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Silvana Pierangelini Recchioni – Vince la Luce
La “via lucis” disegnata, dipinta e plasmata dall’artista
Comunicato stampa
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Vince la luce
La “via lucis” di Silvana Pierangelini Recchioni
«Non seguita a venire notte, sempre più notte?»: con questo interrogativo – che si conficca nella mente con la violenza tipica delle domande radicali – i contemporanei si sono affacciati sul XX secolo e lo hanno attraversato per intero, a tentoni, fra le brutture dei totalitarismi e delle ideologie che li ispirano. Messo da Nietzsche sulle labbra del pazzo di cui parla l’aforisma n. 125 della Gaia scienza, l’interrogativo denuncia il fallimento di un’epoca che sarebbe dovuta essere tutta di luce, di sempre più forte e splendente lucore, secondo le previsione di uno dei più importanti teorici dell’illuminismo, quell’Immanuel Kant che nel suo breve Conflitto delle facoltà, già sul finire del Settecento, scriveva che nell’epoca della maturità dell’uomo, cambiando finalmente i rapporti di forza tra fede e ragione, quest’ultima non si accontenta più di «reggere lo strascico dietro la sua graziosa signora», ma la precede ormai «illuminandole i passi con la sua fiaccola». Alla luce di quella fiaccola, in alcuni tornanti della modernità, gli uomini non hanno più visto e hanno perduto di vista l’antico punto di riferimento, Dio. Lo testimonia drammaticamente il folle nietzscheano che, «accesa una lanterna», grida disperato «Cerco Dio! Cerco Dio!»; ai «molti uomini non credenti in Dio» che trova in piazza, egli rinfaccia il loro comune misfatto: «Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso!». E dopo aver predicato il vangelo della morte di Dio, quel tristo profeta «tace e getta a terra la sua lanterna, che va in pezzi spegnendosi». Non gli rimane che registrare l’avanzare del buio: «Non seguita a venire notte, sempre più notte?».
Dopo Nietzsche sembra essere calato il crepuscolo: nessuna fonte di luce, ormai, né da parte della fede né da parte della ragione. Per un verso la lanterna della ragione è rovinata a terra e s’è spenta frantumandosi. Per altro verso la fede è ridotta al «lumicino» – per citare una suggestiva novella di Pirandello, inventore della cosiddetta lanterninosofia –, inadeguato a far luce, incapace di illuminare di senso «il bujo angoscioso della rovinata esistenza», bisognoso d’esser protetto e «riparato» dal «gelido soffio degli ultimi disinganni», insufficiente a vedere nella notte.
Buono però per essere visti, per essere avvistati, per essere individuati pur nella notte: «“Non importa: Dio mi vede!”, si esortava in cuor suo. E n’era proprio sicuro, di questo, il signor Aurelio, che Dio lo vedeva per quel suo lanternino» (Il vecchio Dio, 1902). Come a dire che la piccola lanterna è comunque capace di creare un certo chiarore, riesce a fendere le tenebre, anche se non le dirada. Ritaglia una specie di zona franca, molto esigua in realtà, una sorta di mandorla tremolante entro cui essa stessa si colloca per proteggersi dall’incombere nero della notte. Non può essa, piccola luce, abolire la grande, immensa oscurità. Essa non si tira fuori dalla notte, vi rimane immersa e persino assediata. E, tuttavia, non se ne lascia fagocitare; si segnala dentro di essa: comunica a chi veramente guarda che, nella notte, essa c’è. Il lanternino, perciò, dà a chi lo regge la consapevolezza di essere finalmente visto.
Così, inopinatamente, «vince la luce», come icasticamente afferma Benedetto XVI al n. 37 della sua enciclica Spe salvi, all’alba di un nuovo secolo.
In realtà questa vittoria dura da tempo, già da quando le tenebre calavano su tutta la terra, mentre il velo del tempio gerosolimitano si squarciava e lo sguardo di Dio sul mondo s’interrompeva sotto le palpebre chiuse del Crocifisso, deposto dal suo patibolo e intombato in un ipogeo senza spiragli, occluso da un masso. Lì, nella camera oscura in cui finiva la via crucis, iniziava un altro cammino, rischiarato da un fulgore totalmente nuovo: via lucis. Sul lenzuolo che avvolgeva il corpo del Crocifisso e nel sudario che copriva il suo volto, dagli apostoli trovati afflosciati su se stessi dentro il sepolcro vuoto, rimane – secondo le antiche leggende cristiane della Sindone e del Mandylion – la sua immagine, la traccia delle sue forme, il disegno del suo volto, quasi come un’impressione fotografica sortita dall’irrompere sotterra della luce pasquale grazie a cui egli si rialzò Risorto.
È da quel giorno che l’Immagine di Dio può essere raffigurata umanamente. Saremmo fermi ancora al divieto aniconico dettato da Jhwh Adonai a Mosé sulle cime del Sinai, se non ci fosse stata quella lotta fra tenebre e luce. Non ci sarebbe stata arte cristiana senza quell’irrompere luminoso nel e dal sepolcro buio. Nessuno infatti può raffigurare Dio, che è l’Invisibile. Solo Dio può esprimere la propria Immagine. Cristo, secondo la fede cristiana, è l’Immagine visibile del Dio invisibile. E le fattezze di Cristo rimangono consegnate – stando alle leggende sopra ricordate, straordinariamente coerenti alla testimonianza neotestamentaria e al conseguente dogma ecclesiale – in immagini non dipinte da mani umane né prodotte dall’uomo in alcun altra maniera. Per questo il Mandylion – che secondo la devota tradizione è lo stesso sudario di cui parla Gv 20,7, su cui sarebbe rimasta impressa a sangue l’orma del volto del Crocifisso – è considerato come la “veronica”, la vera-icona del Cristo, che permette all’uomo di superare l’antico divieto aniconico senza disobbedirgli.
In realtà – e questa è la lezione che ci proviene dalla leggenda del Mandylion – il comandamento aniconico, più che un divieto rappresenta l’affermazione di una impossibilità umana corrispondente alla radicale ineffabilità – verbale, ma anche figurale – di Dio: Questi – secondo la fede biblica – non può esser detto in alcun modo dall’uomo, neppure mediante immagini artisticamente prodotte. La totale afasia umana – poetica e poietica – viene meno solo se Dio stesso interviene per guarirla. Il Mandylion sarebbe, dunque, la vera immagine di Dio, in quanto raffigurante il volto di Gesù – Icona del Padre suo – impresso dalla divina luce pasquale sul sudario del Crocifisso Risorto. Gli artisti cristiani di ogni tempo e di ogni luogo, raffigurando Dio con le fattezze di Cristo Gesù, non dovrebbero fare altro che riprodurre immagini dell’Immagine, copie della veronica, questa sì autentica e perciò attendibile reliquia dell’immagine umana di Dio rivelatasi in Gesù di Nazareth. Il Mandylion sarebbe, in questo senso, l’archetipo acheiropoieto da ricopiare fedelmente, al fine di superare l’antico divieto aniconico senza però prevaricare il comandamento dato a Israele di non farsi altra immagine di Dio.
Un emblematico indizio dell’importanza iconologica del Mandylion lo si ritrova in uno dei più belli e più grandi complessi iconografici cristiani oggi esistenti, vale a dire nei mosaici del duomo di Monreale, dove l’immenso Pantocratore, che domina la basilica normanna dal catino dell’abside centrale, quasi si specchia in un più piccolo mosaico riproducente il sudario che – sulla punta dell’arco dirimpettaio all’abside – contiene il volto di Gesù solcato dai segni dell’agonia: come per dire che la gigantesca figura del Pantocratore non è presunzione idolatrica, ma riproposizione della vera immagine umana di Dio miracolosamente rimasta impressa nel Mandylion. L’immagine gloriosa di Cristo, col suo volto raggiante e ornato dal nimbo dorato con inscritta la croce gemmata, vestito dei colori regali e sacerdotali propri di Colui che è stato innalzato al di sopra di tutto e di tutti, è il riflesso speculare e coerente dell’immagine del Crocifisso, dell’incoronato di spine, di Colui sulla cui tunica di servo sofferente sono stati giocati i dadi.
In questa prospettiva si riesce a intuire che è la luce della resurrezione che rende raffigurabile artisticamente il Crocifisso del Golgota e, in lui, Dio stesso. Solo alla luce della resurrezione colui che era stato violentemente privato di ogni sembianza umana rimane per sempre come la vera e unica Immagine di Dio. La resurrezione, in tal senso, sta all’inizio anche dell’iconografia e dell’arte cristiane. E ogni produzione iconografica peculiarmente cristiana non può perciò prescindere dall’evento capitale che ha trasformato la creazione e ha redento la storia. La luce pasquale, così, diventa il criterio principiale dell’arte cristiana.
La via lucis disegnata da Silvana Pierangelini Recchioni risulta dalla memoria lunga ed elaborata di quel criterio principiale. Non è un caso che l’Artista abbia già nel 1979 realizzato in terracotta una via crucis, facendola culminare – secondo una scelta allora ancora inconsueta – con una quindicesima stazione raffigurante la resurrezione.
Coerentemente, le quattordici stazioni della via lucis riprendono a dipanarsi, di nuovo, a partire dalla resurrezione, sviluppandosi dal mattino di Pasqua, allorché le pie donne prima e Pietro con Giovanni subito dopo trovano vuota la tomba, fino ai momenti culminanti dell’evento pasquale, l’Ascensione e la Pentecoste, attraverso le apparizioni del Risorto testimoniate nei vangeli: alla Maddalena, ai due di Emmaus, nel cenacolo di Gerusalemme, a Tommaso, sulla spiaggia di Tiberiade. Scenari di luce illustrati in fedele ascolto del racconto evangelico, a volte abbracciati con sguardo largo ma anche scrutati fin nel particolare centrale, come una sorta di zoomata o una sequenza di fotogrammi. Avviene così nel caso dei due discepoli di Emmaus, colti prima tristi sulla strada, al seguito del misterioso e irriconosciuto loro Compagno e poi seduti alla sua mensa mentr’egli spezza per loro il Pane. E così è anche nel caso dell’apparizione nel cenacolo, raffigurata prima nel momento dell’incontro del Risorto con tutti gli apostoli e poi nel momento dell’incontro con l’incredulo Tommaso. E com’è ancora una volta nel caso dell’apparizione al lago di Tiberiade, allorché alla scena della pesca miracolosa segue immediatamente il martellante e illuminante triplice «mi ami tu?» rivolto dal Risorto a Pietro.
Tre caratteristiche insistenti colpiscono chi guarda le stazioni della via lucis: il contrasto degli inchiostri neri sul cartone bianco, lo stupore colto sui volti, il ritmo circolare delle scene raffigurate.
Il contrasto degli inchiostri rispetto al bianco, su cui essi vengono dosati con irruenza studiata, esprime bene la vittoria della luce sulle tenebre della morte. Mentre si rimane a guardare le stazioni di questa via lucis, il buio può infatti esser immaginato come un diaframma che viene prima fiaccato e quindi smembrato, ridotto a brandelli da una luce che urge al di là di esso. In realtà la luce del Risorto non è distruttiva. È, piuttosto, salvifica. Per questo essa, investendo la lavagna nera del buio, non la travolge, pur stravolgendola. Il buio viene intarsiato di luce. E, mentre pur viene diradato per sempre, esso viene anche salvato e perciò valorizzato, dotato cioè di un valore che prima non aveva: rimane come il cesello prezioso grazie a cui la luce diventa “guardabile” umanamente: i tratti d’inchiostro segnano così le forme della luce, nel cui bagliore risultano finalmente riconoscibili i visi stupiti dei discepoli e il volto del Signore.
Lo stupore è un’altra caratteristica di questa via lucis. Lo si coglie sui volti dei personaggi raffigurati. Di volta in volta è paura, è titubanza, è dubbio, è sorpresa, oppure meraviglia, speranza, entusiasmo, gioia. Il chiaro-scuro degli inchiostri esprime bene anche questa esperienza fondamentale nell’esistenza di coloro che credono nel Risorto. Essi, come Paolo, sanno che sarebbe stata vanificata la loro fede, se Cristo non fosse davvero resuscitato. La Pasqua del loro Signore è anche il loro passaggio dalla morte antica alla vita nuova, e da tutto ciò che rappresenta la morte a ciò che la vita significa. Perciò lo stupore, nelle sue varie declinazioni e sfumature, si ritrova nella prima Domenica sul volto delle pie donne di fronte all’angelo, di Pietro e di Giovanni presso il sepolcro vuoto, di Maria di Magdala davanti al divino Giardiniere, dei due che viaggiano sulla strada di Emmaus, degli apostoli rincantucciati nel cenacolo, del primo Pescatore invitato a cena dal suo Maestro sulla spiaggia, di Tommaso piegato a combattere con la propria incredulità, di lui stesso e degli altri suoi compagni che, «con lo sguardo fisso verso il cielo» vedono prima il loro Signore tornare presso il Padre suo e poi ritornare su di loro – e sulla Madre con loro – a ricevere dall’alto la luce infuocata dello Spirito. Tutti loro sono i rappresentanti dell’uomo che si meraviglia, che si pone degli interrogativi, che si sforza di ragionare su ciò che gli altri gli riferiscono, che non si accontenta di credere ciecamente. Ma anche e soprattutto dell’uomo che si ritrova, per grazia, a fare personalmente esperienza del Risorto. Quando le pie donne, e Pietro e Giovanni, e Tommaso e i due di Emmaus, e tutti gli altri discepoli spalancano le bocche, e sgranano gli occhi, e stendono la mano verso il Risorto, fanno un’esperienza di grazia, a cui giungono allo stesso modo in cui vi giungono – nei vari tornanti della storia della salvezza – tutti i credenti: grazie all’incontro col Signore. Dalle terre di Ur alla Galilea, attraversando i deserti per giungere alle rive del lago di Tiberiade, l’appello di Dio corre sull’orizzonte biblico e incontra gli uomini. Patriarchi, profeti, giusti, pubblicani, raccoglitori di sicomori e pescatori sono sovranamente interpellati, messi alle strette, indotti ad arrendersi, persuasi a lasciarsi sedurre. Con voce discreta, più simile ad un soffio di vento leggero che al tuono terrificante, il Signore li invita a levare le tende, a togliersi i calzari, ad alzarsi nella notte, a sciogliere le vele, a lasciare il banco delle imposte, a gettare di nuovo le reti. Li spinge a fidarsi della sua promessa. E li provoca alla conversione. Essi resistono alla chiamata, con le armi di un ragionevole stupore, tipicamente e autenticamente umano: come potrà avvenire tutto ciò? perché proprio io? chi dirò che mi manda? Interrogativi pur legittimi, che si traducono in meraviglia credente allorché fiorisce l’obbedienza sulle labbra di Abramo, o di Samuele, o di Maria di Nazareth, o di Pietro e di tanti altri nell’Antico e nel Nuovo Testamento: «Ecco il tuo servo, si faccia di me secondo la tua parola». A questo punto l’irrinunciabile esercizio razionale dell’uomo viene incluso e ospitato nel suo atto di fede.
Il ritmo circolare delle scene raffigurate nella via lucis è l’altra importante caratteristica di questi inchiostri. La disposizione avvolgente delle figure, sempre strette attorno al Risorto, sempre abbracciate fra di loro e con lui, imprime difatti dinamismo al racconto, che così non si riduce ad una memoria stantia ma garantisce una Presenza che ancora e di nuovo pulsa oggi e qui. E coinvolge vitalmente, nel rapporto col Signore, chi sta al di qua, chi ammira i disegni, chi si lascia da essi interpellare. La via lucis, raffigurata nelle sue varie scene con ritmo avvolgente, risulta perciò anche coinvolgente, fatta com’è di grappoli di figure umane in cui tu senti il bisogno di entrare, di raggi luminosi da cui tu senti di voler farti colpire. C’è un’aura ecclesiale in questa via lucis, un afflato comunitario che riempie il cuore di speranza. A partire dalla Pasqua, non siamo più soli. Ci aggrappiamo anche noi, come i due di Emmaus, alle mani del Signore che spezza il pane eucaristico. Le braccia del Risorto congregano anche noi in comunità, mentre ci raggiunge la sua promessa: «Io sono con voi tutti giorni, fino alla fine».
Massimo Naro
Rettore del Seminario Vescovile di Caltanissetta
Direttore del Centro Studi Cammarata
Docente di teologia sistematica nella Facoltà Teologica di Sicilia in Palermo
La “via lucis” di Silvana Pierangelini Recchioni
«Non seguita a venire notte, sempre più notte?»: con questo interrogativo – che si conficca nella mente con la violenza tipica delle domande radicali – i contemporanei si sono affacciati sul XX secolo e lo hanno attraversato per intero, a tentoni, fra le brutture dei totalitarismi e delle ideologie che li ispirano. Messo da Nietzsche sulle labbra del pazzo di cui parla l’aforisma n. 125 della Gaia scienza, l’interrogativo denuncia il fallimento di un’epoca che sarebbe dovuta essere tutta di luce, di sempre più forte e splendente lucore, secondo le previsione di uno dei più importanti teorici dell’illuminismo, quell’Immanuel Kant che nel suo breve Conflitto delle facoltà, già sul finire del Settecento, scriveva che nell’epoca della maturità dell’uomo, cambiando finalmente i rapporti di forza tra fede e ragione, quest’ultima non si accontenta più di «reggere lo strascico dietro la sua graziosa signora», ma la precede ormai «illuminandole i passi con la sua fiaccola». Alla luce di quella fiaccola, in alcuni tornanti della modernità, gli uomini non hanno più visto e hanno perduto di vista l’antico punto di riferimento, Dio. Lo testimonia drammaticamente il folle nietzscheano che, «accesa una lanterna», grida disperato «Cerco Dio! Cerco Dio!»; ai «molti uomini non credenti in Dio» che trova in piazza, egli rinfaccia il loro comune misfatto: «Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso!». E dopo aver predicato il vangelo della morte di Dio, quel tristo profeta «tace e getta a terra la sua lanterna, che va in pezzi spegnendosi». Non gli rimane che registrare l’avanzare del buio: «Non seguita a venire notte, sempre più notte?».
Dopo Nietzsche sembra essere calato il crepuscolo: nessuna fonte di luce, ormai, né da parte della fede né da parte della ragione. Per un verso la lanterna della ragione è rovinata a terra e s’è spenta frantumandosi. Per altro verso la fede è ridotta al «lumicino» – per citare una suggestiva novella di Pirandello, inventore della cosiddetta lanterninosofia –, inadeguato a far luce, incapace di illuminare di senso «il bujo angoscioso della rovinata esistenza», bisognoso d’esser protetto e «riparato» dal «gelido soffio degli ultimi disinganni», insufficiente a vedere nella notte.
Buono però per essere visti, per essere avvistati, per essere individuati pur nella notte: «“Non importa: Dio mi vede!”, si esortava in cuor suo. E n’era proprio sicuro, di questo, il signor Aurelio, che Dio lo vedeva per quel suo lanternino» (Il vecchio Dio, 1902). Come a dire che la piccola lanterna è comunque capace di creare un certo chiarore, riesce a fendere le tenebre, anche se non le dirada. Ritaglia una specie di zona franca, molto esigua in realtà, una sorta di mandorla tremolante entro cui essa stessa si colloca per proteggersi dall’incombere nero della notte. Non può essa, piccola luce, abolire la grande, immensa oscurità. Essa non si tira fuori dalla notte, vi rimane immersa e persino assediata. E, tuttavia, non se ne lascia fagocitare; si segnala dentro di essa: comunica a chi veramente guarda che, nella notte, essa c’è. Il lanternino, perciò, dà a chi lo regge la consapevolezza di essere finalmente visto.
Così, inopinatamente, «vince la luce», come icasticamente afferma Benedetto XVI al n. 37 della sua enciclica Spe salvi, all’alba di un nuovo secolo.
In realtà questa vittoria dura da tempo, già da quando le tenebre calavano su tutta la terra, mentre il velo del tempio gerosolimitano si squarciava e lo sguardo di Dio sul mondo s’interrompeva sotto le palpebre chiuse del Crocifisso, deposto dal suo patibolo e intombato in un ipogeo senza spiragli, occluso da un masso. Lì, nella camera oscura in cui finiva la via crucis, iniziava un altro cammino, rischiarato da un fulgore totalmente nuovo: via lucis. Sul lenzuolo che avvolgeva il corpo del Crocifisso e nel sudario che copriva il suo volto, dagli apostoli trovati afflosciati su se stessi dentro il sepolcro vuoto, rimane – secondo le antiche leggende cristiane della Sindone e del Mandylion – la sua immagine, la traccia delle sue forme, il disegno del suo volto, quasi come un’impressione fotografica sortita dall’irrompere sotterra della luce pasquale grazie a cui egli si rialzò Risorto.
È da quel giorno che l’Immagine di Dio può essere raffigurata umanamente. Saremmo fermi ancora al divieto aniconico dettato da Jhwh Adonai a Mosé sulle cime del Sinai, se non ci fosse stata quella lotta fra tenebre e luce. Non ci sarebbe stata arte cristiana senza quell’irrompere luminoso nel e dal sepolcro buio. Nessuno infatti può raffigurare Dio, che è l’Invisibile. Solo Dio può esprimere la propria Immagine. Cristo, secondo la fede cristiana, è l’Immagine visibile del Dio invisibile. E le fattezze di Cristo rimangono consegnate – stando alle leggende sopra ricordate, straordinariamente coerenti alla testimonianza neotestamentaria e al conseguente dogma ecclesiale – in immagini non dipinte da mani umane né prodotte dall’uomo in alcun altra maniera. Per questo il Mandylion – che secondo la devota tradizione è lo stesso sudario di cui parla Gv 20,7, su cui sarebbe rimasta impressa a sangue l’orma del volto del Crocifisso – è considerato come la “veronica”, la vera-icona del Cristo, che permette all’uomo di superare l’antico divieto aniconico senza disobbedirgli.
In realtà – e questa è la lezione che ci proviene dalla leggenda del Mandylion – il comandamento aniconico, più che un divieto rappresenta l’affermazione di una impossibilità umana corrispondente alla radicale ineffabilità – verbale, ma anche figurale – di Dio: Questi – secondo la fede biblica – non può esser detto in alcun modo dall’uomo, neppure mediante immagini artisticamente prodotte. La totale afasia umana – poetica e poietica – viene meno solo se Dio stesso interviene per guarirla. Il Mandylion sarebbe, dunque, la vera immagine di Dio, in quanto raffigurante il volto di Gesù – Icona del Padre suo – impresso dalla divina luce pasquale sul sudario del Crocifisso Risorto. Gli artisti cristiani di ogni tempo e di ogni luogo, raffigurando Dio con le fattezze di Cristo Gesù, non dovrebbero fare altro che riprodurre immagini dell’Immagine, copie della veronica, questa sì autentica e perciò attendibile reliquia dell’immagine umana di Dio rivelatasi in Gesù di Nazareth. Il Mandylion sarebbe, in questo senso, l’archetipo acheiropoieto da ricopiare fedelmente, al fine di superare l’antico divieto aniconico senza però prevaricare il comandamento dato a Israele di non farsi altra immagine di Dio.
Un emblematico indizio dell’importanza iconologica del Mandylion lo si ritrova in uno dei più belli e più grandi complessi iconografici cristiani oggi esistenti, vale a dire nei mosaici del duomo di Monreale, dove l’immenso Pantocratore, che domina la basilica normanna dal catino dell’abside centrale, quasi si specchia in un più piccolo mosaico riproducente il sudario che – sulla punta dell’arco dirimpettaio all’abside – contiene il volto di Gesù solcato dai segni dell’agonia: come per dire che la gigantesca figura del Pantocratore non è presunzione idolatrica, ma riproposizione della vera immagine umana di Dio miracolosamente rimasta impressa nel Mandylion. L’immagine gloriosa di Cristo, col suo volto raggiante e ornato dal nimbo dorato con inscritta la croce gemmata, vestito dei colori regali e sacerdotali propri di Colui che è stato innalzato al di sopra di tutto e di tutti, è il riflesso speculare e coerente dell’immagine del Crocifisso, dell’incoronato di spine, di Colui sulla cui tunica di servo sofferente sono stati giocati i dadi.
In questa prospettiva si riesce a intuire che è la luce della resurrezione che rende raffigurabile artisticamente il Crocifisso del Golgota e, in lui, Dio stesso. Solo alla luce della resurrezione colui che era stato violentemente privato di ogni sembianza umana rimane per sempre come la vera e unica Immagine di Dio. La resurrezione, in tal senso, sta all’inizio anche dell’iconografia e dell’arte cristiane. E ogni produzione iconografica peculiarmente cristiana non può perciò prescindere dall’evento capitale che ha trasformato la creazione e ha redento la storia. La luce pasquale, così, diventa il criterio principiale dell’arte cristiana.
La via lucis disegnata da Silvana Pierangelini Recchioni risulta dalla memoria lunga ed elaborata di quel criterio principiale. Non è un caso che l’Artista abbia già nel 1979 realizzato in terracotta una via crucis, facendola culminare – secondo una scelta allora ancora inconsueta – con una quindicesima stazione raffigurante la resurrezione.
Coerentemente, le quattordici stazioni della via lucis riprendono a dipanarsi, di nuovo, a partire dalla resurrezione, sviluppandosi dal mattino di Pasqua, allorché le pie donne prima e Pietro con Giovanni subito dopo trovano vuota la tomba, fino ai momenti culminanti dell’evento pasquale, l’Ascensione e la Pentecoste, attraverso le apparizioni del Risorto testimoniate nei vangeli: alla Maddalena, ai due di Emmaus, nel cenacolo di Gerusalemme, a Tommaso, sulla spiaggia di Tiberiade. Scenari di luce illustrati in fedele ascolto del racconto evangelico, a volte abbracciati con sguardo largo ma anche scrutati fin nel particolare centrale, come una sorta di zoomata o una sequenza di fotogrammi. Avviene così nel caso dei due discepoli di Emmaus, colti prima tristi sulla strada, al seguito del misterioso e irriconosciuto loro Compagno e poi seduti alla sua mensa mentr’egli spezza per loro il Pane. E così è anche nel caso dell’apparizione nel cenacolo, raffigurata prima nel momento dell’incontro del Risorto con tutti gli apostoli e poi nel momento dell’incontro con l’incredulo Tommaso. E com’è ancora una volta nel caso dell’apparizione al lago di Tiberiade, allorché alla scena della pesca miracolosa segue immediatamente il martellante e illuminante triplice «mi ami tu?» rivolto dal Risorto a Pietro.
Tre caratteristiche insistenti colpiscono chi guarda le stazioni della via lucis: il contrasto degli inchiostri neri sul cartone bianco, lo stupore colto sui volti, il ritmo circolare delle scene raffigurate.
Il contrasto degli inchiostri rispetto al bianco, su cui essi vengono dosati con irruenza studiata, esprime bene la vittoria della luce sulle tenebre della morte. Mentre si rimane a guardare le stazioni di questa via lucis, il buio può infatti esser immaginato come un diaframma che viene prima fiaccato e quindi smembrato, ridotto a brandelli da una luce che urge al di là di esso. In realtà la luce del Risorto non è distruttiva. È, piuttosto, salvifica. Per questo essa, investendo la lavagna nera del buio, non la travolge, pur stravolgendola. Il buio viene intarsiato di luce. E, mentre pur viene diradato per sempre, esso viene anche salvato e perciò valorizzato, dotato cioè di un valore che prima non aveva: rimane come il cesello prezioso grazie a cui la luce diventa “guardabile” umanamente: i tratti d’inchiostro segnano così le forme della luce, nel cui bagliore risultano finalmente riconoscibili i visi stupiti dei discepoli e il volto del Signore.
Lo stupore è un’altra caratteristica di questa via lucis. Lo si coglie sui volti dei personaggi raffigurati. Di volta in volta è paura, è titubanza, è dubbio, è sorpresa, oppure meraviglia, speranza, entusiasmo, gioia. Il chiaro-scuro degli inchiostri esprime bene anche questa esperienza fondamentale nell’esistenza di coloro che credono nel Risorto. Essi, come Paolo, sanno che sarebbe stata vanificata la loro fede, se Cristo non fosse davvero resuscitato. La Pasqua del loro Signore è anche il loro passaggio dalla morte antica alla vita nuova, e da tutto ciò che rappresenta la morte a ciò che la vita significa. Perciò lo stupore, nelle sue varie declinazioni e sfumature, si ritrova nella prima Domenica sul volto delle pie donne di fronte all’angelo, di Pietro e di Giovanni presso il sepolcro vuoto, di Maria di Magdala davanti al divino Giardiniere, dei due che viaggiano sulla strada di Emmaus, degli apostoli rincantucciati nel cenacolo, del primo Pescatore invitato a cena dal suo Maestro sulla spiaggia, di Tommaso piegato a combattere con la propria incredulità, di lui stesso e degli altri suoi compagni che, «con lo sguardo fisso verso il cielo» vedono prima il loro Signore tornare presso il Padre suo e poi ritornare su di loro – e sulla Madre con loro – a ricevere dall’alto la luce infuocata dello Spirito. Tutti loro sono i rappresentanti dell’uomo che si meraviglia, che si pone degli interrogativi, che si sforza di ragionare su ciò che gli altri gli riferiscono, che non si accontenta di credere ciecamente. Ma anche e soprattutto dell’uomo che si ritrova, per grazia, a fare personalmente esperienza del Risorto. Quando le pie donne, e Pietro e Giovanni, e Tommaso e i due di Emmaus, e tutti gli altri discepoli spalancano le bocche, e sgranano gli occhi, e stendono la mano verso il Risorto, fanno un’esperienza di grazia, a cui giungono allo stesso modo in cui vi giungono – nei vari tornanti della storia della salvezza – tutti i credenti: grazie all’incontro col Signore. Dalle terre di Ur alla Galilea, attraversando i deserti per giungere alle rive del lago di Tiberiade, l’appello di Dio corre sull’orizzonte biblico e incontra gli uomini. Patriarchi, profeti, giusti, pubblicani, raccoglitori di sicomori e pescatori sono sovranamente interpellati, messi alle strette, indotti ad arrendersi, persuasi a lasciarsi sedurre. Con voce discreta, più simile ad un soffio di vento leggero che al tuono terrificante, il Signore li invita a levare le tende, a togliersi i calzari, ad alzarsi nella notte, a sciogliere le vele, a lasciare il banco delle imposte, a gettare di nuovo le reti. Li spinge a fidarsi della sua promessa. E li provoca alla conversione. Essi resistono alla chiamata, con le armi di un ragionevole stupore, tipicamente e autenticamente umano: come potrà avvenire tutto ciò? perché proprio io? chi dirò che mi manda? Interrogativi pur legittimi, che si traducono in meraviglia credente allorché fiorisce l’obbedienza sulle labbra di Abramo, o di Samuele, o di Maria di Nazareth, o di Pietro e di tanti altri nell’Antico e nel Nuovo Testamento: «Ecco il tuo servo, si faccia di me secondo la tua parola». A questo punto l’irrinunciabile esercizio razionale dell’uomo viene incluso e ospitato nel suo atto di fede.
Il ritmo circolare delle scene raffigurate nella via lucis è l’altra importante caratteristica di questi inchiostri. La disposizione avvolgente delle figure, sempre strette attorno al Risorto, sempre abbracciate fra di loro e con lui, imprime difatti dinamismo al racconto, che così non si riduce ad una memoria stantia ma garantisce una Presenza che ancora e di nuovo pulsa oggi e qui. E coinvolge vitalmente, nel rapporto col Signore, chi sta al di qua, chi ammira i disegni, chi si lascia da essi interpellare. La via lucis, raffigurata nelle sue varie scene con ritmo avvolgente, risulta perciò anche coinvolgente, fatta com’è di grappoli di figure umane in cui tu senti il bisogno di entrare, di raggi luminosi da cui tu senti di voler farti colpire. C’è un’aura ecclesiale in questa via lucis, un afflato comunitario che riempie il cuore di speranza. A partire dalla Pasqua, non siamo più soli. Ci aggrappiamo anche noi, come i due di Emmaus, alle mani del Signore che spezza il pane eucaristico. Le braccia del Risorto congregano anche noi in comunità, mentre ci raggiunge la sua promessa: «Io sono con voi tutti giorni, fino alla fine».
Massimo Naro
Rettore del Seminario Vescovile di Caltanissetta
Direttore del Centro Studi Cammarata
Docente di teologia sistematica nella Facoltà Teologica di Sicilia in Palermo
28
settembre 2008
Silvana Pierangelini Recchioni – Vince la Luce
Dal 28 settembre al 31 ottobre 2008
arte contemporanea
disegno e grafica
disegno e grafica
Location
MUSEO DIOCESANO DEL SEMINARIO
Caltanissetta, Viale Regina Margherita, 29, (Caltanissetta)
Caltanissetta, Viale Regina Margherita, 29, (Caltanissetta)
Orario di apertura
lunedi - venerdi: 9-12 e 16-19, sabato e domenica: 9-12
Autore
Curatore