà poetiche, frutto di una ricerca diversa, ricca di spirito e di forza interiore: una produzione intessuta di invisibili fili che legano una scultura all'altra, e queste ai dipinti “scolpiti”, e le forme tra loro, nel ripetersi sempre diverse, sempre rispettose di un senso di intimità e di adesione alla carezza dell’aria.
Formate da elementi staccati e pur strette nella continuità del corpo, le figure giacenti, chiuse in un unico blocco articolato in pieni e in vuoti, vestite di luce e di ombre vivono in una scultura a incastro e trovano tutte nella loro maggiore dimensione una misura di perfetta armonia e potenza.
Con le sue ultime creazioni la scultrice sembra perseguire la bellezza dell' espressione e, soprattutto la potenza dell' espressione. Perché, come insegna Moore, se “la prima tende a compiacere i sensi, la seconda possiede una vitalità spirituale che (…) va più in profondo”. E come in Moore il tema della Reclining figure, o seduta, è sempre un corpo femminile ripetuto infinite volte, che si carica di una qualità di variazioni e di metamorfosi che rendono un'opera diversa dall' altra. Esso rappresenta, nel modo più formalmente bello, il corpo umano, la donna, il rapporto plastico del pieno e del vuoto, la creazione tridimensionale dello spazio, la natura dove il corpo femminile si adagia per diventare paesaggio,
Milena Pedrollo, nasce a Cles TN il 05/04/1976, ha frequentato l’Accademia di Belle Arti Cignaroli a Verona; attualmente vive e lavora a Villa Lagarina TN. Nel suo lavoro, coniugazioni di immagini fotografiche e pittura indagano l’esperienza dell’uomo dentro la dimensione del cibo, dell’alimentazione, del pasto, alla ricerca espressiva delle più intime emozioni e delle relazioni interpersonali che questa dimensione scaturisce.
Temi come alimentazione, stretta relazione con il cibo, approccio antropologico alla simbologia, alla semantica, all’emotività individuale e sociale intrecciate alla sfera culturale, politica, sociale ed economica, sono gli ingredienti principi della sua visione artistica. Come performer collabora assiduamente, come duo artistico, con l’artista e poetessa Barbara Cappello in azioni performatiche, come momenti di socializzazione, di scambio e di analisi individuale e sociale.
La ricerca della Pedrollo si avvicina ad una realtà fatta di prossimità e di lontananza dagli oggetti e dalle emozioni superficiali legati ad una realtà contingente, per risvegliare, scuotere lo spettatore e costringerlo ad una presa di coscienza, e lo fa realizzando la sua dimensione interiore con gli oggetti della sua visione, che si offrono come mediatori tra una percezione sensoriale ed un pensiero riflesso.
Alcune opere appartenenti alla serie delle bocche o degli occhi concentrano nei segni e negli interventi pittorici una forza comunicativa coinvolgente, spesso trasgressiva.
Nei pannelli superiori i corpi che Milena Pedrollo seziona e realizza con interventi acrilici su basi fotografiche sono opere dalla natura visivamente impattante. In essi l'allusione sempre presente al pasto e alla carnalità costituiscono il suo leitmotiv e tradiscono un'emotività che scava con impeto lacerante, per poi scivolare sulla "pelle" di acetato di figurazioni che ama imbrigliare sulla tela o tra il plexiglas.
Il processo che caratterizza i suoi lavori più recenti restituisce un corpo mutilato, specchio involontario del cibo, impreziosito talvolta – come spiega la stessa artista – “da un rammendo meticoloso e accurato nella scelta del punto del ricamo e nella precisione quasi chirurgica del disegno”. Un corpo, quindi, che con le sue lacerazioni e le sue ferite è chiamato ad esprimere tutta la violenza e la forza bruta del mondo.
In particolare nei disegni della serie “DNA transgenico” e “OGM, organismi geneticamente modificati” l’indagine affronta il concetto di modificazione genetica e formale del cibo e del corpo, il cui focus va ben oltre la stessa struttura molecolare, alla ricerca dell’essenza, in un vortice di immagini e di rituali simbolici, di esaltazione del piacere e della carnalità.
In sintesi, il sentimento evocato dalla rappresentazione del soggetto (corpo o cibo), che corrisponde ad una esigenza tutta kantiana di finalità, va cercato muovendo dal particolare all’universale dell’opera compiuta. Ne risulta la denuncia delle risonanze e delle contraddizioni di una società poco incline a mantenere l'ordine eccellente dell'Universo creato, un urlo di pensieri segreti, di emozioni e di convincimenti che non riesce e non vuole trattenere: manifestazione visibile e tangibile del suo modo esemplare di essere e di essere al mondo.
Maurizio Piccirillo – nasce a Cercola (NA) il 09/10/1968. Le sue opere indagano con il segno espressivo e la musicalità dei frattali le prospettive futuribili dell’arte digitale. Scopo della geometria frattale è fin da subito, quello di riunire e restituire al mondo dell’arte il suono, le parole e le immagini. In esse il “fare” del loro ideatore è affidato da un lato alle contaminazioni fra tecnica e arte, al cui orizzonte si stagliano il lirismo dei versi e l’evocazione della parola e della scrittura digitale, dall’altra la ricerca rigorosa e la sperimentazione instancabile di nuovi materiali e delle loro possibili risposte. Proiettano inoltre con ampio respiro un percorso esperienziale e di studio minuzioso e unitario, dove il frattale è sostenuto e s’accompagna con una concezione interdisciplinare e multisensoriale dell’arte. La multisensorialità si pone come dialogo nuovo con un pubblico che va emotivamente coinvolto e guidato nella compartecipazione di un ruolo diverso di fruire l’arte. Ruolo sempre più lanciato verso il connubio arte/ricerca tecnica e orientato all’indagine profonda dell’essere (sein) e dell’esserci (da sein).
La vita, la morte (come parte della vita), l’amore e l’incomunicabilità del nostro mondo sono i temi centrali della poetica dell’artista che sonda e rende con metafore crepuscolari – non del poeta-fanciullo piangente di corazziniana memoria – ma dell’uomo “cosciente”, che si nutre, vede, sente, riconosce, condivide: tutte azioni alimentate da una forza interiore, originata da una sensibilità educata e da una sofferenza intima di chi teme non ci sia alcuno in ascolto, e per queste traslate, sia nel lirismo di segni e di colori rapidi, quanto delicati, che nelle visioni esangui di fluidi che lasciano la vita, aprendo alla grande riflessione sulla malattia e la morte.
La visione delle opere costituisce dunque un dialogo creativo e invita, agevolandola, un’immersione totale nel mondo unico e universale dell’arte.
Ivano Emilio Zanetti. Nasce a Volongo (Cremona) il 26 aprile 1962. Si diletta fin da giovanissimo nei ritratti e nel figurativo per approdare in maturità all’astrattismo Informale che ancora lo contraddistingue, conservando però dei tratti della figura. Partecipa a numerose collettive e a premi, tra i quali il “premio critica” alla Galleria Eustacchi, Milano; alla collettiva al palazzo “Centro Museale a Monselice” (PD), a “Conc.IdeAndre” (FE) con opera esposta nel calendario 2010 ded. A Fabrizio De André”; inoltre alle collettive “Incontri 2009”, Galleria GAMeC - CentroArteModerna Pisa, alla “mini Quadro 2009” Galleria Eustacchi Milano. Ottiene inoltre una menzione speciale “Conc. 30x30”, Galleria Poliedro (TS)
La sperimentazione informale del lavoro di Ivano Emilio Zanetti trova la sua origine nella ricerca di una forma rapida e intensa, spesso sfuggente, che indaga con pennellature acriliche, e dove il tratto e il colore dicono un’urgenza espressiva, che gli permettono nel contempo di evadere oltre la dimensione spaziale del quadro.
Oggi si assiste allo svelamento della forma: i lavori più recenti mostrano una chiara dispersione dell’originale materico, una perdita della presenza autoritaria del soggetto che lo obbligava a ri-produrre, a vantaggio di una analisi che tende a produrre, grazie ad un grafismo poetico ed emozionale.
L’accezione verbale è data dal fatto che la stesura del testo risulta più personale e del tutto autonoma dalla riproduzione fotografica. In tal senso lo svelamento della rappresentazione dei soggetti (viso, corpo, oggetto, scena..), che tanto hanno contribuito alle prime opere intrise di colori squillanti, si trasformano in oggetti grafici, in grandi stesure di pennellate energiche che creano la trama come luogo di accoglienza dei predicati che vanno a costituire una lenta ma energica tessitura dell’opera. In essa si configura l’espressione interiore di un suo moto perpetuo che riconduce alla fonte della sua ispirazione. I temi sono alimentati da una forte tensione che va al di là del reale, per restituirci le diverse declinazioni della relazione soggettiva arte-vita.
Passione, sensualità e malinconia, spesso compresenti, sono generate dall’impronta biografica della memoria e diventano le forme metaforiche utili a indirizzare l’indagine personale verso una dimensione visionaria dell’altrove.
Giuliana Donzello
17
aprile 2013
Sedna – Contemporaneity: Signs of modern Times
Dal 17 aprile al 21 luglio 2013
arte contemporanea
Location
STUDIO D’ARTE MES3
Livorno, Via Giuseppe Verdi, 40, (Livorno)
Livorno, Via Giuseppe Verdi, 40, (Livorno)
Orario di apertura
da martedì a domenica ore 12-16
Vernissage
17 Aprile 2013, ore 17.30
Autore
Curatore