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Silence and rituals
La rassegna vuole mostrare, attraverso il lavoro di dodici artisti internazionali, quella magica sospensione di suono e di tempo che spesso precede e accompagna le cerimonie e i riti sia laici che religiosi.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Secondo appuntamento con la rassegna
video ideata da Beatrice Bulgari per In Between Art Film, a cura di
Paola Ugolini, per la Sala Cinema del Museo Novecento. Silence and
rituals, questo il titolo della rassegna in programma dal 18 settembre
al 24 Gennaio 2019, vuole mostrare, attraverso il lavoro di dodici
artisti internazionali, quella magica sospensione di suono e di tempo
che spesso precede e accompagna le cerimonie e i riti sia laici che
religiosi. Il silenzio, fisico e mentale, è la meditativa colonna sonora di
tutte le opere presentate in questo progetto per il quale sono stati
volutamente selezionati dei lavori che, pur con profondi significati
politici e sociali, privilegiassero un approccio visivo esteticamente lirico
e poetico. Gli artisti selezionati sono: Sigalit Landau, Masbedo, Hans
Op de Beeck, Adrian Paci, Vanessa Beecroft, Regina José Galindo,
Janis Rafa, Mircea Cantor e Democracia.
“Esperienza irrinunciabile per un museo di arte moderna e
contemporanea, l’aggiornamento sulla produzione di video e film
d’artista può e deve naturalmente ormai convivere con l’ammirazione
per la pittura del Novecento – spiega Sergio Risaliti - In questo senso il
progetto di collaborazione biennale con Beatrice Bulgari, in qualità di
collezionista e mecenate, risulta essere complementare alla presenza in
loco della Collezione permanente della Raccolta Alberto della Ragione”.
L’artista israeliana Sigalit Landau (Gerusalemme, 1969) nelle sue opere
mette in scena delle narrazioni che documentano, presuppongono o
prefigurano un’azione. Quello che l’artista vuole realizzare, con un
approccio multimediale, è un mondo poetico capace di creare “nuove
realtà emotive” che possano avere una presa diretta sulla vita con le
sue profonde e spesso dolorose contraddizioni. La desolata bellezza
del Mar Morto è da quindici anni il suo luogo del cuore, perché
“…credo che questo sia il luogo dove verità e spiritualità diventano
realtà quasi tangibili..”. Nel video Salt Lake (2011) un paio di scarponi
da lavoro ricoperti di sale del Mar Morto cristallizzato dal gelo
sprofondano lentamente sulla superficie ghiacciata di un lago
dell’Europa Centrale, un’immagine di desolata solitudine, struggente e
potente nella sua tragica semplicità che ci mostra tutta la sofferenza e
il dolore dello sradicamento, del peso della memoria e della Storia. È
probabilmente questo uno degli aspetti più interessanti dell’arte
israeliana contemporanea, il saper mescolare tradizione e innovazione
nella realizzazione di lavori impregnati di una memoria storica
collettiva che invita alla riflessione, pur non scadendo mai nella banale
ovvietà del citazionismo.
La vicenda professionale ed esistenziale di una donna, la restauratrice
milanese Pinin Brambilla Barcilon, è al centro del video Madam Pinin
(2017) dei MASBEDO (Nicolò Massazza, Milano 1973, Iacopo Bedogni,
Sarzana 1970) che è una profonda e allo stesso tempo delicata
riflessione visiva sul concetto di bellezza, della sua caducità e della sua
conservazione. Tra il 1977 e il 1999 Pinin Brambilla ha dedicato
cinquantamila ore della sua vita al restauro di quel capolavoro che è il
Cenacolo di Leonardo da Vinci, dipinto dal maestro fiorentino fra il
1495 e il 1498 nell’ex refettorio rinascimentale del convento adiacente
al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano. La storia di quel
restauro, tra le più controverse e complesse operazioni mai realizzate
nella storia di questa disciplina è raccontata dai MASBEDO in questo
video che si focalizza sui dettagli di mani, viso e occhi della
restauratrice che ingranditi, come attraverso una lente, diventano i
protagonisti dell’opera. Il video indaga la relazione tra il mondo delle
immagine e la loro conservazione, tra la creazione come forza pulsante
e attiva che si oppone strenuamente al concetto di fine, di
ineluttabilità temporale e la necessità della cura e della dedizione per
sottrarre la bellezza all’oblio del tempo.
Il belga Hans Op de Beeck (Turnhout, 1969) nei venti ipnotici minuti
del video Staging Silence (2013) mette in scena come per incanto una
serie di diorami che rappresentano dei solitari scenari architettonici in
bianco e nero in cui si alternano momenti di grandi lirismo a momenti
quasi comici. Staging Silences è infatti principalmente basato su quegli
scenari archetipici, sia urbani che naturali, che permangono nei ricordi
dell’artista come fossero dei comuni denominatori visivi dei molteplici
anonimi spazi pubblici di cui negli anni ha fatto esperienza. Il bianco e
nero del video enfatizza questo aspetto ambiguo di oscillazione fra
realtà e immaginazione e la sequenza ininterrotta degli ambienti che si
trasformano l’uno nell’altro rimanda al miscuglio di immagini che
costantemente si sovrappongono nella nostra mente. Il titolo è un
chiaro riferimento a quei luoghi in cui lo spettatore, in assenza di altri
personaggi, può proiettare sé stesso come solitario protagonista della
scena. I luoghi realizzati dall’artista non sono altro che quinte teatrali
animate dove ambientare possibili storie. Questi affascinanti e ipnotici
scenari effimeri, realizzati con oggetti di uso comune che come per
magia diventano altro da se, danno vita ad una serie di proposte visive
altamente evocative che lo spettatore sperimenta nel loro divenire.
Adrian Paci (Scutari, 1969) è un artista che ha vissuto la durezza
dell’Albania schiacciata dal totalitarismo del regime comunista, anche
suo padre Ferdinand era un artista che purtroppo morì giovane
quando Adrian aveva solo sei anni. Lo stile di Ferdinand è figurativo,
con un segno realistico e quasi rude, che però non lascia trapelare il
peso di ideologismi. L’arte di Adrian appartiene invece a un mondo
completamente diverso, nel 1992 arriva in Italia grazie ad una borsa di
studio e da questo momento nel suo fare artistico il disegnare e il
dipingere diventano elementi espressivi piuttosto marginali perché la
gamma dei linguaggi possibili improvvisamente si allarga
enormemente includendo il video e la fotografia. Quando Adrian era
un adolescente, Scutari era una città chiusa al mondo e per un ragazzo
era difficile capire cosa avvenisse anche solo al di là dell’Adriatico, per
questo furono preziosi i libri sui grandi artisti del passato che suo padre
gli aveva lasciato perché gli insegnarono il mestiere dell’Arte attraverso
le loro immagini. Nel video Interregnum (2017) l’artista, non a caso,
sceglie come punto di partenza l’analisi della massa umana,
conducendo lo spettatore in un percorso che dal corpo collettivo
spersonalizzato che occupa i grandi spazi urbani, termina con lo studio
del soggetto singolo. Il video mette insieme diversi momenti
estrapolati dalle celebrazioni di funerali di dittatori comunisti di varie
nazionalità, recuperati in archivi e televisioni nazionali per raccontare
come il corpo politico, formato dalla molteplicità degli esseri umani,
agisca in sincrono con la volontà imposta dal regime. Con la sua morte,
il leader lascia il posto a un altro potente protagonista della scena
pubblica, il dolore, che muove la massa irrazionalmente dolente del
popolo che inconsolabile piange la morte del suo oppressore.
Nella nostra civiltà delle immagini in cui il corpo reale è diventato
virtuosisticamente virtuale, Vanessa Beecroft (Genova, 1969) ha da
sempre estremizzato visivamente l’algida nudità delle sue modelle
sospese in quel limbo di perfezione androgina che rasenta il disturbo
alimentare e la patologia. Fin dagli esordi durante gli anni milanesi da
studentessa all’Accademia di Brera il suo modello morfologico è stato
inarrivabile e altissimo, modelle come personaggi angelicati di Piero
della Francesca o sante eteree o modelle di Vogue. Tutte icone
femminili con il comune denominatore di un rapporto problematico
con il cibo, elemento base dell’esistenza, la cui privazione fa sentire
potenti e che nel Medio Evo avvicinava a Dio. In questa sua ultima
performance VB82, girata a luglio del 2017 nei suggestivi spazi della
Certosa di San Lorenzo a Padula, l’artista abbandona il corpo femminile
e le sue sfaccettature psicologiche per mettere in scena un nuovo
rituale mistico e cristologico. La performance, che ha coinvolto gli
abitanti del borgo, si inserisce nel progetto “Il Cammino delle Certose”
che prevede un itinerario sulle tracce dei monaci e del sacro attraverso
tre Certose: quella di San Martino a Napoli, di San Giacomo a Capri e di
San Lorenzo a Padula. Nello spazio vuoto del refettorio di Padula 13
performers maschi di svariate età, abbigliati con una tunica bianca,
hanno rievocato l’iconografia tradizionale di Cristo così come è stata
interpretata dalla storia dell’arte, con volti ieratici, capelli e barbe
lunghe o fanciullescamente imberbi con i tratti delicati e angelici di un
Gesù bambino. All’esterno una lunga e coreografica processione di 300
persone, tutte biancovestite con dei mantelli che ricordano quelli dei
monaci Certosini che abitavano il convento, hanno dato vita a una
lunga scenografica processione illuminata solo dalla luce delle torce.
La guatemalteca Regina José Galindo (Città del Guatemala, 1974) tra le
più importanti artiste contemporanee e performer internazionali nel
suoi lavori al limite della sopportazione fisica e psicologica usa il suo
corpo, fragile e spesso nudo, per denunciare la violenza contro le
donne e più in generale quella sociale, politica e culturale della società
contemporanea. In ogni sua opera l’artista spinge il suo corpo al limite
del dolore per farsi portavoce attiva dei dimenticati e degli oppressi.
Nel video della performance La Intención (2016), presentata in
anteprima mondiale nella campagna salentina di Novoli, in
un’atmosfera sospesa e quasi magica l’artista ha messo in scena un
rituale ad alto tasso simbolico. L’artista, nonostante il freddo, rimane
per lungo tempo immobile in piedi coperta solo da una sorta di saio
leggero su un’ara rudimentale di pietra, che ricorda un altare
sacrificale pagano, mentre viene man mano ricoperta e avvolta da
centinaia di fascine che solitamente vengono utilizzate per costruire la
grande pira, la focara, che ogni anno il 16 gennaio, viene incendiata in
quel paese in onore di San Antonio Abate. La performance è una
riflessione potente non solo sulle costrizioni che le donne, in quanto
donne, subiscono ma anche una toccante rappresentazione visiva
della simbiosi esistente fra natura e corpo.
L'opera di Janis Rafa (Grecia, 1984) indaga la condizione di mortalità,
lutto e melanconia in relazione al mondo naturale. Le sue narrazioni
sono situate ai margini della realtà urbana, in luoghi spesso inospitali e
sinistri popolati da incidenti automobilistici, cani randagi, e morti che
forse potevano essere evitate. La natura criptica ma universale di
questi mondi cinematografici incomincia sempre con un certa dose di
realismo che però spiazza perché ha molto poco in comune con la sua
usuale rappresentazione. E’ una realtà sdrucciolevole che ci porta in
una dimensione sospesa fra sogno e sensualità in cui I morti e I vivi, gli
esseri umani e I non umani coesistono con una certa inaspettata
armonia. Nel video Winter Came Early (2015) l'impatto violento di una
macchina scrolla vigorosamente un mandorlo per dieci secondi,
provocando la caduta prematura delle foglie. L'azione è catturata da
una fotocamera ad alta velocità a 2000fps. L'opera diventa una
metafora dell'intervento brutale dell'uomo sulla natura e allo stesso
tempo della caducità della vita.
Mircea Cantor (Oradea,1977) nato in Romania, ma che “vive e lavora
nel mondo”, è un artista che realizza opere attraverso cui, con una
buona dose di humor e altrettanta visionarietà, osserva e mette in
scena le rappresentazioni della nostra società contemporanea
sottolineandone le profonde contraddizioni. In Funia (2017) la mano
dell’artista percorre il motivo decorativo esterno, a forma di corda, di
una chiesa di legno tipica della Transilvania. Il titolo Funia significa
“fune" in rumeno, quello della corda è un motivo ricorrente nel lavoro
di Cantor che prende appunto ispirazione dalle decorazioni tipiche
degli edifici in Transilvania. La mano che percorre una di queste
decorazioni sembra volerne sottolineare la materialità, a discapito
della sua presenza quasi immateriale in quanto accennata solo da
questo particolare. La corda, nella tradizione ortodossa, simboleggia il
legame tra corpo e spirito e, legata all’architettura, il senso della
comunità connesso agli edifici che la circonda.
Ser y Durar (Essere e Persistere) è il titolo del video del 2011 del duo di
artisti spagnoli Democracia (Pablo España e Iván López) il cui forte
interesse per temi sociali e politici è sviluppato non solo attraverso
interventi artistici, ma anche attraverso produzioni editoriali e attività
curatoriali. Per realizzare questo video i Democratia hanno collaborato
con un gruppo di giovani traceurs (tracciatori) chiamati a praticare la
loro disciplina, il parkour, all’interno del cimitero acattolico
dell’Almudena di Madrid. Il parkour nasce in Francia negli anni Ottanta
nell’ambito della subcultura delle banlieue parigine (il nome è un
adattamento della parola francese parcours, “percorso”). La sfida tra
i traceurs consiste nello studio dell’architettura urbana, in cui viene
tracciato un percorso da eseguire con la massima precisione, eleganza
e agilità, superando qualsiasi barriera architettonica con le sole
possibilità date dal corpo umano. Una barriera viene percepita non
come impedimento o ostacolo, ma come un elemento che può essere
utilizzato per creare movimento, correndo e creando vere e proprie
acrobazie, secondo un’unica regola: mai fermarsi e mai tirarsi indietro.
L’azione di Ser y Durar è ambientata nel Cimitero Civile di Madrid,
luogo nato nel 1884 in cui ha trovato sepoltura chi non apparteneva
alla Chiesa Cattolica. Il video stabilisce una tensione tra la mobilità di
questa pratica e l’immobilità della necropoli, tra gli epitaffi iscritti sulle
lapidi e questa pratica culturale popolare del tutto contemporanea. Gli
epitaffi (come “amore, libertà, socialismo” o “la libertà e la ragione vi
renderanno più forti”) creano una narrazione che viene definita dai
movimenti dei traceurs. Tuttavia, anche se la loro azione avviene in
questo luogo di memoria collettiva, dotato di profondi significati
simbolici, storici e politici, secondo la natura tipica del parkour,
i traceurs non sono interessati a questi significati di cui rimangono, di
fatto, inconsapevoli. Per questi giovani il paesaggio urbano è
considerato come una struttura senza passato, un sistema di elementi
ricombinabili durante ogni nuova sessione, secondo un principio
paragonabile alla cosiddetta “psicogeografia situazionista”, per cui il
cittadino, invece di essere prigioniero della routine quotidiana,
avrebbe dovuto vedere e vivere le situazioni urbane in un modo
radicalmente nuovo. Possiamo interpretare i gruppi di parkour come
una sorta di guerriglia urbana che forniscono un’esperienza critica
della città, rifiutando valori e modalità spazio-temporali canoniche del
mondo capitalista contemporaneo. Democracia crea una sorta di
monumento in negativo: presentare una pratica critica della cultura
urbana in un contesto in cui emerge la memoria di coloro che hanno
fatto la storia dell’emancipazione dell’individuo, ma dove sono
letteralmente sepolte molte delle aspirazioni egualitarie e
rivoluzionarie della storia spagnola, e nei cui confronti la società
contemporanea è ormai sempre più indifferente o inconsapevole. Da
un lato, lo slogan che identifica il traceur è “essere e persistere”,
dall’altro un epitaffio del cimitero recita: “non c'è nulla dopo la morte.”
video ideata da Beatrice Bulgari per In Between Art Film, a cura di
Paola Ugolini, per la Sala Cinema del Museo Novecento. Silence and
rituals, questo il titolo della rassegna in programma dal 18 settembre
al 24 Gennaio 2019, vuole mostrare, attraverso il lavoro di dodici
artisti internazionali, quella magica sospensione di suono e di tempo
che spesso precede e accompagna le cerimonie e i riti sia laici che
religiosi. Il silenzio, fisico e mentale, è la meditativa colonna sonora di
tutte le opere presentate in questo progetto per il quale sono stati
volutamente selezionati dei lavori che, pur con profondi significati
politici e sociali, privilegiassero un approccio visivo esteticamente lirico
e poetico. Gli artisti selezionati sono: Sigalit Landau, Masbedo, Hans
Op de Beeck, Adrian Paci, Vanessa Beecroft, Regina José Galindo,
Janis Rafa, Mircea Cantor e Democracia.
“Esperienza irrinunciabile per un museo di arte moderna e
contemporanea, l’aggiornamento sulla produzione di video e film
d’artista può e deve naturalmente ormai convivere con l’ammirazione
per la pittura del Novecento – spiega Sergio Risaliti - In questo senso il
progetto di collaborazione biennale con Beatrice Bulgari, in qualità di
collezionista e mecenate, risulta essere complementare alla presenza in
loco della Collezione permanente della Raccolta Alberto della Ragione”.
L’artista israeliana Sigalit Landau (Gerusalemme, 1969) nelle sue opere
mette in scena delle narrazioni che documentano, presuppongono o
prefigurano un’azione. Quello che l’artista vuole realizzare, con un
approccio multimediale, è un mondo poetico capace di creare “nuove
realtà emotive” che possano avere una presa diretta sulla vita con le
sue profonde e spesso dolorose contraddizioni. La desolata bellezza
del Mar Morto è da quindici anni il suo luogo del cuore, perché
“…credo che questo sia il luogo dove verità e spiritualità diventano
realtà quasi tangibili..”. Nel video Salt Lake (2011) un paio di scarponi
da lavoro ricoperti di sale del Mar Morto cristallizzato dal gelo
sprofondano lentamente sulla superficie ghiacciata di un lago
dell’Europa Centrale, un’immagine di desolata solitudine, struggente e
potente nella sua tragica semplicità che ci mostra tutta la sofferenza e
il dolore dello sradicamento, del peso della memoria e della Storia. È
probabilmente questo uno degli aspetti più interessanti dell’arte
israeliana contemporanea, il saper mescolare tradizione e innovazione
nella realizzazione di lavori impregnati di una memoria storica
collettiva che invita alla riflessione, pur non scadendo mai nella banale
ovvietà del citazionismo.
La vicenda professionale ed esistenziale di una donna, la restauratrice
milanese Pinin Brambilla Barcilon, è al centro del video Madam Pinin
(2017) dei MASBEDO (Nicolò Massazza, Milano 1973, Iacopo Bedogni,
Sarzana 1970) che è una profonda e allo stesso tempo delicata
riflessione visiva sul concetto di bellezza, della sua caducità e della sua
conservazione. Tra il 1977 e il 1999 Pinin Brambilla ha dedicato
cinquantamila ore della sua vita al restauro di quel capolavoro che è il
Cenacolo di Leonardo da Vinci, dipinto dal maestro fiorentino fra il
1495 e il 1498 nell’ex refettorio rinascimentale del convento adiacente
al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano. La storia di quel
restauro, tra le più controverse e complesse operazioni mai realizzate
nella storia di questa disciplina è raccontata dai MASBEDO in questo
video che si focalizza sui dettagli di mani, viso e occhi della
restauratrice che ingranditi, come attraverso una lente, diventano i
protagonisti dell’opera. Il video indaga la relazione tra il mondo delle
immagine e la loro conservazione, tra la creazione come forza pulsante
e attiva che si oppone strenuamente al concetto di fine, di
ineluttabilità temporale e la necessità della cura e della dedizione per
sottrarre la bellezza all’oblio del tempo.
Il belga Hans Op de Beeck (Turnhout, 1969) nei venti ipnotici minuti
del video Staging Silence (2013) mette in scena come per incanto una
serie di diorami che rappresentano dei solitari scenari architettonici in
bianco e nero in cui si alternano momenti di grandi lirismo a momenti
quasi comici. Staging Silences è infatti principalmente basato su quegli
scenari archetipici, sia urbani che naturali, che permangono nei ricordi
dell’artista come fossero dei comuni denominatori visivi dei molteplici
anonimi spazi pubblici di cui negli anni ha fatto esperienza. Il bianco e
nero del video enfatizza questo aspetto ambiguo di oscillazione fra
realtà e immaginazione e la sequenza ininterrotta degli ambienti che si
trasformano l’uno nell’altro rimanda al miscuglio di immagini che
costantemente si sovrappongono nella nostra mente. Il titolo è un
chiaro riferimento a quei luoghi in cui lo spettatore, in assenza di altri
personaggi, può proiettare sé stesso come solitario protagonista della
scena. I luoghi realizzati dall’artista non sono altro che quinte teatrali
animate dove ambientare possibili storie. Questi affascinanti e ipnotici
scenari effimeri, realizzati con oggetti di uso comune che come per
magia diventano altro da se, danno vita ad una serie di proposte visive
altamente evocative che lo spettatore sperimenta nel loro divenire.
Adrian Paci (Scutari, 1969) è un artista che ha vissuto la durezza
dell’Albania schiacciata dal totalitarismo del regime comunista, anche
suo padre Ferdinand era un artista che purtroppo morì giovane
quando Adrian aveva solo sei anni. Lo stile di Ferdinand è figurativo,
con un segno realistico e quasi rude, che però non lascia trapelare il
peso di ideologismi. L’arte di Adrian appartiene invece a un mondo
completamente diverso, nel 1992 arriva in Italia grazie ad una borsa di
studio e da questo momento nel suo fare artistico il disegnare e il
dipingere diventano elementi espressivi piuttosto marginali perché la
gamma dei linguaggi possibili improvvisamente si allarga
enormemente includendo il video e la fotografia. Quando Adrian era
un adolescente, Scutari era una città chiusa al mondo e per un ragazzo
era difficile capire cosa avvenisse anche solo al di là dell’Adriatico, per
questo furono preziosi i libri sui grandi artisti del passato che suo padre
gli aveva lasciato perché gli insegnarono il mestiere dell’Arte attraverso
le loro immagini. Nel video Interregnum (2017) l’artista, non a caso,
sceglie come punto di partenza l’analisi della massa umana,
conducendo lo spettatore in un percorso che dal corpo collettivo
spersonalizzato che occupa i grandi spazi urbani, termina con lo studio
del soggetto singolo. Il video mette insieme diversi momenti
estrapolati dalle celebrazioni di funerali di dittatori comunisti di varie
nazionalità, recuperati in archivi e televisioni nazionali per raccontare
come il corpo politico, formato dalla molteplicità degli esseri umani,
agisca in sincrono con la volontà imposta dal regime. Con la sua morte,
il leader lascia il posto a un altro potente protagonista della scena
pubblica, il dolore, che muove la massa irrazionalmente dolente del
popolo che inconsolabile piange la morte del suo oppressore.
Nella nostra civiltà delle immagini in cui il corpo reale è diventato
virtuosisticamente virtuale, Vanessa Beecroft (Genova, 1969) ha da
sempre estremizzato visivamente l’algida nudità delle sue modelle
sospese in quel limbo di perfezione androgina che rasenta il disturbo
alimentare e la patologia. Fin dagli esordi durante gli anni milanesi da
studentessa all’Accademia di Brera il suo modello morfologico è stato
inarrivabile e altissimo, modelle come personaggi angelicati di Piero
della Francesca o sante eteree o modelle di Vogue. Tutte icone
femminili con il comune denominatore di un rapporto problematico
con il cibo, elemento base dell’esistenza, la cui privazione fa sentire
potenti e che nel Medio Evo avvicinava a Dio. In questa sua ultima
performance VB82, girata a luglio del 2017 nei suggestivi spazi della
Certosa di San Lorenzo a Padula, l’artista abbandona il corpo femminile
e le sue sfaccettature psicologiche per mettere in scena un nuovo
rituale mistico e cristologico. La performance, che ha coinvolto gli
abitanti del borgo, si inserisce nel progetto “Il Cammino delle Certose”
che prevede un itinerario sulle tracce dei monaci e del sacro attraverso
tre Certose: quella di San Martino a Napoli, di San Giacomo a Capri e di
San Lorenzo a Padula. Nello spazio vuoto del refettorio di Padula 13
performers maschi di svariate età, abbigliati con una tunica bianca,
hanno rievocato l’iconografia tradizionale di Cristo così come è stata
interpretata dalla storia dell’arte, con volti ieratici, capelli e barbe
lunghe o fanciullescamente imberbi con i tratti delicati e angelici di un
Gesù bambino. All’esterno una lunga e coreografica processione di 300
persone, tutte biancovestite con dei mantelli che ricordano quelli dei
monaci Certosini che abitavano il convento, hanno dato vita a una
lunga scenografica processione illuminata solo dalla luce delle torce.
La guatemalteca Regina José Galindo (Città del Guatemala, 1974) tra le
più importanti artiste contemporanee e performer internazionali nel
suoi lavori al limite della sopportazione fisica e psicologica usa il suo
corpo, fragile e spesso nudo, per denunciare la violenza contro le
donne e più in generale quella sociale, politica e culturale della società
contemporanea. In ogni sua opera l’artista spinge il suo corpo al limite
del dolore per farsi portavoce attiva dei dimenticati e degli oppressi.
Nel video della performance La Intención (2016), presentata in
anteprima mondiale nella campagna salentina di Novoli, in
un’atmosfera sospesa e quasi magica l’artista ha messo in scena un
rituale ad alto tasso simbolico. L’artista, nonostante il freddo, rimane
per lungo tempo immobile in piedi coperta solo da una sorta di saio
leggero su un’ara rudimentale di pietra, che ricorda un altare
sacrificale pagano, mentre viene man mano ricoperta e avvolta da
centinaia di fascine che solitamente vengono utilizzate per costruire la
grande pira, la focara, che ogni anno il 16 gennaio, viene incendiata in
quel paese in onore di San Antonio Abate. La performance è una
riflessione potente non solo sulle costrizioni che le donne, in quanto
donne, subiscono ma anche una toccante rappresentazione visiva
della simbiosi esistente fra natura e corpo.
L'opera di Janis Rafa (Grecia, 1984) indaga la condizione di mortalità,
lutto e melanconia in relazione al mondo naturale. Le sue narrazioni
sono situate ai margini della realtà urbana, in luoghi spesso inospitali e
sinistri popolati da incidenti automobilistici, cani randagi, e morti che
forse potevano essere evitate. La natura criptica ma universale di
questi mondi cinematografici incomincia sempre con un certa dose di
realismo che però spiazza perché ha molto poco in comune con la sua
usuale rappresentazione. E’ una realtà sdrucciolevole che ci porta in
una dimensione sospesa fra sogno e sensualità in cui I morti e I vivi, gli
esseri umani e I non umani coesistono con una certa inaspettata
armonia. Nel video Winter Came Early (2015) l'impatto violento di una
macchina scrolla vigorosamente un mandorlo per dieci secondi,
provocando la caduta prematura delle foglie. L'azione è catturata da
una fotocamera ad alta velocità a 2000fps. L'opera diventa una
metafora dell'intervento brutale dell'uomo sulla natura e allo stesso
tempo della caducità della vita.
Mircea Cantor (Oradea,1977) nato in Romania, ma che “vive e lavora
nel mondo”, è un artista che realizza opere attraverso cui, con una
buona dose di humor e altrettanta visionarietà, osserva e mette in
scena le rappresentazioni della nostra società contemporanea
sottolineandone le profonde contraddizioni. In Funia (2017) la mano
dell’artista percorre il motivo decorativo esterno, a forma di corda, di
una chiesa di legno tipica della Transilvania. Il titolo Funia significa
“fune" in rumeno, quello della corda è un motivo ricorrente nel lavoro
di Cantor che prende appunto ispirazione dalle decorazioni tipiche
degli edifici in Transilvania. La mano che percorre una di queste
decorazioni sembra volerne sottolineare la materialità, a discapito
della sua presenza quasi immateriale in quanto accennata solo da
questo particolare. La corda, nella tradizione ortodossa, simboleggia il
legame tra corpo e spirito e, legata all’architettura, il senso della
comunità connesso agli edifici che la circonda.
Ser y Durar (Essere e Persistere) è il titolo del video del 2011 del duo di
artisti spagnoli Democracia (Pablo España e Iván López) il cui forte
interesse per temi sociali e politici è sviluppato non solo attraverso
interventi artistici, ma anche attraverso produzioni editoriali e attività
curatoriali. Per realizzare questo video i Democratia hanno collaborato
con un gruppo di giovani traceurs (tracciatori) chiamati a praticare la
loro disciplina, il parkour, all’interno del cimitero acattolico
dell’Almudena di Madrid. Il parkour nasce in Francia negli anni Ottanta
nell’ambito della subcultura delle banlieue parigine (il nome è un
adattamento della parola francese parcours, “percorso”). La sfida tra
i traceurs consiste nello studio dell’architettura urbana, in cui viene
tracciato un percorso da eseguire con la massima precisione, eleganza
e agilità, superando qualsiasi barriera architettonica con le sole
possibilità date dal corpo umano. Una barriera viene percepita non
come impedimento o ostacolo, ma come un elemento che può essere
utilizzato per creare movimento, correndo e creando vere e proprie
acrobazie, secondo un’unica regola: mai fermarsi e mai tirarsi indietro.
L’azione di Ser y Durar è ambientata nel Cimitero Civile di Madrid,
luogo nato nel 1884 in cui ha trovato sepoltura chi non apparteneva
alla Chiesa Cattolica. Il video stabilisce una tensione tra la mobilità di
questa pratica e l’immobilità della necropoli, tra gli epitaffi iscritti sulle
lapidi e questa pratica culturale popolare del tutto contemporanea. Gli
epitaffi (come “amore, libertà, socialismo” o “la libertà e la ragione vi
renderanno più forti”) creano una narrazione che viene definita dai
movimenti dei traceurs. Tuttavia, anche se la loro azione avviene in
questo luogo di memoria collettiva, dotato di profondi significati
simbolici, storici e politici, secondo la natura tipica del parkour,
i traceurs non sono interessati a questi significati di cui rimangono, di
fatto, inconsapevoli. Per questi giovani il paesaggio urbano è
considerato come una struttura senza passato, un sistema di elementi
ricombinabili durante ogni nuova sessione, secondo un principio
paragonabile alla cosiddetta “psicogeografia situazionista”, per cui il
cittadino, invece di essere prigioniero della routine quotidiana,
avrebbe dovuto vedere e vivere le situazioni urbane in un modo
radicalmente nuovo. Possiamo interpretare i gruppi di parkour come
una sorta di guerriglia urbana che forniscono un’esperienza critica
della città, rifiutando valori e modalità spazio-temporali canoniche del
mondo capitalista contemporaneo. Democracia crea una sorta di
monumento in negativo: presentare una pratica critica della cultura
urbana in un contesto in cui emerge la memoria di coloro che hanno
fatto la storia dell’emancipazione dell’individuo, ma dove sono
letteralmente sepolte molte delle aspirazioni egualitarie e
rivoluzionarie della storia spagnola, e nei cui confronti la società
contemporanea è ormai sempre più indifferente o inconsapevole. Da
un lato, lo slogan che identifica il traceur è “essere e persistere”,
dall’altro un epitaffio del cimitero recita: “non c'è nulla dopo la morte.”
17
settembre 2018
Silence and rituals
Dal 17 settembre 2018 al 24 gennaio 2019
arte contemporanea
Location
MUSEO NOVECENTO
Firenze, Piazza Di Santa Maria Novella, 10, (Firenze)
Firenze, Piazza Di Santa Maria Novella, 10, (Firenze)
Biglietti
intero €8,50
ridotto €5,00
Orario di apertura
Lun - Mar - Mer - Sab - Dom | 11:00 - 20:00
Giovedì| 11:00 - 14:00
Venerdì | 11:00 - 23:00
Ultimo ingresso un'ora prima della chiusura
Vernissage
17 Settembre 2018, h 18 su invito
Autore
Curatore